La coda del diavolo



Questo racconto è fatto per le persone che vanno colle mani dietro la schiena contando i sassi, per coloro che cercano il pelo nell'uovo e il motivo per cui tutte le cose umane danno una mano alla ragione e l'altra all'assurdo; per quegli altri cui si rizzerebbe il fiocco di cotone sul berretto da notte quando avessero fatto un brutto sogno, e che lascerebbero trascorrere impunemente gli Idi di Marzo; per gli spiritisti, i giuocatori di lotto, gli innamorati, e i novellieri; per tutti coloro che considerano col microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro, quando mettete la mano nel cestone della vita; per i chimici e gli alchimisti che da 5000 anni passano il loro tempo a cercare il punto preciso dove il sogno finisce e comincia la realtà, e a decomporvi le unità più semplici della verità nelle vostre idee, nei vostri principi, e nei vostri sentimenti, investigando quanta parte del voi nella notte ci sia nel voi desto, e la reciproca azione e reazione, gente sofistica la quale sarebbe capace di dirvi tranquillamente che dormite ancora quando il sole vi sembra allegro, o la pioggia vi sembra uggiosa - o quando credete d'andare a spasso tenendo sotto il braccio la moglie vostra, il che sarebbe peggio. Infine, per le persone che non vi permetterebbero di aprir bocca, fosse per dire una sciocchezza, senza provare qualche cosa, questo racconto potrebbe provare e spiegare molte cose, le quali si lasciano in bianco apposta, perché ciascuno vi trovi quello che vi cerca. Narro la storia ora che i personaggi di essa sono tutti in salvo dalle indiscrete ricerche dei curiosi; poiché dei tre personaggi - è una storia a tre personaggi, come le storie perfette, e di tutti e tre avete già indovinato l'azione, per poco pratica che abbiate di queste cose - lui è al Cairo, o lì presso, a dirigere non so che lavori ferroviari; lei è morta, poveretta! e l'altro in certo modo è morto anche lui, si è trasformato, ha preso moglie, non si rammenta più di nulla, e non si riconoscerebbe più nemmeno dinanzi ad uno specchio di dieci anni addietro, se non fossero certi calabroni petulanti e ronzanti attorno a sua moglie, che gli mettono lo specchio sotto il naso, e somigliano così a lui quand'era petulante e ronzante anch'esso, da fargli montare la mosca al naso. Insomma, tre personaggi comodissimi che non contano più, che non esistono quasi - potete anche immaginare che non siano mai esistiti. Lui e l'altro erano due buoni e bravi ragazzi, due anime gemelle, amici fin dall'infanzia, Oreste e Pilade dell'Amministrazione ferroviaria. Lui era ingegnere, l'altro disegnatore; abitavano nella medesima casa, e andavano sempre insieme, ciò che li avea fatti soprannominare i Fratelli Siamesi; si vedevano tutti i giorni all'ufficio dalle nove del mattino alle cinque della sera. Non si seppe spiegare come lui avesse potuto conoscere la Lina, farle la corte, e sposarla; - era l'unico torto in trent'anni che Damone avesse fatto al suo Pitia. Ma alla fin fine non era stato un torto nemmen quello. Pitia-Donati sulle prime avea tenuto il broncio al suo Damone-Corsi, è vero, ma il broncio non era durato una settimana. Lina era tale ragazza che si sarebbe fatta voler bene da un orso, e Donati poi non era un orso; ella sapeva quali gelosie dovesse disarmare, e col suo dolce sorriso e le sue maniere gentili e carezzevoli s'era messa tranquillamente nell'intimità dei due amici come un ramoscello d'ellera, invece di ficcarcisi come un cuneo. In capo ad alcuni mesi erano tre amici invece di due, ecco tutto il cambiamento. Donati sapeva d'avere anche una sorella oltre il fratello, e Corsi lo sapeva meglio di lui. Di tutto quello che immaginate, e che avvenne difatti, non c'era neppur l'ombra del sospetto nella mente di alcuno dei tre - altrimenti la storia che vi racconto non avrebbe avuto nulla di singolare. Più singolare ancora è che questo stato di cose sia durato otto anni, e avrebbe potuto durare anche indefinitamente. Da principio nelle manifestazioni dell'amicizia, della gran simpatia che sentivano l'un per l'altro Donati e Lina, c'era stato un leggiero imbarazzo, forse causato dal timore che potessero essere male interpretate; poi l'abitudine, la lealtà dei loro cuori, la purezza istessa di quei sentimenti, li avevano resi più espansivi, più schietti, e più fiduciosi. Donati avea assistito la Lina in una lunga e pericolosa malattia come un vero fratello avrebbe potuto fare, ed ella avea per il quasi fratello di suo marito tutte le cure, tutte le delicate premure di una sorella. La intimità delle due piccole famiglie era divenuta così cordiale, così sincera, così aperta a due battenti, che gli amici, i conoscenti, il mondo, non la stimavano né troppa, né sospetta. Così rara, ne convengo, com'era rara l'onestà di quelle anime; ma se in una sola di esse ci fosse stato del poco di buono, non avrei bisogno di tirare in campo il Fato degli antichi, o la coda del diavolo dei moderni. La sera, dopo il desinare, andavano a spasso tutti e tre. Donati dava il braccio alla Lina, e si impettiva allorché leggeva negli occhi dei viandanti «che bella donnina!». La domenica pranzavano insieme, e prendevano un palchetto al Comunale o all'Alfieri. Donati avea la smania delle sorprese; sorprese che si poteano indovinare col calendario alla mano, a Natale, a Pasqua, e il dì dell'onomastico di Lina. Arrivava con un'aria disinvolta che lo tradiva peggio delle sue tasche rigonfie come bisacce, e si fregava le mani vedendo sorridere la Lina. La sera, d'inverno, si raccoglievano nel salotto, presso il tavolino; facevano quattro chiacchiere; sfogliavano delle riviste, dei romanzi nuovi, indovinavano delle sciarade, o Lina suonava il piano. Donati aveva una pazienza ammirabile per sorbirsi il racconto dettagliato di tutti i romanzi che leggeva Lina - era il solo vizio che ella avesse - sapeva indovinare delicatamente l'arte di ascoltare, di farsi punto ammirativo, o punto interrogativo, di agitarsi sulla seggiola, di convertire lo sbadiglio in esclamazione, mentre, povero diavolo, cascava dal sonno, o capiva poco, o, semplice e tranquillo com'era, non s'interessava affatto a tutti i punti ammirativi cui si credeva obbligato dalla situazione. Spesso, risalendo nelle sue stanze, trovava dei fiori freschi


Primavera



Allorché Paolo era arrivato a Milano colla sua musica sotto il braccio — in quel tempo in cui il sole splendeva per lui tutti i giorni, e tutte le donne erano belle — avea incontrato la Principessa: le ragazze del magazzino le davano quel titolo perché aveva un visetto gentile e le mani delicate; ma soprattutto perch’era superbiosetta, e la sera, quando le sue compagne irrompevano in Galleria come uno stormo di passere, ella preferiva andarsene tutta sola, impettita sotto la sua sciarpetta bianca, sino a Porta Garibaldi. Così s’erano incontrati con Paolo, mentre egli girandolava, masticando pensieri musicali, e sogni di giovinezza e di gloria — una di quelle sere beate in cui si sentiva tanto più leggiero per salire verso le nuvole e le stelle, quanto meno gli pesavano lo stomaco e il borsellino —. Gli piacque di seguire le larve gioconde che aveva in mente in quella graziosa personcina, la quale andava svelta dinanzi a lui, tirando in su il vestitino grigio quand’era costretta a scendere dal marciapiedi sulla punta dei suoi stivalini un po’ infangati. In quel modo istesso la rivide due o tre volte, e finirono per trovarsi accanto. Ella scoppiò a ridere alle prime parole di lui; rideva sempre tutte le volte che lo incontrava, e tirava di lungo. Se gli avesse dato retta alla prima, ei non l’avrebbe cercata mai più. Finalmente, una sera che pioveva — in quel tempo Paolo aveva ancora un ombrello — si trovarono a braccetto, per la via che cominciava a farsi deserta. Gli disse che si chiamava la Principessa, poiché, come spesso avviene, il suo pudore rannicchiavasi ancora nel suo vero nome, ed ei l’accompagnò sino a casa, cinquanta passi lontano dalla porta. Ella non voleva che nessuno, e lui meno d’ogni altro, potesse vedere in qual castello da trenta lire al mese vivessero i genitori della Principessa. Trascorsero in tal modo due o tre settimane. Paolo l’aspettava in Galleria, dalla parte di via Silvio Pellico, rannicchiato nel suo gramo soprabito estivo che il vento di gennaio gli incollava sulle gambe; ella arrivava lesta lesta, col manicotto sul viso rosso dal freddo; infilava il braccio sotto quello di lui, e si divertivano a contare i sassi, camminando adagio, con due o tre gradi di freddo. Paolo chiacchierava spesso di fughe e di cannoni, e la ragazza lo pregava di spiegarle la cossa in milanese. — La prima volta che salì nella cameretta di lui, al quarto piano, e l’udì suonare sul pianoforte una di quelle sue romanze di cui le avevano tanto parlato, cominciò a capire, ancora in nube, mentre guardava attorno fra curiosa e sbigottita, si sentì venir gli occhi umidi, e gli fece un bel bacio — ma questo avvenne molto tempo dopo. Dalla modista si ciarlava sottovoce, dietro le scatole di cartone e i mucchi di fiori e di nastri sparsi sulla gran tavola da lavoro, del nuovo moroso della Principessa, e si rideva molto di quest’altro, il quale aveva un soprabitino che sembrava quello della misericordia di Dio, e non regalava mai uno straccio di vestito alla sua bella. La Principessa fingeva non intendere, faceva una spallata, e agucchiava, zitta e fiera. Il povero grande artista in erba le avea tanto parlato della gloria futura, e di tutte le altre belle cose che dovevano far corteo a madonna gloria, che ella non poteva accusarlo di essersi spacciato per un principe russo o per un barone siciliano. — Una volta ei volle regalarle un anellino, un semplice cerchietto d’oro che incastonava una mezza perla falsa — erano i primi del mese allora. — Ella si fece rossa e lo ringraziò tutta commossa — per la prima volta — gli strinse le mani forte forte, ma non volle accettare il regalo: avea forse indovinato quante privazioni dovesse costare il povero gingillo al Verdi dell’avvenire, e sì che aveva accettato assai più da quell’altro, senza tanti scrupoli, ed anche senza tanta gratitudine. Quindi, per fare onore al suo amante, si sobbarcò a gravi spese; prese a credenza una vesticciuola al Cordusio; comperò una mantellina da venti lire sul Corso di Porta Ticinese, e dei gingilli di vetro che si vendevano in Galleria Vecchia. L’altro le aveva ispirato il gusto e il bisogno di certe eleganze. Paolo non lo sapeva, lui; non sapeva nemmeno che si fosse indebitata, e le diceva: — Come sei bella così! — Ella godeva di sentirselo dire, era felice per la prima volta di non dover nulla della sua bellezza al suo amante. La domenica, quand’era bel tempo, andavano a spasso fuori la cinta daziaria, o lungo i bastioni, all’Isola Bella, o all’Isola Botta, in una di quelle isole di terraferma affogate nella polvere. Erano i giorni delle pazze spese; sicchè quand’era l’ora di pagare lo scotto, la Principessa si pentiva delle follie fatte nella giornata, si sentiva stringere il cuore, e andava ad appoggiare i gomiti alla finestra che dava sull’orto. Egli veniva a raggiungerla, si metteva accanto a lei, spalla contro spalla, e lì, cogli occhi fissi in quel quadretto di verdura, mentre il sole tramontava dietro l’Arco del Sempione, sentivano una grande e melanconica dolcezza. Quando pioveva avevano altri passatempi: andavano in omnibus da Porta Nuova a Porta Ticinese, e da Porta Ticinese a Porta Vittoria; spendevano trenta soldi e scarrozzavano per due ore come signori. La Principessa arricciava blonde e attaccava fiori di velo su gambi di ottone durante sei giorni, pensando a quella festa della domenica; spesso il giovanotto non desinava il giorno prima o il giorno dopo. Passarono l’inverno e l’estate in tal modo, giocando all’amore come dei bimbi giocano alla guerra o alla processione. Ella non accordavagli nulla più di codesto, e l’innamorato si sentiva troppo povero per osare di chieder altro. Eppure ella gli voleva proprio bene; ma aveva troppo pianto, per via di quell’altro, ed ora credeva aver messo giudizio. Non sospettava che dopo quell’altro, ora che gli voleva proprio bene, non buttarglisi fra le braccia fosse l’unica prova d’amore che il suo istinto delicato le suggerisse: povera ragazza! Venne l’ottobre; ei sentiva la grande melanconia dell’autunno, e le avea proposto di andare in campagna, sul lago. Approfittarono di un giorno in cui il babbo di lei era assente per fare una scappata, una scappata grossa che costò cinquanta lire, e andarono a Como per tutto un giorno. Quando furono all’albergo, l’oste domandò se ripartivano col treno della sera; Paolo lungo il viaggio avea domandato alla Principessa come avrebbe fatto se fosse stata costretta a rimaner la notte fuori di casa; ella avea risposto ridendo: — Direi di aver passata la notte al magazzino per un lavoro urgente —. Ora il giovane guardava imbarazzato lei e l’oste, e non osava dir altro. Ella chinò il capo e rispose che partivano il domani; quando furono soli si fece di bracia — così gli si lasciò andare. Oh, i bei giorni in cui si passeggiava a braccetto sotto gli ippocastani fioriti senza nascondersi, senza vedere le belle vesti di seta che passavano nelle carrozze a quattro cavalli, e i bei cappelli nuovi dei giovanotti che caracollavano col sigaro in bocca! le domeniche in cui si andava a far baldoria con cinque lire! le belle sere in cui stavano un’ora sulla porta, prima di lasciarsi, scambiando venti parole in tutto, tenendosi per mano, mentre i viandanti passavano affrettati! Quando avevano cominciato non credevano che dovessero arrivare a volersi bene sul serio; — ora che ne avevano le prove sentivano altre inquietudini. Paolo non le avea mai parlato di quell’altro di cui avea indovinato l’esistenza fin dalla prima volta che Principessa si era lasciata mettere sotto il suo ombrello; l’avea indovinato a cento nonnulla, a cento particolari insignificanti, a certo modo di fare, al suono di certe parole. Ora ebbe un’insana curiosità. — Ella possedeva in fondo una gran rettitudine di cuore, e gli confessò tutto. Paolo non disse nulla; guardava le cortine di quel gran letto d’albergo su cui delle mani sconosciute avevano lasciato ignobili macchie. Sapevano che quella festa un giorno o l’altro avrebbe avuto fine; lo sapevano entrambi e non se ne davano pensiero gran fatto, — forse perché avevano ancora dinanzi la gran festa della giovinezza. — Lui anzi si sentì come alleggerito da quella confessione che la ragazza gli avea fatto, quasi lo sdebitasse di ogni scrupolo tutto in una volta, e gli rendesse più agevole il momento di dirle addio. A quel momento ci pensavano spesso tutt’e due, tranquillamente, come cosa inevitabile, con certa rassegnazione anticipata e di cattivo augurio. Ma adesso si amavano ancora e si tenevano abbracciati. — Quando quel giorno arrivò davvero fu tutt’altra storia. Il povero diavolo avea gran bisogno di scarpe e di quattrini; le sue scarpe s’erano logorate a correr dietro le larve dei suoi sogni d’artista, e della sua ambizione giovanile, — quelle larve funeste che da tutti gli angoli d’Italia vengono in folla ad impallidire e sfumare sotto i cristalli lucenti della Galleria, nelle fredde ore di notte, o in quelle tristi del pomeriggio. Le meschine follie del suo amore costavano care! A venticinque anni, quando non s’è ricchi d’altro che di cuore e di mente, non si ha il diritto di amare, fosse anche una Principessa; non si ha il diritto di distogliere lo sguardo, fosse anche per un sol momento, sotto pena di precipitare nell’abisso, dalla splendida illusione che vi ha affascinato e che può farsi la stella del vostro avvenire; bisogna andare avanti, sempre avanti, cogli occhi intenti in quel faro, avidi, fissi, il cuore chiuso, le orecchie sorde, il piede instancabile e inesorabile, dovesse camminare sul cuore istesso. Paolo fu malato, e nessuno seppe nulla di lui per tre interi giorni, nemmen la Principessa. Erano incominciati i giorni squallidi e lunghi in cui si va a passeggiare nelle vie polverose fuori le porte, a guardare le mostre dei gioiellieri, e a leggere i giornali appesi agli sportelli delle edicole, i giorni in cui l’acqua che scorre sotto i ponti del Naviglio dà le vertigini, e guardando in alto si vedono sempre le guglie del Duomo che vi affascinano. La sera, quando aspettava in via Silvio Pellico, faceva più freddo del solito, le ore erano più lunghe, e la Principessa non aveva più la solita andatura svelta e leggiadra. In quel tempo gli capitò addosso una fortuna colossale, qualcosa come quattromila lire all’anno perché andasse a pestare il piano pei caffe e i concerti americani. Accettò colla stessa gioia come se avesse avuto il diritto di scegliere: dopo pensò alla Principessa. La sera, la invitò a cena, in un gabinetto riservato dei Biffi, al pari di un riccone dissoluto. Avea avuto un acconto di cento lire e ne spese buona parte. La povera ragazza spalancava gli occhi a quel festino da Sardanapalo, e dopo il caffè, col capo alquanto peso, appoggiò le spalle al muro, seduta come era sul divano. Era un po’ pallida, un po’ triste, ma più bella che mai. Paolo le metteva spesso le labbra sul collo, vicino alla nuca; ella lo lasciava fare, e lo guardava con occhi attoniti, quasi avesse il presentimento di una sciagura. Ei sentivasi il cuore stretto in una morsa, e per dirle che le voleva un gran bene le domandava come avrebbero fatto quando non si fossero più visti. La Principessa stava zitta, volgendo il capo dalla parte dell’ombra, cogli occhi chiusi, e non si muoveva per dissimulare certi lagrimoni grossi e lucenti che scorrevano e scorrevano per le guance. Allorché il giovane se ne accorse ne fu sorpreso: era la prima volta che la vedeva piangere. — Cos’hai? — domandava. Ella non rispondeva, o diceva — nulla! — con voce soffocata; — diceva sempre così, ch’era poco espansiva, e aveva superbiette da bambina. — Pensi a quell’altro? — domandò Paolo per la prima volta. — Sì! — accennò ella col capo, — sì — ed era vero. Allora si mise a singhiozzare. L’altro! voleva dire il passato: voleva dire i bei giorni di sole e d’allegria, la primavera della giovinezza, il suo povero affetto destinato a strascinarsi così, da un Paolo all’altro, senza pianger troppo quand’era gaio; voleva dire il presente che se ne andava, quel giovane che oramai faceva parte del suo cuore e della sua carne, e che sarebbe divenuto un estraneo anche lui, fra un mese, fra un anno o due. Paolo in quel momento ruminava forse vagamente i medesimi pensieri e non ebbe il coraggio di aprir bocca. Soltanto l’abbracciò stretto stretto e si mise a piangere anche lui. — Avevano cominciato per ridere. — Mi lasci? — balbettò la Principessa. — Chi te l’ha detto? — Nessuno, lo so, lo indovino. Partirai? — Ei chinò il capo. Ella lo fissò ancora un istante cogli occhi pieni di lagrime, poi si voltò in là, e pianse cheta cheta. Allora, forse perché non avea la testa a casa, o il cuore troppo grosso, ricominciò a vaneggiare, e gli raccontò quel che gli aveva sempre nascosto per timidità o per amor proprio; gli disse com’era andata con quell’altro. A casa non erano ricchi, per dir la verità; il babbo aveva un piccolo impiego nell’amministrazione delle ferrovie, e la mamma ricamava; ma da molto tempo la sua vista s’era indebolita, e allora la Principessa era entrata in un magazzino di mode per aiutare alquanto la famiglia. Colà, un po’ le belle vesti che vedeva, un po’ le belle parole che le si dicevano, un po’ l’esempio, un po’ la vanità, un po’ la facilità, un po’ le sue compagne e un po’ quel giovanotto che si trovava sempre sui suoi passi, avevano fatto il resto. Non avea capito di aver fatto il male, che allorquando aveva sentito il bisogno di nasconderlo ai suoi genitori: il babbo era un galantuomo, la mamma una santa donna; sarebbero morti di dolore se avessero potuto sospettare la cosa, e non l’aveano mai creduto possibile, giacché avevano esposto la figliuola alla tentazione. La colpa era tutta sua... o piuttosto non era sua; ma di chi era dunque? Certo che non avrebbe voluto conoscere quell’altro, ora che conosceva il suo Paolo, e quando Paolo l’avrebbe lasciata non voleva conoscer più nessuno... Parlava a voce bassa, sonnecchiando, appoggiando il capo sulla spalla di lui. Allorché uscirono dal Biffi indugiarono alquanto pel cammino, rifacendo tutta la triste via crucis dei loro cari e mesti ricordi: la cantonata dove s’erano incontrati, il marciapiedi sul quale s’erano fermati a barattar parole la prima volta. — To’! — dicevano, — è qui! — No è più in là —. Andavano come oziando, intontiti; nel separarsi si dissero — a domani —. Il giorno dopo Paolo faceva le valige, e la Principessa, inginocchiata dinanzi al vecchio baule sgangherato, l’aiutava ad assestavi le poche robe, i libri, le carte di musica sulle quali ella avea scarabocchiato il suo nome, in quei giorni là. — Quei panni glieli aveva visti indosso tante volte! — una cosa copriva l’altra, e stringeva il cuore il vederle scomparire così, una alla volta. Paolo le porgeva ad uno ad uno i panni che andava a prendere dal cassettone o dall’armadio; ella li guardava un momento, li voltava e rivoltava, poi li riponeva per bene, senza che facessero una piega, fra le calze e i fazzoletti; non dicevano molte parole, e mostravano d’aver fretta. La ragazza avea messo da banda un vecchio calendario sul quale Paolo soleva fare delle annotazioni. — Questo me lo lascerai? — gli disse. Ei fece cenno di sì senza voltarsi. Quando il baule fu pieno rimanevano ancora qua e là, su per le seggiole e il portamantelli, dei panni logori e il vecchio soprabito. — A quella roba penserò domani, — disse Paolo; la ragazza premeva sul coperchio col ginocchio mentre egli affibbiava le corregge; poi andò a raccogliere il velo e l’ombrellino che aveva lasciati sul letto e si mise a sedere sulla sponda tristamente. Le pareti erano nude e tristi; nella camera non rimaneva altro che quella gran cassa, e Paolo il quale andava e venia, frugando nei cassetti, e raccogliendo in un gran fagotto le altre robe. La sera andarono a spasso l’ultima volta. Ella gli si appoggiava al braccio timidamente, quasi l’amante cominciasse a diventare un estraneo per lei. Entrarono al Fossati, come nei giorni di festa, ma partirono di buon’ora, e non si divertirono molto. Il giovine pensava che tutta quella gente lì ci sarebbe tornata altre volte e avrebbe trovato la Principessa — ella, che non avrebbe più visto Paolo fra tutta quella gente. Solevano bere la birra in un caffeuzzo al Foro Bonaparte; Paolo amava quella gran piazza per la quale avea passeggiato tante volte, nelle sere di estate, colla sua Principessa sotto il braccio. Da lontano s’udiva la musica del caffe Gnocchi, e si vedevano illuminate le finestre rotonde del Teatro Dal Verme. Di tratto in tratto, lungo la via oscura, formicolavano dei lumi e della gente dinanzi i caffè e le birrerie. Le stelle sembravano tremolare in un azzurro cupo e profondo; qua e là, nel buio dei viali e fra mezzo agli alberi, luccicava una punta di gas, davanti alla quale passavano a due a due delle ombre nere e tacite. Paolo pensava: — Ecco l’ultima sera! — S’erano messi a sedere lontano dalla folla, nel cantuccio meno illuminato, volgendo le spalle ad una controspalliera di arbusti rachitici piantati in vecchie botti di petrolio; la Principessa strappò due fogliuzze e ne diede una a Paolo — altre volte si sarebbe messa a ridere. — Venne un cieco che strimpellava un intero repertorio sulla chitarra; Paolo gli diede tutti i soldoni che aveva in tasca. Si rividero un’ultima volta alla stazione, al momento della partenza, nell’ora amara dell’addio affrettato, distratto, senza pudore, senza espansione e senza poesia, fra la ressa, l’indifferenza, il frastuono e la folla della partenza. La Principessa seguiva Paolo come un’ombra, dal registro dei bagagli allo sportellino dei biglietti, facendo tanti passi quanti ne faceva lui, senza aprir bocca, col suo ombrellino sotto il braccio: era bianca come un cencio e null’altro. — Egli al contrario era tutto sossopra e avea un’aria affaccendata. Al momento d’entrare nella sala d’aspetto un impiegato domandò i biglietti; Paolo mostrò il suo; ma la povera ragazza non ne aveva; — colà dunque si strinsero la mano in fretta dinanzi un mondo di gente che spingeva per entrare, e l’impiegato che marcava il biglietto. Ella era rimasta ritta accanto all’uscio, col suo ombrellino fra le mani, come se aspettasse ancora qualcheduno, guardando qua e là i grandi avvisi incollati alle pareti, e i viaggiatori che andavano dallo sportello dei biglietti alle sale d’aspetto; li accompagnava con quello stesso sguardo imbalordito dentro la sala, e poi tornava a guardare gli altri che giungevano. Infine, dopo dieci minuti di quell’agonia, suonò la campana, e s’udì il fischio della macchina. La ragazza strinse forte il suo ombrellino, e se ne andò lenta lenta, barcollando un poco; fuori della stazione si mise a sedere su di un banco di pietra. — Addio! tu che te ne vai, tu con cui il mio cuore ha vissuto! Addio tu che sei andato prima di lui! Addio tu che verrai dopo di lui, e te ne andrai come lui se n’è andato, addio! — Povera ragazza! E tu, povero grande artista da birreria, va a strascinare la tua catena; va a vestirti meglio e a mangiare tutti i giorni; va ad ubbriacare i tuoi sogni di una volta fra il fumo delle pipe e del gin, nei lontani paesi dove nessuno ti conosce e nessuno ti vuol bene; va a dimenticare la Principessa fra le altre principesse di laggiù, quando i danari raccolti alla porta del caffè avranno scacciato la melanconica immagine dell’ultimo addio scambiato là, in quella triste sala d’aspetto. E poi, quando tornerai, non più giovane, né povero, né sciocco, né entusiasta, né visionario come allora, e incontrerai la Principessa, non le parlare del bel tempo passato, di quel riso, di quelle lagrime, ché anche ella si è ingrassata, non si veste più a credenza al Cordusio, e non ti comprenderebbe più. E ciò è ancora più triste — qualchevolta.


X



Quella fatale tendenza verso l’ignoto che c’è nel cuore umano, e si rivela nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del bambino, è uno dei principali caratteri dell’amore, direi la principale attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime — e di cui la triste scienza inaridisce il cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati — o assai più modesti, secondo il punto di vista — e non verrebbe che l’ultimo nella scala dei sentimenti? La ragione della sua caducità starebbe nella sua essenza più intima? e il terribile dissolvente che c’è nella sazietà, o nel matrimonio, dipenderebbe dall’insensato soddisfacimento d’una pericolosa curiosità? La colpa più grave del fanciullo—uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle carezze e coi baci il congegno nascosto del giocattolo—donna, il quale ieri ancora, gli faceva tremare il cuore in petto come foglia? All’ultimo veglione della Scala, in mezzo a quel turbine d’allegria frenetica, avevo incontrato una donna mascherata, della quale non avevo visto il viso, di cui non conoscevo il nome, che non avrei forse riveduta mai più, e che mi fece battere il cuore quando i suoi sguardi s’incontrarono nei miei, e mi fece passare una notte insonne, col suo sorriso sempre dinanzi agli occhi, e negli orecchi il fruscìo del raso del suo dominò. Ella appoggiavasi al braccio di un bel giovanotto, era circondata dagli eleganti del Circolo, adulata, corteggiata, portata in trionfo; era svelta, elegante, un po’ magrolina, avea due graziose fossette agli òmeri, le braccia delicate, il mento roseo, gli occhi neri e lucenti, il collo eburneo, un po’ troppo lungo ed esile, ombreggiato da vaghe sfumature, là dove folleggiavano certi ricciolini ribelli; il suo sorriso era affascinante; vestiva tutta di bianco, con una gala di nastro color di rosa al cappuccio, e faceva strisciare sul tappeto il lembo della veste, come una regina avrebbe fatto col suo manto. Tutto ciò insieme a quel pezzettino di raso nero che le celava il viso, ricamato da tutti i punti interrogativi della curiosità, dove brillavano i suoi occhi, e dietro al quale l’immaginazione avrebbe potuto vedere tutte le bellezze della donna, e porla su tutti i gradini della scala sociale. Ella imponeva l’ingenuità, la grazia, il pudore di una fanciulla da collegio in mezzo ad un crocchio di uomini, fra i quali una signora per bene non sarebbesi avventurata neppure in maschera. Era seduta colle spalle rivolte alla sala accanto al suo giovanotto, e gli parlava come parlano le donne innamorate, divorandolo cogli occhi, e facendogli indovinare i vaghi rossori che scorrevano sotto la sua maschera, e i sorrisi affascinanti; gli posava la mano sulla spalla, e l’accarezzava col ventaglio; sembrava che si facesse promettere qualche cosa, con una insistenza affettuosa e carezzevole. Io avrei dato qualunque cosa per essere al posto di quel giovanotto, il quale sembrava mediocremente lusingato di quella preferenza; avrei voluto indovinare tutto ciò che non potevo udire, tutto ciò che si agitava nel cuore di lei; avrei voluto penetrare attraverso la seta di quella maschera; l’incognito di quel viso, di quella persona, e di quel modesto romanzetto sbocciato al gas della Scala aveva mille attrattive per un osservatore. La mia simpatia, o la mia curiosità, avrà dovuto penetrarla come corrente elettrica; perché si volse a guardarmi due o tre volte, con quei suoi occhioni neri; poi si alzò, prese il braccio del suo compagno e si allontanò. Sembrommi che all’allegria di quella festa fosse succeduta una inesplicabile musoneria, che mi mancasse qualche cosa; la cercavo con un’avida speranza di rivederla, quasi cotesta sconosciuta fosse diggià qualche cosa per me. Sul tardi ci trovammo di nuovo faccia a faccia accanto alla porta, mentre ella usciva dalla sala ed io vi rientravo. Rimanemmo immobili, guardandoci fissamente a lungo, come due che si conoscono, quasi anch’io, dopo averla guardata tre o quattro volte durante la sera, fossi diventato qualche cosa per lei, il cuore mi batteva e sentivo che doveva battere anche a lei; sembravami che entrambi bevessimo qualche cosa l’uno negli occhi dell’altra; assaporavo il suo sorriso assai prima che le sue labbra si schiudessero: ella mi sorrise infatti — un getto di buonumore e di simpatia che diceva: «So che ti piaccio, e anche tu mi piaci!». La parola più affettuosa, la lingua più dolce del mondo, non avrebbero potuto riprodurre l’eloquenza di quel sorriso; il pensatore più eminente, o l’uomo di mondo più spensierato, non avrebbe potuto analizzare quel sentimento che irrompeva improvviso in un’occhiata, fra due persone che s’incontravano in mezzo alla folla, come due viaggiatori che partono per opposte direzioni s’incontrano in una stazione, l’una accanto ad uomo che amava forse ancora, l’altro che avea visto il braccio di lei sull’òmero di quell’uomo. Due o tre volte ella si rivolse a guardarmi collo stesso sorriso, ed io la seguii, senza sapere io stesso dietro a quale lusinga corressi. La folla me la fece perdere di vista; la cercai inutilmente nel ridotto, pei corridoi, nel caffè, in platea, da Canetta, in quei palchi che potei passare in rassegna, dappertutto. Avevo la febbre di uno strano desiderio; divoravo cogli occhi tutti i dominò bianchi, tutte le vesti che avessero ondulazioni graziose. A un tratto me la vidi improvvisamente dinanzi, o piuttosto incontrai il suo sguardo che mi cercava. Io dava il braccio ad una donna che rivedevo quella sera dopo lungo tempo. Nello sguardo dell’incognita c’era una muta interrogazione; ella mi sorrise di nuovo; non potei far altro che mandarle un saluto mentre mi passava accanto; ella si voltò vivamente, mi lanciò a bruciapelo uno sguardo ed un sorriso e ripeté: — Addio! — Non dimenticherò mai più quella voce e quell’accento! Non la vidi più. Rimasi a digerire il mio dispetto e il cicaleccio della mia compagna. Sognai tutta la notte, senza chiudere gli occhi, quel viso che non conoscevo; sentivami in cuore un solco luminoso lasciatovi da quello sguardo; l’impossibilità di rintracciarla dava all’apparizione di quella sconosciuta un prestigio di cosa straordinaria; nel sorriso di lei io poteva immaginare un poema d’amore, che riceveva tutto l’interesse dall’essere troncato sul fiore e per sempre. Per sempre! non è parola che scuote maggiormente l’animo umano? Io prolungai quel sogno per tutto il giorno. Sembravami che ci fosse qualche cosa di nuovo in me, e che avessi ricevuto il sacramento di una perdita immensa. Quando la mia immaginazione si stancò di vagare nelle azzurre immensità dell’ignoto, per una reazione naturale del pensiero, io guardai con sorpresa nel mio cuore, e domandai a me stesso, se mi fossi innamorato di quel pezzettino di raso nero che nascondeva un viso sconosciuto. Lo sguardo di quell’incognita mi aveva messo il cuore in sussulto mentre davo il braccio ad un’altra donna che un tempo avevo amato come un pazzo, e che in quel momento istesso si esponeva al più grave pericolo per me. Io maledivo l’ostinazione di cotesto affetto che mi impediva di correre dietro alla sconosciuta con tutto l’egoismo che c’è in un altro amore. Per due o tre giorni cercai ansiosamente quell’amante che non conoscevo, e sentivo che il rivederla mi avrebbe tolto qualche cosa di Lei. La rividi in Galleria, la riconobbi a quello sguardo e a quel sorriso che mi dicevano: «Son io, mi ravvisi?». Mi sentivo spinto fatalmente verso di lei, e venti volte fui sul punto di prenderle la mano al cospetto delle persone che l’accompagnavano. In piazza della Scala si rivolse due o tre volte per vedere se la seguissi. Le vaghe incertezze, le gioie tumultuose, i febbrili desideri dell’amore a vent’anni mi inondarono il cuore in una volta: l’ondeggiare della sua veste sembravami avesse qualche cosa di carezzevole; il suo paltoncino bianco, e il fazzoletto che pel freddo si teneva sul viso, avevano irradiazioni luminose. Io non saprei ridire l’emozione che provai al pensiero di poterle dare il braccio, o di poter toccare un lembo di quel fazzoletto. Ad un tratto ella attraversò la via, insieme alla sua compagna, e seguìta dalla sua scorta di parenti, camminando sulla punta dei piedi e rialzando il lembo del suo vestito, venne a mettersi al mio fianco. Mi guardò in viso, come se aspettasse qualche cosa da me. Io sentii un dolore acuto, e volsi le spalle. La rividi ancora parecchie volte, e gli occhi di lei mi domandavano: — Cos’hai? — io non osavo dirle: — Non mi piaci più —. Ella si stancò di sollecitare i miei sguardi, e quando mi incontrò volse altrove il capo. Una sera, sotto il portico della Scala, sentii afferrarmi la mano da una mano tremante che vi lasciò un bigliettino microscopico. Mi rivolsi vivamente: non vidi che visi sconosciuti, e un po’ più lungi la mia incognita che si allontanava senza guardarmi; sebbene fosse passata così lontano, sebbene da qualche tempo distogliesse da me lo sguardo con indifferenza, tutte le volte che mi incontrava, il mio pensiero corse a lei senza esitare un momento, nello stesso tempo che per una strana contraddizione tacciavo di follia il mio presentimento. Una sola parola riempiva tutto il biglietto: «Seguitemi». Chi? dove? perché? Coteste interrogazioni diedero colori di fuoco a quella semplice parola; il mistero che vi era racchiuso si rannodava, con logica irresistibile, a quell’incognita, e le ridava tutta quella vaga e indefinibile attrattiva che il vedermela al fianco, sotto il fanale a gas, avea fatto svanire in un lampo; il dubbio d’ingannarmi mi mise addosso mille impazienze. Ella non sembrava nemmeno accorgersi di me — io la seguii. Quando la porta della sua casa mi si chiuse in faccia rimasi in mezzo alla strada, senza avere la forza di andarmene, coi piedi nella neve, tutte le finestre della via che mi guardavano, e i questurini che venivano a passarmi vicino. Dalle undici alle due del mattino io non ebbi un momento di esitazione o di stanchezza; non dubitai un istante. Udii aprire pian piano la porta, e vidi nell’ombra dell’arcata una forma bianca. Ella tremava come una foglia quando le toccai la mano; sembrava che avesse la febbre; mi disse con voce strozzata dalla commozione: — Che avete? che vi ho fatto? ditemelo — come se ci conoscessimo da dieci anni. Certe situazioni, certe parole, certe inflessioni di voce hanno significazioni evidenti, irresistibili; la giovinetta che avevo incontrata al veglione, in mezzo ad uomini che portavano in trionfo Cora Pearl, e la quale mi gettava le braccia al collo nel buio di una scala, dava la più luminosa prova di candore coll’espansione della sua simpatia: sentimento strano che non sapevo spiegare, e di cui non osavo chiederle ragione. Nella sua fiducia c’era tanta innocenza che avrei voluto rubarle gli orecchini per insegnarle a diffidare degli uomini. Sentivo fra le mie le sue povere mani tremanti, e le sue parole sommesse sembrava che mi sfiorassero il viso come un bacio. Certi sentimenti inesplicabili hanno un fondamento essenzialmente materiale; tutto l’incanto di quell’ora di paradiso stava nel buio di quella scala. Sembravami che le larve dell’ideale avessero preso corpo e mi stringessero le mani: — Io ti son piaciuta senza che tu mi avessi vista in viso, — ella mi disse. — Ecco perché ti amo — e non mi domandò nemmeno come mi chiamassi. Ella si fece promettere che sarei tornato a vederla la notte seguente. Ahimè! insensata promessa che rimpiccioliva il desiderio nelle meschine proporzioni di un volgare appuntamento. Noi avremmo dovuto inventare tutti gli ostacoli che mancavano alla nostra felicità, o non rivederci mai più. La notte seguente tornai da lei con un sentimento penoso, come se avessi perduto qualche cosa. La rividi nel suo salottino, raggiante di bellezza, ed il cuore mi si dilatò di gioia, quasi le prime sensazioni della sciagura fossero piacevoli; contemplavo avidamente quelle leggiadre sembianze che s’imporporavano per me, e in mezzo alla festa del mio cuore sentivo insinuarsi un vago turbarmento — il mio ideale svaniva; tutto quello che c’era in quella bellezza veramente incantevole era tolto ai miei sogni; sembravami che il mio pensiero si fosse impoverito trovandosi costretto nei limiti della realtà. — Che hai? — mi disse. — Nulla, — risposi, — c’e troppa luce qui —. Ella, povera ragazza, moderò la fiamma della lucerna. Non si avvedeva del turbamento che c’era in me, e non avea paura della funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano. Parlava sorridente, giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò la sua storia, una di quelle storie che l’angelo custode ascolta sorridendo. Aveva amato il cugino con cui l’avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco per lui, e il cugino, in capo a due o tre giomi di esitazione, le avea fatto capire bellamente che non l’amava più. Allora, dopo le prime lagrime, ella avea pensato a quello sconosciuto che al veglione della Scala l’avea guardata in quel modo. — Io ti ho letto negli occhi che ti piacevo, — mi disse, — e ti sorrisi perché ciò mi rendeva tutta lieta; in quel momento avevo un gran dolore in cuore. Se mio cugino avesse seguitato ad amarmi, io non te lo avrei mai detto, ma ti avrei sempre voluto bene come ad un fratello. Ora che mio cugino non vuol saperne più di me... ebbene, anch’io voglio amare chi più mi piace! — Tossiva di quanto in quanto, le guance le si imporporavano, e gli occhi le si facevano umidi. — Non mi dire che mi sposerai, se vuoi lasciarmi come quell’altro... Sono stata tanto malata! — Addio! — le dissi. — Tornerai domani? La zia va dalle mie cugine, non aver paura; tornerai? — Addio —. Non la vidi più. Sentii che mi sarei trovato umile e basso dinanzi alla fiducia e all’entusiasmo di quell’amore che non dividevo più. E sentivo del pari di aver perduto irremissibilmente un tesoro. In novembre ricevetti una lettera listata di nero; era lo stesso carattere che aveva scritto seguitemi; le mani mi tremavano prima d’aprirla: Se volete ripetere l’addio che deste ad una mascherina all’ultimo veglione della Scala, scrivevami, recatevi al Cimitero fra una settimana, e cercate della croce sulla quale sarà scritto X. Quella lettera, per un caso che farebbe credere alla fatalità, s’era smarrita alla posta, e mi pervenne con qualche giorno di ritardo. Io volai a quella casa che non avevo più riveduta; scorgendo le persiane chiuse, il cuore mi si strinse dolorosamente. Corsi al Cimitero, senza osare di credere al presagio funesto di quella lettera; al primo viale che infilai, quasi il destino si fosse incaricato di guidare i miei passi, alla prima terra smossa di fresco, su di una croce di ferro, lessi quel segno che ella avea desiderato sulla tomba, triste geroglifico del suo amore; e lì, coi ginocchi nella polvere, mi parve di guardare in un immenso buio, tutto riempito dalla figura della mia incognita, dal suo sorriso, dal suono della sua voce, delle parole che mi ha dette, dai luoghi dove l’avevo vista. Sentii un gran freddo.


Certi argomenti



C’era un aneddoto che dopo più di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola rotonda dell’Albergo di Russia, a Napoli, quando i tre o quattro ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal cominciar del novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia. A quella medesima tavola s’erano incontrati un tale Assanti, uomo elegante ed uomo di spirito, ed una signora Dal Colle, donna elegante e donna di spirito, un po’ civetta, capricciosa e bizzarra, sul conto della quale si raccontavano certe storielle singolari, ben inteso senza provarne una sola, e che veniva ad epoche fisse, come una rondine, da Baden, da Vienna o da Parigi. Tra i due commensali e vicini di tavola si era dichiarata una decisa e poco velata antipatia, non ostante che fossero entrambi persone assai bene educate, e scambiassero alle volte, il meno che potevano, degli atti e delle parole di cortesia. Una sera, dopo il caffè, Assanti, trovandosi nella sala dei fumatori, insieme a tre o quattro amici che parlavano della sua vicina, avea motivato la sua antipatia con un lusso di buon umore che aveva fatto rider tutti. Ad un tratto però si fece silenzio come per incanto, la signora Dal Colle passava nella sala contigua per andare a mettersi al pianoforte, come soleva fare qualche volta. — Ha udito tutto! — Non ha potuto udire! — dicevano sommessamente fra di loro quei signori. Il solo colpevole non se n’era preoccupato gran fatto. Si strinse nelle spalle, e disse ridendo: — Or ora vedremo se ha udito —. La signora scartabellava dei quaderni di musica, e non voltava nemmeno la testa; Assanti le si avvicinò col più bell’inchino, e le domandò tranquillamente: — Scusi, ha udito quel che dicevamo a proposito di lei? — Ella gli piantò in faccia i due grand’occhi ben aperti, due occhi innocenti o traditori, e rispose colla massima disinvoltura: — Scusi, perché mi fa questa domanda? — Perché abbiamo scommesso d’indovinare quel che avrebbe suonato stassera —. La donna sorrise, inchinò il capo, e incominciò a suonare la Bella Elena. — Signori, — disse Assanti voltandosi verso i suoi amici, che rimanevano mogi e ingrulliti, — avete perduto —. Infatti sembrava impossibile che una donna potesse restare così bene nei gangheri dopo avere udito tutto quel che si era detto nella sala dei fumatori; e, cosa strana, un po’ per la novità della cosa, un po’ per obbligo di cortesia, Assanti, discorrendo con la Dal Colle di musica e d’altro, avea osservato come più d’una volta cane e gatta si fossero trovati d’accordo, sicché il discorso era andato per le lunghe, e gli amici, ad uno ad uno, se l’erano sgattaiolata. — Non ha udito nulla! — pensava Assanti. Ad un tratto, quando furono soli, cambiando improvvisamente accento e maniere, la Dal Colle domandò, puntandogli contro quegli occhi indiavolati: — È contento che gli abbia fatto vincere la scommessa, mio signor nemico? — Egli s’inchinò e stette coraggiosamente ad aspettar l’assalto. — Perché ci facciamo la guerra? — riprese ella con un altro tono di voce. — Perché ella mi faceva paura. — Oh! oh! eccoci in piena galanteria! Ebbene, mio bel cavaliere, quando mi salterà in capo di vendicarmi ne incaricherò voi stesso. Ma francamente, non sarebbe stato meglio che fossimo andati d’accordo fin da principio? — Facciamo la pace allora. — Adesso è troppo tardi. — Perché? — Perché, perché... — disse alzandosi, — prima di tutto perché ora vi detesto — e poi perché fra due o tre settimane partirò. — Vi seguirò. — Dove? — Dove andrete! — Ma non lo so dove andrò; né lo saprete voi. Nemici dunque —. Assanti la salutò ridendo, ma dovette convenire che la sua graziosa nemica poteva avere tutti i difetti, all’infuori di uno. Il domani, mentre si vestiva per andare a pranzo, trovò sul tavolino un biglietto scritto da mano sconosciuta. «Venite al n. 11, a mezzanotte. Non bussate.» Egli si mise a ridere, e disse fra di sé: — Non v’è dubbio, ha udito tutto; ma il tranello è troppo grossolano per una donna di spirito! che peccato! — La signora Dal Colle non era venuta a tavola. Assanti sorrise più di una volta sotto i baffi volgendo gli occhi a quel posto vuoto. Dopo desinare andò a teatro, e non ci pensò più. Finita l’opera, passò una mezz’ora al caffè di Europa, e quando tornò all’albergo il gas era spento. Passando pel corridoio, dinanzi all’uscio di quel famoso numero undici, si rammentò un’altra volta del biglietto che avea in tasca e involontariamente rallentò il passo. Si mise alla finestra, fumò il suo sigaro, lesse il suo giornale, e poi andò a letto. Il letto era duro ed uggioso insolitamente quella notte; faceva caldo, e Assanti avea un bel voltarsi e rivoltarsi senza poter chiudere occhio. Quelle due linee sottili che teneva chiuse nel portafogli posto sulla tavola a capo del letto, sgusciavano fuori della busta, s’allungavano serpeggiando in ghirigori per le pareti, gli si attortigliavano alle sbarre del cortinaggio, s’insinuavano sotto l’uscio, e guizzavano pel corridoio oscuro, lasciando sul tappeto una striscia fosforescente. Spense il lume, lo riaccese, rilesse il bigliettino, stavolta senza ridere, ché l’odore del foglietto profumato gli dava alla testa, spense il lume di nuovo per addormentarsi, e fu peggio di prima; nelle tenebre faceva sogni stravaganti ad occhi aperti; vedeva quell’uscio del numero undici socchiuso, una forma bianca che sporgeva la testa dal vano, e quella donna, per la quale il giorno innanzi non avrebbe mosso un dito, ora che gli era passata pel capo sotto altro aspetto, un solo istante, per ischerzo, assumeva forme e sorrisi affascinanti. Il sangue gli martellava nelle vene. Finalmente si vestì a guisa di sonnambulo, quasi non avesse coscienza di quel che facesse; arrivò a mettere la mano sulla maniglia dell’uscio, e tornò a cacciarsi frettolosamente fra le coltri, vergognoso della ridicola tentazione alla quale avea ceduto con facilità inesplicabile, come se la sua nemica avesse potuto vederlo e dargli la baia. La notte dormì male, e si levò di cattivo umore. All’ora del pranzo trovò la Dal Colle al suo solito posto, gaia e disinvolta come se nulla fosse stato, e civetta più che mai. Non gli fece l’onore di accorgersi menomamente di lui, e una volta gli lanciò a bruciapelo uno sguardo schernitore che avrebbe fatto montare la mosca al naso ad un uomo meno padrone di sé dell’Assanti. Egli si era fatto il suo piano di rappresaglie e di allusioni pungenti, ma aspettò inutilmente tutta la sera nel salotto dove la Dal Colle soleva far della musica. A poco a poco, a suo dispetto, quel sangue freddo, quella sicurezza, quella disinvoltura, lo dominavano e lo facevano arrabbiare. Evidentemente costei che l’aveva vinto con la burla più grossolana del mondo era più forte di lui; sapeva che sarebbe bastato un nonnulla, un cattivo scherzo, per insinuarglisi tutta nelle fibre come una spina, impadronirsene, metterlo sossopra, e agitarlo co’ suoi menomi capricci. Dopo che la Dal Colle si era data la soddisfazione di quella piccola vendetta da donna, sembrava non pensasse più ad Assanti, e si lasciava fare la corte da un certo barone Ciriani, il quale passava per un don Giovanni, inclusa la bravura e la fortuna di duellista; ora ad Assanti sembrava che la Dal Colle in quel lasciarsi corteggiare, così sotto i suoi occhi, ci mettesse dell’ostentazione, e questo lo seccava assai. La furba sapeva al certo che si può fare a fidanza, toccando certi tasti, colla semplicità mascolina, s’avesse a fare coll’uomo più avveduto di questo mondo. Era bastata la lusinga più lontana, più sciocca, più inverosimile, perché Assanti si montasse la testa a poco a poco, sino a credere che i successi ottenuti dal Ciriani fossero rubati a lui, e che la civetteria di lei fosse un torto che gli si faceva. Il brillante giovanotto era ridotto alla più grulla figura possibile; cominciava ad accorgersene anche lui, ciò aumentava la sua stizza, e un dispetto ne chiamava un altro, sino a fargli perdere la tramontana; sicché alla sua volta intraprese contro il Ciriani un sistema di ostilità così poco velate, e di provocazione così diretta, che non ci volle meno di tutta l’abilità della donna per scongiurare il pericolo di un serio guaio. Finalmente ella parve stanca della lotta che dovea sostenere con Assanti quotidianamente, e prendendolo una sera a quattr’occhi nel vano della finestra, dissegli: — Orsù, mio bel nemico, a che giuoco giuochiamo? Con qual diritto ad ogni momento vi gettate a testa bassa fra me e il Ciriani? — Con qual diritto mi fate questa domanda? — ribatté Assanti. — Parliamoci chiaro. Voi mi eravate debitore di una piccola soddisfazione di amor proprio, ed io ho ottenuto il mio intento col mezzo più semplice. Non vi ho fatto il torto di pensare che avreste preso sul serio il mio biglietto, ho reso sempre giustizia al vostro spirito, e del resto nemmeno un ragazzo di scuola ci sarebbe cascato; ma eccovi lì, fra vergognoso, bizzoso, e incapricciato, e questo deve bastarmi. Ora siamo pari; lasciatemi tranquilla, caro mio; Ciriani non c’entra. — Ce lo tireremo pei capelli! — Impresa arrischiata! Sapete che come duellista ha una brutta riputazione. — Ebbene, — esclamò Assanti un po’ rosso in viso, — se mi gettassi attraverso cotesta riputazione, mi perdonereste? — La storia del biglietto? Per chi mi prendete, caro signore, cercando di scambiarmi le carte in mano? — Non ridete così, in fede mia! Son qui, dinanzi a voi, ridotto ad arrossire di quel che ho fatto e detto contro di voi; mi sento ridicolo, deve bastarvi. — Ridicolo, perché? — Perché vi amo. — Da quando in qua? — Dacché mi ci avete fatto pensare. — Dacché siete indispettito contro di me allora? — Non so se sia amore o dispetto, so che così non può durare, che voi m’avete stregato, e che finirete per farmi impazzire. — Oibò! — Assanti rimase zitto un istante, di faccia al sorriso mordente della Dal Colle; poi riprese, cambiando tono e maniere, e facendosi improvvisamente serio. — Orsù, bisogna fare qualche cosa perché prestiate fede a quel che vi dico. Bisogna provocare Ciriani e rendermi ridicolo completamente. — Guardatevene bene! — diss’ella senza ridere più. — Detesto gli scandali, e non mi vedreste mai più, né voi, né lui! — La signora Dal Colle faceva i preparativi per la partenza; Assanti venne a saperlo il giorno dopo. — Partite? — le disse. — Sì: fuggo. Siete soddisfatto? Facciamo la pace prima di lasciarci. — No, facciamo di meglio: ditemi dove andrete. Noi siamo qualcosa più di due semplici conoscenze, siamo due nemici; siamo liberi entrambi e padroni di noi; entrambi scorrazziamo pel mondo onde fuggire la noia. C’incontreremo in tutte le stazioni, ci faremo dei dispetti, ci faremo la guerra, ci odieremo, e così non avremo il tempo di annoiarci. — No, no! E il pericolo d’innamorarsi lo contate per nulla? — Anche voi? — Sì, mi par di sì, dopo quello che mi avete detto ieri sera. — Ebbene! alla peggio!... — Non la prendete così; parlo sul serio, e sapete che sono franca. — In tal caso franchezza per franchezza... Chiudete gli occhi e lasciate fare al pericolo. — Ci penserò. — ...Ci ho pensato, — gli disse il giorno dopo, poche ore prima di partire all’insaputa di lui. — No, sarebbe peggio di una disgrazia, sarebbe una sciocchezza. È un gran brutto affare, due amanti che un giorno o l’altro possano ridersi sul naso! e questo giorno arriverebbe, a meno di un miracolo... poiché bisognerebbe proprio un miracolo! qualcosa di grosso! un atto di eroismo, una grande azione o una grande follia, per scongiurare cotesto pericolo... e come io non farò mai nulla di tutto questo, né voi lo farete, né voglio che lo facciate, così... nemici! — Chi vi dice che non lo farò? — Davvero?... Mi par di essere in piena cavalleria!... Ebbene, allora!... Intanto a rivederci —. Il giorno dopo non si vide né alla tavola rotonda, né altrove. Assanti seppe che era partita, e che anche il Ciriani era partito. Quella notizia gli fece ardere il sangue nelle vene come se l’avessero schiaffeggiato. Ogni minima parola, ogni sorriso, ogni inflessione di voce di lei, nell’ultimo colloquio che avevano avuto, gli tornava alla mente, con acute punture di dispetto, di gelosia, ed anche d’amore. Dal momento che era fuggita con un altro, quella donna eragli divenuta diabolicamente necessaria, per tutto quello che non era stato, per tutto quello che s’era detto fra di loro. Allora cotesto eroe da salone, per puntiglio o per vanità, si sentì capace di quelle virtù eroiche da palcoscenico, delle quali ella si era promessa in premio. Avrebbe voluto acciuffarsi con dieci Ciriani; avrebbe voluto traversare un villaggio in fiamme sulla punta dei suoi stivalini verniciati, recandosi lei sulle braccia; avrebbe voluto saltare un precipizio di mezza lega per salvarla, senza fare uno strappo ai suoi pantaloni di Lennon. Si sentiva invaso da una specie di febbre. Partì sulle tracce di lei; gettò il denaro a due mani; viaggiò notte e giorno, in ferrovia, in carrozza e a cavallo, con un tempaccio da lupi, in mezzo alle selvagge solitudini per le quali correva la linea di Foggia, allora incompleta, col pericolo di cadere di momento in momento nelle mani dei briganti che scorrazzavano per quelle parti. Finalmente ebbe le prime notizie della Dal Colle ad Ariano; ella viaggiava in carrozza, seguita dai suoi domestici, senza l’ombra di un Ciriani. Prima di annottare, una o due poste prima di Bovino, l’oste ed il conduttore cercarono di dissuaderlo di andare innanzi, perché la campagna era infestata dai briganti. Fu come se gli avessero messo il diavolo addosso. Lei era in pericolo: non pensava ad altro. La notte istessa, poco dopo Bovino, raggiunse le due carrozze colle quali ella viaggiava, ferme dinanzi ad un povero casolare che era la posta dei cavalli. Il lanternino appeso all’uscio era stato fracassato da mano invisibile; la porta era spalancata, e la stalla vuota. I postiglioni avevano chiamato e strepitato senza che comparisse alcuno. Assanti da lontano gridava di non andare avanti: uno dei postiglioni temendo d’essere inseguito dai briganti gli sparò addosso una pistolettata senza colpirlo. — Fermatevi, — ripeté Assanti. — Fermatevi, in nome di Dio! o siete perduti —. Allo sportello di una delle due carrozze si vide dietro il cristallo, al riflesso incerto dei fanali, il viso un po’ pallido della Dal Colle. Ella riconobbe Assanti in mezzo a quella scena di confusione e di spavento, e gridò al cocchiere con accento febbrile: — Avanti! avanti! duecento lire di mancia! — Avanti ci sono i briganti! — gridò il giovane quasi fuori di sé. In quell’istante, senza che si vedesse anima viva, si udì una voce che sembrava venire da una rupe che sovrastava il lato sinistro della via. — Fermi tutti!... o per la Madonna! siete morti! — Il cocchiere applicò una vigorosa frustata ai cavalli che puntarono zampe ed inarcarono le schiene per slanciarsi al galoppo; ma prima che avessero fatto un sol passo si udì un colpo di fucile ed il cavallo di sinistra cadde imbrogliandosi nei finimenti; il cocchiere si buttò da cassetta e sparì nelle tenebre; la seconda carrozza, quella in cui erano i domestici della Dal Colle, voltò indietro, e fuggì a rotta di collo. Tutto ciò era avvenuto in meno che non ci vuole per dirlo. Assanti si slanciò allo sportello della vettura, afferrò la donna per la vita come una bambina, la spinse nella stalla e ne chiuse la porta alla meglio, ammucchiandovi contro tutto quel che poté trovare. Al primo trambusto di quella scena era succeduto un silenzio profondo e misterioso; gli assalitori, prima di scendere nella strada, volevano al certo misurare la resistenza che avrebbero incontrata. La Dal Colle, ritta in un angolo, non diceva una sola parola, e Assanti, rivolto verso l’uscio, colla cabina a due colpi in pugno, aspettava. Come si furono abituati all’oscurità, scorsero, alla fioca luce dei fanali della carrozza che trapelava dalle commessure mal connesse dell’uscio, una scala a piuoli, la quale dal fondo della stalla metteva per una botola al fienile soprastante. Sulla strada si cominciava ad udire un tramestio attorno alla carrozza, rimasta dinanzi al casolare. Assanti fece salire la sua compagna al piano di sopra, e quando fu salito anche lui, tirò su la scala. Al difuori durava ancora il silenzio, e di quando in quando il cavallo rimasto in piedi, scuoteva la sonagliera. — Voi mi scaricherete la vostra carabina alla testa se dovessi cader viva nelle mani di coloro! — furono le prime parole che la donna gli rivolse con voce breve e febbrile. — Sì! — rispose Assanti collo stesso tono. Egli era corso alla finestra; non si vedeva nessuno; la carrozza era sempre ferma dinanzi all’uscio, descrivendo un breve cerchio di luce coi suoi due fanali; il cavallo fiutava con curiosità il compagno caduto. Ad un tratto si udì un secondo colpo di fucile, e dall’architrave della finestra, a due dita dal capo di Assanti, caddero dei calcinacci. La Dal Colle lo tirò indietro bruscamente. Allora per la prima volta i loro sguardi s’incontrarono. Ella era pallida come uno spettro, ma i suoi occhi erano sfavillanti. All’improvviso la porta della stalla fu scossa da un urto che rimbombò come se l’avesse sconquassata. Assanti corse alla finestra e fece fuoco; si udì un grido, seguito da una scarica generale diretta contro di lui. Assanti si chinò sulla botola, mirò alla porta della stalla e fece fuoco una seconda volta. I briganti, a quei colpi di carabina che venivano dall’alto e dal basso, credettero di avere a fare con parecchi, decisi di vender cara la loro vita, e ricorsero ad un altro mezzo di attacco più sicuro e meno pericoloso. La fucilata cessò come per incanto. Si udirono al di fuori rumori diversi, che da principio i due assediati non sapevano spiegarsi: un via vai, un risuonare di sonagliuoli dei cavalli, un muovere di ruote; poi rimbombò un secondo e forte urto alla porta della stalla, come se la carrozza vi fosse stata spinta contro a guisa d’ariete. Assanti trasalì per l’imminenza di un nuovo e sconosciuto pericolo; il cuore gli batteva forte. — Chi ci avrebbe detto che il miracolo di cui vi parlavo sarebbe stato così vicino! — disse la Dal Colle con uno strano sorriso. Ei le afferrò la mano ed ella non la ritirò. In quel momento un riflesso rossastro si disegnò come una apparizione infernale di faccia alla porta, sulla parete nera della stalla. Il giovane, dimentico del pericolo passato per quello più grande che li minacciava, corse alla finestra, e la spalancò; le fiamme che bruciavano la carrozza e l’uscio della stalla illuminarono vivamente il fienile. — Cosa fanno adesso? — domandò la donna stringendosi a lui con mano tremante. — Bruciano la casa! — rispose Assanti con voce sorda. — Voi mi avete promesso che morremo insieme! — diss’ella dopo un minuto di silenzio. Presso la finestra le travi del solaio cominciavano a scoppiettare, e le fiamme mostravano attraverso le assi le loro lingue azzurrognole che lambivano le pareti; il fumo annebbiava la stanzuccia e li soffocava. La donna guardava Assanti con occhi singolari. — Vi siete perduto per me! — mormorò finalmente, con un accento di cui egli non avrebbe supposto capace quella donna leggiera. — Vi amo! — egli rispose. Allora in mezzo al fumo che li accecava, dinanzi alle fiamme che allungavano verso di loro lingue sitibonde, sotto una pioggia di faville infuocate, fra gli urli dei banditi che danzavano e sghignazzavano attorno a quell’orribile rogo, ella gli avvinse le braccia al collo, e posò la guancia sulla guancia di lui. Tutt’a un tratto si udì sulla strada un gran tumulto, colpi di fuoco, urli di dolore, grida di collera. I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta. Un brigadiere si precipitò fra le fiamme, e strappò i due amanti da quell’amplesso di morte. Albeggiava appena. Assanti e la Dal Colle furono accompagnati a Bovino. Ella era pallidissima. Quando furono soli nella miglior stanza dell’albergo, gli stese la mano. — Ora separiamoci. — Come, separarci!... — Abbiamo passato un bel momento, abbiamo realizzato il miracolo che sembrava impossibile alla tavola rotonda dell’Albergo di Russia. Non lo guastiamo! Siamo stati degli eroi, e siccome non potremmo aver sempre sottomano dei briganti per esaltarci, finiremo per trovarci ridicoli. Lasciamoci eroi dunque. — Che donna siete mai? — Mi dicono che sono una matta: ma mi accorgo che una matta è sempre più ragionevole dell’uomo più savio. Vediamo, amico mio, discorriamola ora che la stanchezza fa dar giù la febbre. In due settimane voi passate dall’antipatia all’entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su di me, e mi fate il sacrificio della vostra vita, senza sapere se io ne sia degna. — È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di una donna, e far mettere il cappuccio alle sue follie... non c’è che dire; ma siete certo che non abbiate fatto il sacrificio pel sacrificio? perché vi eravate montata la testa? più per voi che per me insomma? Siete persuaso che l’abbiate fatto schiettamente e semplicemente per amor mio? — Qual altra prova ne vorreste? — Una prova semplicissima: voi dite che mi amate? — Sì. — Non mi conoscete, non sapete chi sia, né da dove venga; non sapete se sia degna di voi, e se potrei amarvi come vorreste essere amato!... — So che vi amo! — Su dieci uomini, e dei più savi, nove risponderebbero come voi. E se vi amassi, sareste felice? — Sì. — E questa felicità vi basterebbe? Quanto vorreste che durasse? — Sempre. — Perché non mi sposate allora? — ...Ci penserò —.


Le storie del castello di Trezza



I
La signora Matilde era seduta sul parapetto smantellato, colle spalle appoggiate all’edera della torre, spingendo lo sguardo pensoso nell’abisso nero e impenetrabile; suo marito, col sigaro in bocca, le mani nelle tasche, lo sguardo vagabondo dietro le azzurrine spirali del fumo, ascoltava con aria annoiata; Luciano, in piedi accanto alla signora, sembrava cercasse leggere quali pensieri si riflettessero in quegli occhi impenetrabili come l’abisso che contemplavano. Gli altri della brigata erano sparsi qua e là per la spianata ingombra di sassi e di rovi, ciarlando, ridendo, motteggiando; il mare andavasi facendo di un azzurro livido, increspato lievemente, e seminato di fiocchi di spuma. Il sole tramontava dietro un mucchio di nuvole fantastiche, e l’ombra del castello si allungava melanconica e gigantesca sugli scogli. — Era qui? — domandò ad un tratto la signora Matilde, levando bruscamente il capo. — Proprio qui —. Ella volse attorno uno sguardo lungo e pensieroso. Poscia domandò con uno scoppio di risa vive, motteggiatrici: — Come lo sa? — Ricostruisca coll’immaginazione le vòlte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature, quel camino immenso, affumicato, sormontato da quello stemma geloso che non si macchiava senza pagare col sangue; quell’alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori, colla spada appesa al capezzale di quel signore che non l’ha tirata mai invano dal fodero, il quale dorme sul chi vive, coll’orecchio teso, come un brigante — che ha il suo onore al di sopra del suo Dio, e la sua donna al disotto del suo cavallo di battaglia: — cotesta donna, debole, timida, sola, tremante al fiero cipiglio del suo signore e padrone, ripudiata dalla sua famiglia il giorno che le fu affidato l’onore ombroso e implacabile di un altro nome; — dietro quell’alcova, separato soltanto da una sottile parete, sotto un’asse traditrice, quel trabocchetto che oggi mostra senza ipocrisia la sua gola spalancata — il carnaio di quel mastino bruno, membruto, baffuto, che russa fra la sua donna e la sua spada; — il lume della lampada notturna che guizza sulle immense pareti, e vi disegna fantasmi e paure; il vento che urla come uno spirito maligno nella gola del camino, e scuote rabbiosamente le imposte tarlate; e di tanto in tanto, dietro quella parete, dalla profondità di quel trabocchetto attorno a cui il mare muggisce un gemito soffocato dall’abisso, delirante di spasimo, un gemito che fa drizzare la donna sul guanciale, coi capelli irti di terrore, molli del sudore di un’angoscia più terribile di quella dell’uomo che agonizza nel fondo del trabocchetto, e, fuori di sé, le fa volgere uno sguardo smarrito, quasi pazzo, su quel marito che non ode e russa —. La signora Matilde ascoltava in silenzio, cogli occhi fissi, intenti, luccicanti. Non disse — È vero! — ma chinò il capo. Il marito si strinse nelle spalle e si alzò per andarsene. Le ombre sorgevano da tutte le profondità delle rovine e del precipizio. — Se tutto ciò è vero, — ella disse con voce breve; — s’è accaduto così come ella dice, essi debbono essersi appoggiati qui, a questi avanzi di davanzale, a guardare il mare, come noi adesso... — ed ella vi posò la mano febbrile — qui —. Ei chinò lo sguardo sulla mano, poi guardò il mare, poi la mano di nuovo. Ella non si muoveva, non diceva motto, guardava lontano. — Andiamo, — disse a un tratto, — la leggenda è interessante, ma mio marito a quest’ora deve preferire la campana del desinare. Andiamo —. Il giovane le offrì il braccio, ed ella vi si appoggiò, rialzando i lembi del vestito, saltando leggermente fra i sassi e le rovine. Passando presso uno stipite sbocconcellato, osservò che c’erano ancora attaccati gli avanzi degli stucchi. — Se potessero raccontare anche questi! — disse ridendo. — Direbbero che allo stesso posto dove s’è posata la sua mano, ci si è aggrappata la mano convulsa della baronessa, la quale tendeva l’orecchio, ansiosa, verso quell’andito dove non si udiva più il rumore dei passi di lui, né una voce, nè un gemito, ma risuonavano invece gli sproni sanguinosi del barone —. La signora si tirò indietro vivamente, come se avesse toccato del fuoco; poi vi posò di nuovo la mano, risoluta, nervosa, increspata; sembrava avida d’emozione; avea sulle labbra uno strano sorriso, le guance accese e gli occhi brillanti. — Vede! — disse. — Non si ode più nulla! — Alla buon’ora! — esclamò il signor Giordano; — dunque possiamo andare —. La moglie gli rivolse uno sguardo distratto, e soggiunse: — Scusami, sai! — Il raggio di sole prima di tramontare si insinuò per un crepaccio a fior d’acqua, e illuminò improvvisamente il fondo di quella specie di pozzo ch’era stato il trabocchetto, le punte aguzze delle nere pareti, i ciottoli bianchi che spiccavano sul muschio e l’umidità del fondo, e i licheni rachitici che l’autunno imporporava. Il sorriso era sparito dal viso della signora spensierata, e volgendosi al marito, timida, carezzevole, imbarazzata: — Vieni? — gli disse. — Bada, — rispose il signor Giordano col suo ironico sorriso; — ci vedrai le ossa di quel bel cavaliere, e farai brutti sogni stanotte —. Ella non rispose, non si mosse, stava chinata sulla buca; appoggiandosi ai sassi che la circondavano; infine, con voce sorda: — In fatti... c’è qualcosa di bianco, laggiù in fondo... — E senza attendere risposta: — Se quest’uomo è caduto qui, ha dovuto afferrarsi per istinto a quella punta di scoglio... vedete? si direbbe che c’è ancora del sangue —. Suo marito vi buttò il sigaro spento, e volse le spalle; ella rabbrividì, come se avesse visto profanare una tomba, si fece rossa, e si rizzò per andarsene. Era una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi; il piede le sdrucciolò un istante sul sasso mal fermo, vacillò, e dovette afferrarsi alla mano di Luciano. — Grazie! — gli disse con un sorriso intraducibile. — Si direbbe che l’abisso mi chiama —.

II
Il pranzo era stato eccellenle; non per nulla il signor Giordano preferiva la campana del desinare alle leggende del Castello. Verso le undici alla villa si pestava sul piano, si saltava nel salotto e si giuocava a carte nelle altre stanze. La signora Matilde era andata a prendere una boccata d’aria in giardino, e s’era dimenticata di una polca che aveva promessa al signor Luciano, il quale la cercava da mezz’ora. — Alfine! — le disse scorgendola. — E la nostra polca? — Ci tiene proprio? — Molto. — Se la lasciassimo lì? — Povera polca! — Francamente, sa... Ella racconta così bene certe storie, che non l’avrei creduto un ballerino cotanto arrabbiato... — Ci crede dunque alle storie? — Ma... secondo il quarto d’ora —. Il silenzio era profondo; il vento cacciava le nuvole rapidamente, e di tanto in tanto faceva stormire gli alberi del giardino; il cielo era inargentato a strappi; le ombre sembravano inseguirsi sulla terra illuminata dalla luna, e il mormorio del mare e quel sussurrio delle foglie, sommesso, ad intervalli, a quell’ora aveano un non so che di misterioso. La signora Matilde volse gli occhi qua e là, in aria distratta, e li posò sulla mole nera e gigantesca del castello che disegnavasi con profili fantastici su quel fondo cangiante ad ogni momento. La luce e le ombre si alternavano rapidamente sulle rovine, e un arbusto che avea messo radici sul più alto rivellino, agitavasi di tanto in tanto, come un grottesco fantasma che s’inchinasse verso l’abisso. — Vede? — diss’ella con quel sorriso incerto e colla voce mal ferma. — C’è qualche cosa che vive e si agita lassù! — Gli spettri della leggenda. — Chissà! — Cotesto è il quarto d’ora delle storie... — Oppure... — Oppure cosa? — Chissà... Cosa fa mio marito? — Giuoca a tresette. — E la signora Olani? — Sta a guardare. — Ah!... — Mi racconti la sua storia... — riprese da lì a poco, con singolare vivacità — se non le rincresce per la sua polca —. La storia che Luciano raccontò era strana davvero! La seconda moglie del barone d’Arvelo era una Monforte, nobile come il re e povera come Giobbe, forte come un uomo d’arme e tagliata in modo da rispondere per le rime alla galanteria un po’ manesca di don Garzia, e da promettergli una nidiata di d’Arvelo, numerosi come le uova che avrebbe potuto covare la chioccia più massaia di Trezza. Prima delle nozze, le avevano detto degli spiriti che si sentivano nel Castello, e che la notte era un gran tramestìo pei corridoi e per le sale, e si trovavano usci aperti e finestre spalancate, senza sapere come né da chi — usci e finestre ch’erano stati ben chiusi il giorno innanzi — che si udivano gemiti dell’altro mondo, e scrosci di risa da far venire le pelle d’oca al più ardito scampaforche che avesse tenuto alabarda e vestito arnese. Donna Isabella avea risposto che, fra lei e un marito come, al vedere, prometteva esserlo don Garzia, ella non avrebbe avuto paura di tutte le streghe di Spagna e di Sicilia, né di tutti i diavoli dell’inferno. Ed era donna da tener parola. La prima volta che si svegliò nel letto dove avea dormito l’ultima notte la povera donna Violante, mentre Grazia, la cameriera della prima moglie del barone, le recava il cioccolatte e apriva le finestre, ancora mezzo addormentata, domandò svogliatamente: — E così, come va che gli spiriti non hanno ballato il trescone di benvenuto alla nuova castellana? — Non s’e sentito stanotte?... — rispose la povera Grazia, che anche a parlare ne avea una gran paura. — Sì, ho udito il russare di don Garzia; e ti so dire che russa come dieci guardie vallone. — Vuol dire che il cappellano ha benedetto la camera meglio delle altre volte. — Ah! sarà così, oppure che faccio paura al diavolo e agli spiriti. — O che sarà per domani. — Eh! hanno dunque il loro cerimoniale, messeri gli spiriti, come nostro signore il re? Racconta dunque! — Io non so nulla, madonna. — Chi sa dunque questa storia? — Mamma Lucia, Brigida, Maso il cuoco, Anselmo ed il Rosso, i due valletti di messere il barone, e messer Bruno, il capocaccia. — E cosa hanno visto costoro? — Nulla. — Nulla! Cosa hanno udito dunque? — Hanno udito ogni sorta di cose, che Dio ce ne liberi! — E da quando si sono udite di queste cose che Dio ce ne liberi? — Dacché è morta la povera donna Violante, la prima moglie di messere. — Qui? — Proprio qui, in questo lato del castello; ma dalla cima dei merli sino in fondo alle cucine, di cui le finestre danno sulla corte —. La baronessa si mise a ridere, e la sera narrò al marito quel che le era stato detto. Don Garzia, invece di riderne anch’esso, montò in una tal collera che mai la maggiore, e incominciò a bestemmiar Dio e i santi come donna Isabella non avea visto né udito fare dagli staffieri più staffieri che fossero a casa de’ suoi fratelli, e a minacciare che se avesse saputo chi si permetteva di spargere cotali fandonie, l’avrebbe fatto saltare dal più alto rivellino del castello. La baronessa fu estremamente sorpresa che quel pezzo di uomo, il quale non doveva aver paura nemmen del diavolo, avesse dato tanto peso a delle sciocche storielle, e in cuor suo ne fu contenta, ché si sentiva più degna del marito di portare i calzoni, e di far la castellana come andava fatto. — Dormite in santa pace, madonna, — le disse don Garzia, — ché qui, nel castello e fuori, pel giro di dieci leghe, sin dove arriva il mio buon diritto e la mia buona spada, non c’é a temere altro che la mia collera —. Però la baronessa, sia che le parole del marito l’avessero colpita, sia che delle sciocchezze udite le fosse rimasta qualcosa in mente, si svegliò di soprassalto verso la mezzanotte, credendo d’avere udito, o d’aver sognato, un rumore indistinto, non molto lontano, proprio dietro la parete dell’alcova. Stette in ascolto con un po’ di batticuore; ma non s’udiva più nulla, la lampada notturna ardeva ancora, e il barone russava della meglio. Ella non ardì svegliarlo, ma non poté ripigliar sonno. Il giorno dopo la sua donna la trovò pallida e accigliata, e mentre la pettinava dinanzi allo specchio, la baronessa, coi piedi sugli alari e bene avvolta nella sua veste da camera di broccato, le domandò, dopo avere esitato alquanto: — Orsù, dimmi tutto quel che sai degli spiriti del castello. — Io non so altro che quel che ne ho udito raccontare dal Rosso e da Brigida. Volete che vi chiami Brigida? — No! — rispose con vivacità donna Isabella. — Anzi non dire ad anima viva che io te n’abbia parlato... Raccontami quel che t’hanno detto Brigida e il Rosso. — Brigida, quando dormiva nella stanzuccia accanto al corridoio qui vicino, udiva tutte le notti, poco prima o poco dopo dei dodici colpi della campana grossa, aprire la finestra che dà sul ballatoio, e la porta del corridoio. La prima volta che Brigida udì quel rumore fu la seconda domenica dopo Pasqua, la ragazza avea avuto la febbre e non poteva dormire; l’indomani tutti coloro ai quali raccontò il fatto credettero che fosse stato inganno della febbre; ma la poverina a misura che il giorno tramontava aveva una gran paura, e cominciò a parlare in tal modo del gran via vai della notte, che tutti credettero fosse delirante, e mamma Lucia rimase a dormire con lei. L’indomani anche mamma Lucia disse che in quella camera non avrebbe voluto passarci un’altra notte per tutto l’oro del mondo. Allora anche coloro i quali s’erano mostrati più increduli cominciarono ad informarsi e del come e del quando, e Maso raccontò quello che non avea voluto dire per timore di farsi dar la baia dai più coraggiosi. Da più di un mese avea udito rumore anche nel tinello, e s’era accorto che gli spiriti facevano man bassa sulla credenza. A poco a poco raccontò pure quel che aveva visto. — Visto? — Si, madonna; sospettando che alcuno dei guatteri gli giocasse quel tiro, si appostò nell’andito, dietro il tinello, col suo gran coltellaccio alla cintola, e attese la mezzanotte, ora in cui solevasi udire il rumore. Quando tutt’ad un tratto — non si udiva ronzare nemmeno una mosca — si vede comparir dinanzi un gran fantasma bianco, il quale gli arriva adosso senza dire né ahi nè ohi, e gli passa rasente senza fare altro rumore di quel che possa fare un topo che va a caccia del formaggio vecchio. Il povero cuoco non volle saperne altro, e fu a un pelo di buscarne una bella e buona malattia. — Ah! — disse la baronessa ridendo. — E cosa fece in seguito? — Non fece nulla, fece acqua in bocca, andò a confessarsi, a comunicarsi, ed ogni sera, prima di mettersi in letto, non mancava di recitare le sue orazioni, e di raccomandarsi ben bene a tutte le anime del purgatorio che sogliono gironzare la notte, in busca di requiem e di suffragi. — Giacché sono degli spiriti i quali rubano in tinello come dei gatti affamati o dei guatteri ladri, se fossi stata messer Maso, invece d’infilar paternostri, mi sarei raccomandata alla mia miglior lama, onde cercare di scoprire chi fosse il gaglioffo che si permetteva di scambiar le parti coi fantasmi. — Oh madonna, la stessa cosa disse il Rosso il quale è un pezzo di giovanotto che il diavolo istesso, che è il diavolo, non gli farebbe paura; e si mise a rider forte, e gli disse bastargli l’animo di prendere lo spirito, il fantasma, il diavolo stesso per le corna, e fargli vomitare tutto il ben di Dio di cui dicevasi si desse una buona satolla in cucina; mai non l’avesse fatto! La notte seguente s’apposta anche lui nel corridoio, come avea fatto il cuoco, colla sua brava partigiana in mano, ed aspetta un’ora, due, tre. Infine comincia a credere che Maso si sia burlato di lui, o che il vino gli abbia fatto dire una burletta, e comincia ad addormentarsi, così seduto sulla panca e colle spalle al muro. Quand’ecco tutt’a un tratto, tra veglia e sonno, si vede dinanzi una figura bianca, la quale toccava il tetto col capo, e stava ritta dinanzi a lui, senza muoversi, senza che avesse fatto il minimo rumore nel venire, senza che si sapesse da dove fosse venuta; un po’ di barlume veniva dalla lampada posta nella sala delle guardie, dal vano dell’arco al disopra della parete, e il Rosso giura d’aver visto i due occhi che il fantasma fissava su di lui, lucenti come quelli di un gatto soriano. Il Rosso, o non fosse ancora ben sveglio, o provasse un po’ di paura a quella sùbita apparizione, senza dire nè una nè due, mise mano alla sua partigiana e menò tal colpo da spaccare in due un toro, fosse stato di bronzo; ma la spada gli si ruppe in mano, così come fosse stata di vetro, o avesse urtato contro il muro; si vide un fuoco d’artifizio di faville, a guisa dei razzi che si sparano per la festa della Madonna dell’Ognina, e il fantasma scomparve, nè più nè meno di come fa un soffio di vento, lasciando il Rosso atterrito, col suo troncone di spada in mano, e talmente pallido da far paura a chi lo vide per il primo, e d’allora in poi, invece di chiamarlo il Rosso, gli dicono il Bianco —. La baronessa rideva ancora in aria d’incredulità; ma le sue ciglia si corrugavano di tanto in tanto, e pur tenendo gli occhi fissi nello specchio, non avea badato né al come Grazia la stesse pettinando, né al come le avesse increspato i cannoncini della sua gorgierina ricamata. O che la convinzione della cameriera fosse talmente sincera da esser comunicativa, o che il sogno della notte avesse fatto una potente impressione su di lei, pensava più che non volesse alla notte che doveva passare un’altra volta in quella medesima alcova. — E cosa si dice nel castello di coteste apparizioni? — domandò dopo un silenzio di qualche durata. — Madonna... — Parla! — Madonna... si dicono delle sciocchezze... — Raccontamele. — Messere il barone andrebbe su tutte le furie se lo sapesse. — Tanto meglio! raccontamele. — Madonna... io sono una povera fanciulla... Sono un’ignorante... Avrò parlato senza sapere quel che mi dicessi... Messere il barone mi butterebbe dalla finestra più facilmente ch’io non butti via questo pettine che non serve più. Per carità, madonna, non vogliate espormi alla collera di messere! — Preferiresti esporti alla mia? — esclamò la baronessa aggrottando le ciglia. — Ahimè!... Madonna! — Orsù, spicciati; voglio saper tutto quel che si dice, ti ripeto, e bada che se la collera del barone è pericolosa, la mia non ischerza. — Si dice che sia l’anima della povera donna Violante, la prima moglie del barone, — rispose Grazia messa alle strette, e tutta tremante. — Come è morta donna Violante? — S’è buttata in mare. — Lei? — Proprio lei, dal ballatoio mezzo rovinato che gira dinanzi alle finestre del corridoio grande, sugli scogli che stanno laggiù; in fondo al precipizio fu trovato il suo velo bianco... Era la notte del secondo giovedì dopo Pasqua. — E perché s’è uccisa? — Chi lo sa? Messere dormiva tranquillamente accanto a lei, fu svegliato da un gran grido, non se la trovò più al fianco, e prima che fosse ben sveglio vide una figura bianca la quale fuggiva. Si udì un gran baccano pel castello, tutti furono in piedi in men che non si dica un’avemaria, si trovarono gli usci e le finestre del gran corridoio spalancati, e il barone che correva sul ballatoio come un gatto inferocito; se non era il capocaccia, il quale l’afferrò a tempo, il barone sarebbe caduto dal parapetto rovinato, nel punto dove comincia la scala per la torretta di guardia, di cui non rimangono altro che le testate degli scalini. Il fantasma era scomparso giusto in quel luogo —. La baronessa s’era fatta pensierosa. — È strano! — mormorò. — Della povera signora non rimase né si vide altro che quel velo; nella cappella del castello e nella chiesa del villaggio furono dette delle messe per tre giorni, in suffragio della morta, e una gran folla assisté ginocchioni ai funerali, ché tutti le volevano un ben dell’anima per le gran limosine che faceva quand’era in vita; però, sebbene messere avesse dato ordine che le esequie fossero quali si convenivano a così ricca e potente signora, e la bara, colle armi della famiglia ricamate sulle quattro punte della coltre, stesse tre dì e tre notti nella cappella, con più di quaranta ceri accesi continuamente, e lo stendardo grande ai piedi dell’altare, e drappelloni e scudi intorno che mai non si vide pompa più grande, il barone partì immediatamente, né si vide mai più al castello prima d’ora. — Meno male! — mormorò donna Isabella. — Don Garzia non mi ha detto nulla di tutto ciò, ma è bene ch’io lo sappia. — Alcuni pescatori poi ch’erano andati sul mare assai prima degli altri, raccontano d’aver visto l’anima della baronessa, tutta vestita di bianco, come una santa che ella era, sulla porta della guardiola lassù, e passeggiare tranquillamente su e giù per la scala rovinata, ove un gabbiano avrebbe paura ad appollaiarsi, quasi stesse camminando su di un bel tappeto turco, e nella miglior sala del castello. — Ah! — esclamò la baronessa; e non disse altro, si alzò e andò a mettersi alla finestra. Il giorno era tiepido e bello, e il sole festante che entrava dall’altra finestra sembrava rallegrasse la tetra camera; ma donna Isabella non se ne avvedeva, sembrava meditabonda, e voltandosi a un tratto verso la Grazia: — Mostrami dov’è caduta donna Violante — le disse. — Colà in quel punto dove il muro è rotto e cominciava la scala per la guardiola della sentinella, quando vi si metteva una sentinella. — E perché non ci si mette più adesso? — domandò la baronessa con un singolare interesse. — Bisognerebbe aver le ali per arrampicarsi lassù; adesso che la scala è rovinata il più ardito manovale non metterebbe i piedi su quel che rimane degli scalini. — Ah, è vero!... — E rimase contemplando lungamente la torricciuola, la quale isolata com’era sembrava attaccarsi, paurosa dell’abisso che spalancavasi al di sotto, alla cortina massiccia, e gli avanzi della scalinata, cadenti, smantellati, senza parapetto, sospesi in aria a quattrocento piedi dal precipizio sembravano un addentellato per qualche costruzione fantastica. — Infatti, — mormorò come parlando fra di sé, — sarebbe impossibile; c’è da averne il capogiro soltanto a guardare —. Si tirò indietro bruscamente, e chiuse la finestra. Grazia, vedendo la sua beffarda padrona così accigliata, e accorgendosi che la sua storia avea fatto tale inattesa impressione su di lei, sentiva una tale paura come se avesse dovuto passare la notte nella camera di Brigida. — Ahimè! madonna, io ho detto tutto per obbedirvi e senza pensare che ci va della mia vita se lo risapesse il barone. Abbiate pietà di me, madonna! — Non temere, — rispose donna lsabella con un singolare sorriso; — coteste cose, vere o false, non si raccontano al mio signore e marito. Ma dimmi anche quel che si dice del motivo che abbia spinto donna Violante ad uccidersi; poiché un motivo qualunque ci sarà stato; qualcosa si dira, a torto o a ragione, di’. — Giuro per le cinque piaghe di Nostro Signore e per la santa giornata di venerdì che è oggi, che non si dice nulla, o almeno che non so nulla. Da principio, quando si è incominciato a sentire dei gemiti nelle notti di temporale, ed anche tutte le notti dal sabato alla domenica, e tutte le volte che fa la luna, o che qualche disgrazia deve avvenire nel castello o nei dintorni, si credeva che la baronessa fosse morta in peccato mortale, e perciò la sua anima chiedesse aiuto dall’altro mondo, mentre i demoni l’attanagliavano; ma poi Beppe, il pescatore, raccontò la visione che gli apparve sull’alto della guardiola, e alcuni giorni dopo quel bravo vecchio di suo zio Gaspare la ebbe confermata, e si ebbe la certezza che l’anima benedetta della baronessa era in luogo di salvazione, e si pensò invece a quella di Corrado il paggio, poveretto! — Come era morto il paggio? s’era ucciso anche lui? — Non era morto, era scomparso. — Quando? — Due giorni prima della morte di donna Violante. — E chi l’aveva fatto sparire? — Chi!... — balbettò la ragazza facendosi pallida. — Ma chi può far sparire un’anima del Signore e portarsela a casa sua, come un lupo ruba una pecora? — Messer demonio. — Ah! era dunque un gran peccatore cotesto messer Corrado! — No, madonna, era il giovane più bello e gentile che sia stato al castello —. La baronessa si mise a ridere. — Eh! mia povera Grazia, quelli sono i peccatori che messer demonio suol rapire a cotesta maniera!... — E poi, rifacendosi pensosa, volse un lungo e profondo sguardo su quel letto dove il gemito pauroso l’avea fatta sussultare la notte. — Quando si odono questi gemiti dell’altro mondo? — domandò. — In quelle notti in cui il fantasma non si fa vedere. — È strano! E dove? — Qui, madonna, in quest’alcova e nell’andito che c’è accanto, nel corridoio che passa vicino a questa camera, e nello spogliatolo che è dietro l’alcova. — Insomma qui vicino? — Pe tutta risposta Grazia si fece il segno della croce. La baronessa strinse le labbra tutt’a un tratto. — Va bene, — le disse bruscamente. — Ora vattene. Non temere. Non dirò nulla di quel che mi hai detto —.

III
Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione. La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che s’era levato verso l’alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio. L’indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l’aiutava a calzare i grossi stivaloni: — Dimmi un po’, mariuolo, cos’è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte? — Il Rosso si grattò il capo e rispose: — È stato che un’ora prima dell’alba si è messo a soffiare lo scirocco. — Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito. Ora bada bene al tuo dovere, marrano! ché nel castello intendo tutto vada come l’orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io. — Messete, voi siete il padrone, — rispose il Rosso esitando, — ma quella finestra lì bisogna lasciarla aperta. — Dimmi il perché. — Perché quando si chiude la finestra si sente... — Eh? — Si sente, messere! — Malannaggia l’anima tua! — urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia. — Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità. — Chi te l’ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto? — Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa. — Tu? — Io stesso. — Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche! — Io non avevo bevuto né acqua né vino, messere. — Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all’amore ti fa paura. Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni. — Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carne né ossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l’anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia —. Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso. — Orbè, — gli disse, — chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro —. Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito. — Avreste paura? — domandò don Garzia. — Io non ho paura di nulla! — rispose secco secco la baronessa. Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso: — Ascoltate! — gli disse. Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada. — No! — diss’ella, — la vostra spada non vi servirà a nulla. — Cosa avete udito? — Ascoltate! Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando. — Mi diventate matta anche voi! — borbottò. — Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo. — Zitto! — esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto. — Udiste? — Nulla! per l’anima mia! — Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente. — Udite! — ripeté donna lsabella facendosi la croce. Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com’era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell’andito che era dietro all’alcova. Ritornò poco dopo. — Nulla! — disse, — le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l’andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche di lui —. Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all’alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela. — Chiamami Bruno — gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi. Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell’occhio, e lo vide andare per l’andito, l’udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé: — No! è impossibile!... — Bruno e il Rosso comparvero. — Vecchio mio, — gli disse il barone, — ti senti di buscarti un bel ducato d’oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti? — Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate — rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare. Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell’esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, s’era fatto serio. — Per l’inferno! — gridò battendo un gran pugno sulla tavola, — mi diventate tutti un branco di poltroni qui! — Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete. — E anch’io. — rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia. — Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre. — Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente. Da qual parte si suol vedere questo fantasma? — Nel corridoio qui accanto, di solito... Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest’ala del castello non è stata più abitata... — Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l’uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio. Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera... e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l’avra da fare con me. Andate, e buona guardia! — Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l’anima della vostra donna Violante — gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli. Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno: — Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia? — Dacché vedo ed odo cose che non ho mai udite né viste. — Cos’avete udito, di grazia? — Quel che avete udito voi! — ribatté essa senza scomporsi. Don Garzia s’accigliò. — Io non ho udito né visto nulla — esclamò dispettosamente. — Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento, e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste! — Ah! — esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, — è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anch’io! — Credete che io abbia paura, messere? — Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che s’accavallavano sull’orizzonte.

IV
Il barone fu insolitamente sobrio a cena quella sera. Donna Isabella andò a coricarsi senza dire una parola, senza fare un’osservazione, ma pallida e seria. Don Garzia, quando si fu accertato che il Rosso e il Bruno erano già al loro posto, andò a letto e disse alla moglie motteggiando: — Stanotte vedremo se il diavolo ci lascerà la coda —. Donna Isabella non rispose, ma don Garzia non russò e dormì di un occhio solo. Mezzanotte era suonata da un pezzo, il barone avea levato il capo ascoltando i dodici tocchi, poi s’era voltato e rivoltato pel letto due o tre volte, avea sbadigliato, infine s’era addormentato per davvero. Tutto era tranquillo, e taceva anche il vento; donna Isabella, che era stata desta sino allora, cominciava ad assopirsi. Ad un tratto un grido terribile rimbombò per l’immenso corridoio; era un grido supremo di terrore, di delirio, che non poteva riconoscersi a qual voce appartenesse, che non aveva nulla d’umano; nello stesso tempo si udì un gran tramestìo, l’uscio e la finestra della camera furono spalancati con impeto, quasi da un violento colpo di vento, e al lume dubbio della lampada parve che una figura bianca in un baleno attraversasse la camera e fuggisse dalla finestra. La baronessa, agghiacciata dal terrore fra le coltri, vide il marito slanciarsi dietro il fantasma colla spada in pugno, e saltare dalla finestra sul ballatoio. Egli correva come un forsennato, seguito da Bruno, inseguendo il fantasma che fuggiva come un uccello, sull’orlo del parapetto rovinato; entrambi, coi capelli irti sul capo, videro al certo, non fu illusione, la bianca figura arrampicarsi leggermente pei sassi che sporgevano ancora dalla cortina, al posto dov’era stata la scala, e sparire nel buio. — Per la Madonna dell’Ognina! — esclamò il barone dopo alcuni istanti di stupore, — lo toccherò colla mia spada, o che si prenda l’anima mia, s’è il Diavolo in carne ed ossa! — Don Garzia non credeva né a Dio né al Diavolo, sebbene li rispettasse entrambi; ma senza saper perché si ricordò delle parole dettegli da donna Isabella la mattina, e fremette. Donna lsabella non gli avea fatto la più semplice domanda, o si spaventasse a farla, o la credesse inutile. Il barone del resto era di tale umore da non permetterne talune. L’indomani però dissegli risolutamente che non intendeva dormire più oltre in quella camera. — Aspettate ancora stanotte, — rispose il marito, — farò buona guardia io stesso, e se domani non riderete delle vostre paure, vi lascerò padrona di far quel che meglio vorrete —. Ella non osò aggiunger verbo, soltanto qualche momento dopo gli domandò: — Di che malattia è morta la vostra prima moglie, messere? — Ei la guardò bieco, e rispose: — Di mal caduco, madonna. — Io non avrò cotesto male, vi prometto! — disse ella con strano accento. Don Garzia, insieme a tutti i vizi del soldato di ventura e del gentiluomo—brigante, ne avea la sola virtù: una bravura a tutta prova. Egli fece quel che non osava più fare Bruno, il terribile Bruno, e per cui era mezzo morto anche il Rosso, giovanotto ardito se mai ce ne fossero; e passò tre notti di seguito nel corridoio, senza batter ciglio, senza muoversi più che non si muovesse il pilastro al quale stava appoggiato, colla mano sull’elsa della spada e l’orecchio teso: il vento sbatteva le imposte della finestra ch’era stata lasciata aperta per ordine suo, i gufi svolazzavano sul ballatoio, i pipistrelli s’inseguivano stridendo per l’andito; il lume della lampada riverberavasi pel vano dell’arco della sala delle guardie e sembrava vacillante; ma del resto tutto era queto, e don Garzia sarebbesi stancato di passar le notti in sentinella, come un uomo d’armi, se il ricordo di quel che avea visto coi propri occhi non fosse stato ancora profondamente impresso nella sua mente, e se una parola della moglie non gli avesse messo in corpo una di quelle preoccupazioni che non lasciano più dormire né lo spirito né il corpo, uno di quei dubbi che imperiosamente domandano uno schiarimento; la sua coscienza dormiva ancora, ma le sue reminiscenze, talune circostanze lasciate passare inosservate, si svegliavano ad un tratto, gli si rizzavano dinanzi in forma di tal sospetto, che don Garzia, zotico, brutale, dispotico signore, scettico e superstizioso ad un tempo, ma in fondo sinceramente barone, vale a dire ossequioso al re, e alla Chiesa, che lo facevano quello che egli era, se ne sentiva padroneggiato, e provava il bisogno di scioglierlo colla persuasione, o colla spada. Era la quarta notte che don Garzia attendeva; il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli; di tanto in tanto un lampo solcava il buio del corridoio per tutta la sua lunghezza, e sembrava gettarvi un’onda di spettri; tutt’a un tratto il lume ch’era nella sala delle guardie si spense. Don Garzia rimase al buio. Le tenebre che lo avvolgevano sembravano stringerlo ed opprimerlo da tutte le parti, soffocargli il respiro nel petto, la voce nella gola, e inchiodargli il ferro nella guaina; improvvisamente quel soldataccio risoluto sentì un brivido che gli penetrava tutte le ossa: fra le tenebre, in mezzo a tutti quei rumori vari, confusi, ma che avevano un non so che di pauroso, parvegli udire un altro rumore più vicino, più spaventoso, tale da far battere di febbre il polso di quell’uomo; le tenebre furono squarciate da un lampo, e videsi di faccia, ritta, immobile, quella figura bianca che aveva visto fuggire un’altra volta dinanzi a lui, e d’allora in poi aveva inseguito lui nella coscienza o nel pensiero, — ora la guardava con occhi lucenti e terribili. Tutto ciò non fu che un istante, una visione; — coi capelli irti, vibrò una stoccata formidabile, sentì l’elsa urtare contro qualche cosa, udì un grido di morte che gli agghiacciò tutto il sangue nelle vene, e in un delirio di terrore gli fece ritirare la spada e fare un salto indietro, atterrito, chiamando la sua gente con quanta voce aveva in corpo. Scorsero due o tre minuti terribili, in cui non si udì più nulla; egli rimase in mezzo a quel buio, vicino a quella cosa che la sua spada aveva toccato. Pel castello si udì un gran tramestìo, si vide correre la gente, e sulle pareti cominciarono a riflettersi le fiaccole dei valletti. Don Garzia si slanciò sull’uscio gridando: — Non entri nessuno all’infuori del Bruno, se v’è cara la vita! — Tutti s’erano fermati attoniti vedendo il barone così pallido, coll’occhio stralunato e la spada in pugno, ancora macchiata di sangue. Bruno entrò, e vide uno spettacolo orribile. Vicino alla parete giaceva il cadavere di donna Violante, vestita del suo accappatoio bianco, com’era fuggita dal letto del marito la notte in cui s’era creduto che si fosse buttata in mare. Il viso avea pallido come cera e dimagrato enormemente, i capelli arruffati ed incolti, gli occhi spalancati, lucidi, fissi, spaventosi. La ferita era stata mortale e non sanguinava quasi, solo alcune gocce di sangue l’erano uscite dalla bocca e le rigavano il mento. — Avevi ragione Bruno! — disse il barone con voce sorda. — Non volevo crederci ai fantasmi; le credevo sciocchezze di femminucce; ma adesso ci credo anch’io. Bisogna buttare in mare questa forma della mia povera moglie che ha preso lo spirito maligno... e senza che nessuno al castello e fuori ne sappia nulla, ché sarebbero capaci d’inventarci su non so quale storia assurda... — Bruno capiva e non ebbe bisogno d’altre spiegazioni; però il suo signore non dimenticò di aggiungere sottovoce: — Senti, vecchio mio, sai bene che se la cosa si risapesse così come sembra essere avvenuta, io sarei stato bigamo e peggio, e la tua testa sarebbe assai malferma sulle tue spalle, in fede mia! — In chiesa, ricorrendo l’anniversario della morte di donna Violante, le furono resi dei pomposi e costosi suffragi; però, non si sa come, cominciavasi a buccinare al castello e fuori che la cosa fosse proprio avvenuta come sembrava, e come don Garzia non voleva che sembrasse; e Bruno, il quale perciò cominciava a dubitare che la sua testa non fosse ben ferma sulle sue spalle, un bel giorno a caccia mise per distrazione una palla d’archibugio fra la prima e la seconda vertebra del suo signore. Donna Isabella, che avea una gran paura del mal caduco, era andata a villeggiare presso la sua famiglia, e siccome l’aria le faceva bene, non era più ritornata.

V
Questa era la leggenda del Castello di Trezza, che tutti sapevano nei dintorni, che tutti raccontavano in modo diverso, mescolandovi gli spiriti, le anime del Purgatorio, e la Madonna dell’Ognina. I terremoti, il tempo, gli uomini, avevano ridotto un mucchio di rovine la splendida e forte dimora di signori i quali, al tempo di Artale d’Alagona, aveano sfidato impunemente la collera del re, e sembravano avervi impresso una stimmate maledetta, che dava una misteriosa attrattiva alla leggenda, e affascinava lo sguardo della signora Matilde, mentre ascoltava silenziosamente. — E di quell’uomo? — domandò improvvisamente, — di quel giovanotto che per sua disgrazia non era morto cadendo nel trabocchetto, e che vi agonizzava lentamente, cosa ne è avvenuto? — Chissà? Forse il barone avrà udito ancora dei gemiti soffocati, o delle grida disperate che imploravano la morte, forse dopo alcuni giorni, si sarà sentito il lezzo del cadavere da quella specie di pozzo, forse avrà voluto prevenire che ciò avvenisse, — vi fece gettar della calce viva, e non si sentì più nulla. — È una storia spaventosa! — mormorò la signora Matilde. — Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte, il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia! — Una storia la quale non sarebbe più possibile oggi che i mariti ricorrono ai Tribunali, o alla peggio si battono — rispose Luciano ridendo. Ella gli agghiacciò il riso in bocca con uno sguardo singolare. — Lo credete? — domandò. Luciano ammutolì per quello sguardo, per quell’accento, pel sentirsi dar del voi così distrattamente e a quella guisa. Sopraggiungeva il signor Giordano. Parlatemi d’altro, — diss’ella sottovoce, con singolare vivacità, — non discorriamo più di cotesto... —

VI
Il signor Luciano e la signora Matilde si vedevano quasi tutti i giorni, in quella piccola società d’amici che le veglie o le escursioni pei dintorni riunivano quotidianamente. La signora fu indisposta due o tre giorni, e non si fece vedere. Allorché s’incontrarono la prima volta parve così mutata a Luciano che ei le domandò premurosamente della salute; il contegno di lei, le sue risposte, furono così imbarazzate, che il giovane ne fu imbarazzato egli pure, senza saper perché. Evidentemente ella lo evitava. Era sempre allegra, spiritosa ed amabile con tutti, ma con lui era cambiata. — Anche il marito avea cambiato maniere — senza che nulla fosse avvenuto, senza che una parola fosse stata detta, senza che Luciano stesso sapesse ancora perché ei fosse così turbato, perché l’imbarazzo di lei rendesse imbarazzato anche lui, e perché si fosse accorto del cambiamento del signor Giordano. Una bella sera di luna piena tutta la comitiva era uscita a passeggiare, e Luciano offrì risolutamente il braccio alla signora Matilde; ella esitò alquanto, ma non osò rifiutare; camminavano lentamente, in silenzio, mentre gli altri ciarlavano e ridevano; ad un tratto ella gli strinse il braccio, e gli disse con un soffio di voce: — Vedete! — Il signor Giordano era lì presso, dando il braccio alla signora Olani. La mano che stringeva il braccio di Luciano era convulsa e tremante, la voce avea una vibrazione insolita. Quando il signor Giordano ebbe lasciata al cancello della villa la signora Olani, sembrò lasciare anche una maschera che si fosse imposta sino a quel momento, e mostrossi soprappensieri, taciturno e accigliato. — Ho paura!... ho paura di lui!... — mormorò Matilde sottovoce. Luciano premette quel braccio delicato che s’appoggiava leggermente al suo, e che gli rispose tremante e gli si abbandonò confidente e innamorato, a lui che non avrebbe potuto proteggerla neppure dando tutto il sangue delle sue vene. Si volsero uno sguardo, uno sguardo solo, lucente nella penombra — quello della donna smarrito — e chinarono gli occhi. Sull’uscio della casa si lasciarono. Ei non osò stringerle la mano. Ella partì, né seppe giammai quali notti ardenti di visioni egli avesse passato, quali febbri l’avessero roso accanto a lei, mentre sembrava così calmo e indifferente, quante volte fosse stato a divorarla, non visto, cogli occhi, e quel che si fosse passato dentro di lui allorché sorridendo dovette dirle addio dinanzi a tutti, e quando la vide passare, rincantucciata nell’angolo della carrozza, colle guance pallide e gli occhi fissi nel vuoto, e qual nodo d’amarezza gli avesse affogato il cuore allorché rivide chiusa quella finestra dove l’avea vista tante volte. L’indovinò? indovinò egli stesso quel che avesse sofferto ella pure? Quando s’incontrarono di nuovo, dopo lungo tempo, parvero non conoscersi, non vedersi, impallidirono e non si salutarono. Finalmente s’incontrarono un’altra volta — al ballo, in chiesa, al teatro, auspice Dio o la fatalità; ei le disse: — Come potrei vedervi? — Ella impallidì, si fece di bracia, chinò gli occhi, glieli fissò ardenti nei suoi, e rispose: — Domani —. E il domani si videro — un’ora dopo ella avea l’anima ebbra di estasi, i polsi tremanti di febbre, e gli occhi pieni di lagrime. — Perché m’avete raccontato quella storia? — ripeteva balbettando come in sogno. Era pentimento, rimprovero, o presentimento? Alcuni mesi dopo, in autunno, la medesima compagnia d’amici s’era riunita ad Aci Castello. I due che s’amavano avevano saputo nascondere la loro febbre, o il marito avea saputo dissimulare la sua collera, o la signora Olani era stata più assorbente. Si vedevano come prima, si riunivano come prima, erano allegri, o sembravano, come prima. — Qualche fuggitivo rossore di più sulle gote, e qualche lampo negli occhi — null’altro! Si facevano le solite scampagnate, i soliti ballonzoli, si andava in barca o a cavallo sugli asini, e si progettò anche il solito pranzo sulla vecchia torre del castello. La signora Matilde mise in mezzo tutti gli ostacoli; il marito la guardò in un certo modo, e le domandò la ragione dell’insolita ripugnanza... Andò anche lei. Il pranzo fu allegro come quello dell’anno precedente. Si mangiò sull’erba, si ballò sull’erba, e si buttarono sull’erba le bottiglie dopo che ne furono fatti saltare i turaccioli. Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallereschi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con avidità, digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon moscato di Siracusa. Luciano e la signora Matilde stavano zitti da lungo tempo, ed evitavano di guardarsi.

VII
Don Garzia d’Arvelo era diventato inaspettatamente, a cinquant’anni, signore dei numerosi feudi che dipendevano dalla baronia di Trezza; il barone suo nipote era stato trovato in un burrone, lungo stecchito, un bel dì, o una brutta notte, che era andato a caccia di non so qual selvaggina. Il cavaliere d’Arvelo, ora che era barone, fece impiccare preliminarmente due o tre vassalli i quali avevano la disgrazia di possedere bella selvaggina in casa, e la triste riputazione di tenere all’onore come altrettanti gentiluomini; poi era montato a cavallo, e siccome sospettavasi anche che il signore di Grevie avesse saldato in quel tal modo spicciativo alcuni vecchi conti di famiglia, era andato ad aspettarlo ad un certo crocicchio, e senza stare a sofisticare sulla probabilità del si dice, aveva messo il saldo alla partita. Soddisfatti così i suoi obblighi di d’Arvelo e di signore non uso a farsi posare mosca sul naso, era andato ad assidersi tranquillamente sul seggio baronale, avea appeso la spada al chiodo del suo antecessore, e, tanto per farsi la mano da padrone, avea fatto sentire come la sua fosse di ferro a tutti quei poveri diavoli che stavano nei limiti della sua giurisdizione, ed anche delle sue scorrerie, ché un po’ del predone gli era rimasto colle vecchie abitudini di cavalier di ventura. Tutti coloro che nel requiem ordinato in suffragio del giovane barone avevano innestato sottovoce certi mottetti che non erano nella liturgia, ebbero a pentirsene, e dovettero ripetere, senza che sapessero di storia, il detto della vecchia di Nerone. Lupo per lupo, il vecchio che succedeva al giovane mostrava tali ganasce e tale appetito, che al paragone il lupacchiotto morto diventava un agnellino. Il cavaliere, cadetto di grande famiglia, era stato tanto tempo ad aguzzarsi le zanne e ad ustolare attorno a tutto quel ben di Dio in cui sguazzava il nipote, capo della casa e suo signore e padrone, che malgrado le scorrerie di tutti i generi, sulle quali il fratello e poscia il nipote avevano chiuso un occhio, si poteva dire di lui che fosse affamato da cinquant’anni; sicché era naturalissimo che allorquando poté darsi una buona satolla di tutti gli intingoli del potere più sfrenato, lo fece da ghiottone, il quale abbia stomaco di struzzo. Del resto il Re, suo signore dopo Dio, era lontano, e i d’Arvelo erano d’illustre famiglia, grandi di Spagna, di quelli che non si sberrettano né dinanzi al Re, né dinanzi a Dio, titolari di diverse cariche a Corte, baroni ricchi e potenti, un po’ alleati della mano sinistra coi Barbareschi, di quei mastini insomma che andavano lisciati pel verso del pelo. Don Garzia andò a Corte; si batté con un gentiluomo che osò ridere dei suoi baffi irsuti e dei suoi galloni consunti, e gli mise tre pollici di ferro fra le costole, prestò il suo omaggio di sudditanza al Re, il quale lo invitò alla sua tavola, e fra il caciocavallo e i fichi secchi gli disse, che poiché la famiglia d’Arvelo non avea altri successori, il suo buon piacere era che don Garzia sposasse una damigella Castilla, la quale attendeva marito nel Monastero di Monte Vergine. Don Garzia, buon suddito e buon capo di grande famiglia, sposò la damigella senza farselo dir due volte, e senza vederla una volta sola prima di condurla all’altare, ma dopo aver ben guardato nelle pergamene della famiglia della sposa e nei quattro quarti del suo blasone; la mise in una lettiga nuova, con buona mano d’uomini d’arme e di cagnotti davanti, ai lati, e dietro; montò il suo cavallo pugliese, e se la menò a Trezza. La sera dell’arrivo degli sposi si fecero gran luminarie al castello, nel villaggio, e nei dintorni, la campana della chiesuola suonò sino a creparne, si ballò tutta la notte sulla spiaggia, e del vino del Bosco e di Terreforti delle cantine del barone ne bevve persino il mare. Nondimeno, allorché la sposa fu entrata in quella cameraccia scura e triste, in fondo all’alcova immensa della quale ergevasi come un catafalco il talamo nuziale, non poté vincere un senso di ripugnanza e quasi di paura, e domandò al marito: — Come va, mio signore, che essendo voi tanto ricco, avete una sì brutta cameraccia? — Don Garzia, il quale ricordavasi di dover essere galante pel quarto d’ora, rispose: — La camera sarà bella ora che ci starete voi, madonna —. Però la prima volta che donna Violante si svegliò in quella brutta cameraccia, e al fianco di quel brutto sire, dovette essere un gran brutto svegliarsi. Ma ell’era damigella di buona famiglia, bene educata all’obbedienza passiva, fiera soltanto del nome della sua casa e di quello che le era stato dato in tutela; era stata strappata bruscamente alla calma del suo convento, ai tranquilli diletti, ai sogni vagamente turbati della sua giovinezza, ad un romanzetto appena abbozzato, ed era stata gettata, — ella che avea sangue di re nelle vene, — nell’alcova di quel marrano, cui per caso era caduto in capo un berretto di barone: ella avea accettato quel marrano, perché il Re, il capo della sua famiglia, le leggi della sua casta glielo imponevano, e avea soffocato la sua ripugnanza, allorché la mano nera e callosa di quel vecchio s’era posata sulle sue spalle bianche e superbe, perché era suo marito: dolce e gentile com’era, cercava a furia di dolci e gentili maniere raddolcire quel vecchio lupo che le ringhiava accanto, e le mostrava i denti aguzzi allorché voleva sembrare amabile. Però quello non era tal lupo cui l’acqua santa del matrimonio potesse far cambiare il pelo; e quanto a vizi avea tutti quelli che s’incontrano sulla strada di un soldato di ventura, dietro le insegne delle bettole. Per giunta, e per disgrazia, donna Violante dopo due anni di matrimonio non solo non avea messo al mondo il dito mignolo d’un baroncino, ma non avea nemmen l’aria di darsene per intesa, e d’aver capito il motivo per cui don Garzia s’era tolto in casa la noia e la spesa di una moglie. Quella moglie delicata, linfatica, colle mani bianche, che gli parlava a voce bassa, che arrossiva alle sue canzonette allegre ed alle sue esclamazioni gioviali, che scappava spaventata allorché il sire era in buon umore, che non gli sapeva condire i suoi intingoli prediletti, e che non era stata buona nemmeno a dargli un successore, gli faceva l’effetto d’un ninnolo di lusso, da tenersi sotto chiave come i diamanti di famiglia; perciò, lungi di smettere le sue abitudini di lanzichenecco, ci s’era lasciato andare allegramente, senza prendersi nemmeno la pena di nasconderlo alla moglie, la quale era così timida, e tremava talmente, allorché ei si metteva in collera alla menoma osservazione, da sembrargli stupida. Cacciava, beveva, correva pei tetti e scavalcava le siepi, e quando ritornava ubbriaco, o di cattivo umore, guai alle mosche che si permettevano di ronzare! Un’ultima scappata di don Garzia però avea fatto tale scandalo, che andò a colpire nel vivo quella vittima rassegnata. La fierezza di patrizia, l’amor proprio di donna, la gelosia di moglie, si ribellarono alfine in donna Violante, e le diedero per la prima volta un’energia fittizia. — Mio signore, — dissegli con voce tremante, ma senza chinare gli occhi dinanzi al brusco cipiglio del marito, — rimandatemi al convento dal quale m’avete tolta, poiché sono tanto scaduta dalla vostra stima! — Che vuol dir ciò? — borbottò don Garzia, — e chi vi ha detto di esser scaduta? — Come va dunque, che vi rispettiate così poco voi stesso, da scendere sino alla Mena? — Il barone stava per attaccare una mezza dozzina di quei sacrati che facevan tremare il castello sino dalle fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte: — Da quando in qua, madonna, al castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? Badate a covarmi dei baroni, piuttosto, com’é vostro dovere, e lasciatemi cantar mattutino e compieta secondo il mio buon piacere —. La baronessa l’indomani s’era levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda, lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito dell’aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisionomia di lei non si movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza con un bacio avvinazzato. — Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta.

VIII
Una sera il barone tardava a venire; la luna specchiavasi sui vetri istoriati dell’alta finestra, e il mare fiottava sommessamente. La baronessa stava da lunga pezza assorta, sulla sua alta seggiola a braccioli, col mento nella mano, distratta o meditabonda. Corrado, il bel paggio del barone d’Arvelo, le aveva domandato inutilmente due volte se gli comandasse di montare a cavallo, e d’andare in traccia del suo signore. Alfine donna Violante gli fissò in viso lo sguardo pensoso. — Era un bel giovanetto, Corrado, dall’occhio nero e vellutato, e dalle guance brune e fresche come quelle di una vaga fanciulla di Trezza, così timido che quelle guance dorate si imporporavano alquanto sotto lo sguardo distratto della sua signora. — Ella lo fissò a lungo senza vederlo. — No! — disse poscia. — perché?... — Si alzò, andò ad aprire la finestra, e appoggiò i gomiti al davanzale. Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduto fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale, le onde morivano come un sospiro ai piedi dell’alta muraglia; la spuma biancheggiava un istante, e l’acre odore marino saliva a buffi, come ad ondate anch’esso. La baronessa stette a contemplare sbadatamente tutto ciò, e sorprese se stessa, lei così in alto nella camera dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così basso al piede delle sue torri. Poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto; infine si volse bruscamente, quasi sorpresa dal paggio che, ritto sull’uscio, attendeva i suoi ordini, guardò di nuovo la spiaggia, il mare, l’orizzonte segnato da una sfumatura di luce, l’ombra degli scogli che andava e veniva coll’onda, e tornò a fissar Corrado, questa volta più lungamente. Ad un tratto arrossì, come sorpresa della sua distrazione, e per dir qualche cosa domandò sbadatamente: — Che ora è Corrado? — Son le due di notte, madonna. — Ah! — Le sue ciglia si corrugarono di nuovo, chinò gli occhi un istante, e con un suono d’amarezza indicibile: — Tarda molto stasera il barone!... — Non temete, madonna; la campagna è sicura, la sera è bella, e la luna non ha una nube. — È vero! — diss’ella con uno strano sorriso. — È proprio una sera da amanti!... — E seguitò a fissare il giovinetto col suo sguardo da padrona, senza pensare a lui che ne era colpito. Lasciò la finestra e andò a sedere sulla seggiola stemmata, ai piedi della quale si teneva il paggio; non più melanconica, né meditabonda, ma inquieta, agitata, e nervosa. — Conosci la Mena? — domandò ad un tratto bruscamente. — La mugnaia del Capo dei Molini? — Sì, la mugnaia del Capo dei Molini! — ripeté con un singolare sorriso. — La conosco, madonna. — E anch’io! — esclamò con voce sorda. — Me l’ha fatta conoscere mio marito! — Per l’altera castellana Corrado non era altro che un domestico, un giovanetto che portava il suo stemma ricamato sul giustacuore di velluto, e che era leggiadro, e avea la chioma bionda e inanellata per far onore alla casa. Ella dunque parlava come fra sé, colla sua eco, perché il suo cuore era troppo pieno, perché l’amarezza non s’era sfogata in lagrime, e gli fece una singolare domanda, con singolare accento e cogli occhi fissi al suolo: — Percé non sei l’amante della Mena anche tu? — Io, madonna? — Sì, tutti vanno pazzi per cotesta mugnaia! — Io sono un povero paggio, madonna!... Ella gli fissò in viso quello sguardo accigliato, e a poco a poco le sopracciglia si spianarono. — Povero o no, tu sei un bel paggio. Non lo sai? — I loro occhi si incontrarono un istante e si evitarono nello stesso tempo. Se la vanità del giovinetto si fosse risvegliata a quelle parole, tutto sarebbe finito fra di loro e l’orgoglio della patrizia si sarebbe inalberato così all’audacia del paggio, che il cuore della donna si sarebbe chiuso per sempre. Ma il giovinetto sospirò, e rispose chinando gli occhi: — Ahimè! madonna! — Quel sospiro aveva un’immensa attrattiva. Mille nuovi sentimenti confusi e violenti andavano gonfiandosi nell’animo della baronessa, come le nubi su di un mare tempestoso. Ella pure, bianca, superba, ella che discendeva da principi reali e da re castigliani, non poté fare a meno di paragonare quel giovinetto ingenuo, leggiadro, che avea cuore di cavaliere sotto una livrea di domestico, a quell’uomo rozzo, brutto, villano, coronato di barone, cui s’era data, e il quale la posponeva ad una bellezza da trivio, che portava zoccoli ai piedi e sacchi di farina sul dorso. Lagrime ardenti le luccicarono nell’orbita, asciugate subito da qualcosa di più ardente ancora, divorate in segreto; tutto quel movimento interno sembrava aver voce e parola, sembrava gridare da tutte le sue membra e da tutti i suoi pori, e il paggio osava fissare per la prima volta su quella sovrana bellezza, delirante in segreto e che faceva delirare, i suoi begli occhi azzurri, scintillanti di luce insolita. — Corrado! — esclamò ella all’improvviso, con voce sorda e interrotta, come perdesse la testa; — tu che la conosci... tu che sei uomo... dimmi se cotesta mugnaia... è bella... s’è più bella di me... Oh dimmelo! non aver paura... Il giovanetto guardava affascinato quella donna corrucciata, fremente, gelosa, rossa di onta e di dispetto, bella da far dannare un angelo; impallidì e non rispose: poi colla voce tremante, colle mani giunte, con un accento che fece scuotere e trasalire la sua signora, esclamò: — Oh... abbiate pieta di me!... madonna!... Ella gli lanciò un’occhiata fosca, senza sguardo, e si allontanò rapidamente, fuggendo; andò ad appoggiarsi al davanzale, a bere avidamente la fresca brezza della notte. Quattro ore suonavano in quel momento; non si vedeva un sol lume, né si udiva una voce. Che cosa avveniva in quell’anima combattuta? Nessuno avrebbe saputo dirlo, lei meno di ogni altra, ché tali pensieri sono vertiginosi, tempestosi anche, come è complesso il sentimento da cui emanano. E ad un tratto volgendosi bruscamente verso di lui: — Senti, — gli disse. — Hai torto! Paggio o no, povero o no, sei bello e giovane da far perdere la testa, e hai torto a non essere l’amante della Mena; il tuo padrone, che è vecchio e brutto, l’ama... l’amore è la giovinezza, la beltà, il piacere; non ci credevo... ma mio marito me l’ha insegnato, — e questo marito non è né giovane, né bello, né gentile. — Io mi son data a lui — ero bella, ti giuro, ero bella allora, delicata, tutta sorriso, col cuore ansioso e trepidante arcanamente sotto la ruvida mano che m’accarezzava. Nel convento avevo sognato tante volte che quella prima carezza mi sarebbe venuta da un’altra mano bianca e delicata che mi avea salutato, e che le mie vergini labbra avrebbero rabbrividito la prima volta sotto quelle altre che m’aveano sorriso, ombreggiate da baffetti d’oro, attraverso la grata. Invece furono le labbra irsute del barone d’Arvelo... — Colui era bello come te, biondo come te, giovane come te; io gli rapii la mia beltà, la mia giovinezza, il mio primo bacio che gli avevo promesso col primo sguardo, il mio cuore, che era suo, per darli a quest’uomo cui m’avevano ordinato di darli, e glieli diedi lealmente. Ora senti, io sono povera come te, non possedevo che il mio bel nome e gli ho dato anche quello, e ho combattuto i miei sogni, le mie ripugnanze, i palpiti stessi del mio cuore. Adesso quest’uomo cui ho sacrificato tutto ciò, che mi ha rapito tutto ciò, questo ladro, questo sleal cavaliere, questo marito infame, ha mescolato il mio primo bacio di vergine al bacio di una cortigiana... — — Tu non sai, non puoi sapere qual effetto possano fare tali infamie sull’animo di una patrizia... Ma giuro, per santa Rosalia! che mi vendicherò in tal modo, che farò tale ingiuria a quest’uomo, che lo coprirò di tale vergogna, quale non basterà a lavare tutto il sangue delle sue vene e delle mie... Io son giovane ancora, sarò ancora bella quando amerò... Ti giuro!... Vuoi? di’! vuoi? — Egli tremava tutto. — Ella gli afferrò il capo con gesto risoluto, con occhi ardenti e foschi, e gli stampò sulla bocca un bacio di fuoco.

IX
Donna Violante non chiuse occhio in tutta la notte. Stava col gomito sul guanciale, fissando uno sguardo intraducibile, immobile, instancabile, su quel marito che dormiva tranquillo accanto a lei, di cui l’alito avvinazzato le sfiorava il viso, e il quale l’avrebbe stritolata sotto il suo pugno di ferro, se avesse potuto immaginare quali fantasmi passassero per gli occhi sbarrati di lei. E all’indomani, colle guance accese di febbre, e il sorriso convulso, gli disse: — Non vi pare che sarebbe tempo di cercare un altro paggio, don Garzia? — Perché? — Corrado non è più un ragazzo; e voi lasciate troppo spesso sola vostra moglie, perché egli possa starle sempre vicino senza dar da ciarlare ai vostri nemici —. Il barone aggrottò le ciglia, e rispose: — Amici e nemici mi conoscono abbastanza perché né la cosa né le ciarle siano possibili —. Sugli occhi della donna lampeggiò un sorriso da demone. — E poi, — aggiunse don Garzia, — vi stimo abbastanza per temere che voi, nobile e fiera, possiate scendere sino ad un paggio —. E buttandole galantemente le braccia al collo accostò le sue labbra a quelle di lei. Ella, bianca come una statua, gli rese il bacio con insolita energia. Nondimeno, malgrado l’alterigia baronale, e la fiducia nella sua possanza, don Garzia era tal vecchio peccatore da non dormir più tranquillo i suoi sonni una volta che gli era stata messa nell’orecchio una pulce di quella fatta, e, andato a trovar Corrado: — Orsù, bel giovane, — gli disse, — eccoti questo borsellino pel viaggio, e queste due righe di benservito, e vatti a cercar fortuna altrove —. Il giovane rimase sbalordito, e non potendo aspettarsi da che parte gli venisse il congedo, temette che qualcosa del terribile segreto fosse trapelata; e tremante, non per sé, ma per colei di cui avea sognato tutta la notte gli occhi lucenti, e l’ebbrezze convulse: — Almeno, mio signore, — balbettò, — piacciavi dirmi, in grazia, perché mi scacciate! — Perché sei già in età da guadagnarti il pane dove c’è da menar le mani, invece di stare a grattar la chitarra, ed è tempo di pensare a vestir l’arnese, piuttosto che farsettino di velluto. — Orbè, messere, lasciatemi al vostro servizio, in mercé, se in nulla vi dispiacqui, e in quell’ufficio che meglio vi tornerà —. Il barone si grattò il naso, come soleva fare tutte le volte che gli veniva voglia di assestare un ceffone. — Via! — gli disse con tal piglio da non dover tornar due volte sulle cose dette; — levamiti dai piedi, mascalzone; ché dei tuoi servigi non so che farmene, e bada che se la sera di domani ti trova ancora nel castello non ne uscirai dalla porta —. Il povero paggio aveva perduto la testa; malgrado la gran paura che mettevagli addosso il suo signore tentò tutti i mezzi per cercar di vedere quella donna che gli avea irradiato di luce la vita in un attimo, e che amava più della vita. Ma la baronessa lo evitava, come avesse voluto fuggire se stessa, o le sue memorie. Tutti i progetti e i timori più assurdi si affollarono nella testa delirante del giovane innamorato, e credendo la vita di donna Violante minacciata dal barone, decise di far di tutto per salvarla. Finalmente, mentre sollevava una tenda sotto la quale ella passava, fiera, calma e impenetrabile, le sussurrò sottovoce: — Se il mio sangue può giovarvi a qualcosa, prendetevelo, madonna! — Ella non si volse, non rispose, e passò oltre. Ei rimase come fulminato.

X
La sera che non dovea più trovar Corrado nel castello si avvicinava rapidamente, ed egli non si rammentava nemmeno della terribile minaccia di quel signore che giammai non minacciava invano. Era pazzo di amore; avrebbe pagato colla testa un quarto d’ora di colloquio colla sua signora. Il barone prima di andare a dormire soleva fare tutte le sere la visita del castello. Corrado contava su quel momento per avere un’ultima spiegazione, o un ultimo addio dalla baronessa. Allorché tutto fu buio, s’insinuò non visto nel ballatoio, e venne a riuscire dietro la finestra di donna Violante. Don Garzia era seduto colle spalle alla finestra, e stava cenando. La moglie eragli di faccia, col mento sulla mano e gli occhi fissi, impietrati. Ad un tratto, fosse presentimento, fosse fluido misterioso, fosse qualche lieve rumore fatto dal giovane coll’appoggiare il viso ai vetri, ella trasalì, alzò il capo vivamente, e i suoi sguardi s’incontrarono con quelli del paggio a guisa di due correnti elettriche. — Cos’avete? — domandò il barone. — Nulla — diss’ella, bianca e impassibile come una statua. Il barone si voltò verso la finestra: — Che rumore e cotesto? — Donna Violante chiamò la cameriera; e le ordinò di chiudere bene; era fredda e rigida come una statua di marmo. — Sarà il vento, — soggiunse, — o la finestra non è ben chiusa —. Corrado ebbe appena il tempo di rannicchiarsi rasente al muro. Il barone di tanto in tanto volgeva alla sfuggita sulla moglie uno sguardo singolare, e, cosa più singolare, era sobrio! — Non bevete un sorso? — domandò versandole del vino. Ella non osò rifiutare, alzò lentamente il bicchiere, e si udirono i suoi denti urtare due o tre volte contro il vetro. Poi rimase pensierosa, ma con certa ansietà febbrile, gettando sguardi irrequieti qua e là. — Bisogna che vi cerchi un altro paggio, ora che Corrado è partito — disse il barone figgendole gli occhi in viso. Donna Violante non rispose, ma levò gli occhi anche lei, e si guardarono. Il barone bevve un altro bicchier di moscato, e si alzò per andare a far la ronda della sera. Come fu sola la donna, si levò anch’essa, quasi spinta da una molla, e si diede a passeggiar per la camera, agitata e convulsa. Ogni volta che passava dinanzi alla finestra vi gettava un’occhiata scintillante. Ad un tratto vi andò risolutamente, e l’aperse. Essi si trovarono faccia a faccia, e si guardarono in silenzio. — Ma che fai qui? — domandò donna Violante con accento febbrile! — Son venuto a morire — rispose il paggio con calma terribile. — Ah! — esclamò ella con un sorriso amaro. — Lo sai che t’ho fatto scacciar io? — Voi! — Io! — Perché m’avete fatto scacciare? — Perché non ho potuto far scacciare me stessa, e perché non ho avuto il coraggio di uccidermi dopo di essermi vendicata. — Che vi ho fatto? — esclamò egli colle lagrime nella voce. — Che m’hai fatto?... — rispose la donna fissandolo con occhi stralunati. — Che m’hai fatto?... Ebbene, cosa vuoi ancora? cosa sei venuto a fare? — Son venuto a dirvi che vi amo! — diss’egli senza entusiamo e senza amarezza. — Tu! — esclamò la baronessa celandosi il viso fra le mani. — Perdonatemelo, Madonna! — aggiunse il paggio sorridendo tristamente — cotesto amore che vi offende lo sconterò in un modo terribile. — No! — diss’ella con voce delirante. — Non voglio che tu muoia, non voglio più amarti, e non voglio rivederti mai più!... no! no! vattene! — Egli scosse il capo rassegnato. — Andarmene? È tardi, il ponte levatoio è tirato, e il barone mi ha detto che questa sera non avrebbe voluto trovarmi più qui. Bisognava che io arrischiassi qualche cosa per vedervi un’ultima volta, così bella come vi ho sempre dinanzi agli occhi, e che io paghi con qualcosa di prezioso il potervi dire la terribile parola che vi ho detto. — Ebbene! — rispose donna Violante, pallida come lui, tremante come lui — anche io sconterò il mio fallo... È giusto! — In questo momento si udirono i passi del barone che ritornava accompagnato da qualcuno. — Sia! — esclamò convulsivamente la baronessa. — Ti amo, son tua, sia! moriamo! — E gli cinse le braccia al collo, e gli attaccò alle labbra le labbra febbrili. Si udì la voce di don Garzia che diceva al Bruno: — Tu va sul ballatoio e sta a guardia da quella parte —. Corrado si strappò da quell’amplesso di morte, con uno sforzo più grande di quel che ci sarebbe voluto per precipitarsi dalla finestra di cui gli veniva chiuso lo scampo, e stringendole la mano risolutamente: — No! voi no! Ricordatevi di me, Violante, e non temete per voi. Il povero paggio saprà morire come un gentiluomo —. E mentre si udivano già i passi del barone dietro l’uscio, e Bruno che percorreva il ballatoio, si slanciò nell’andito ch’era dietro l’alcova, e in fondo al quale spalancavasi il trabocchetto. Don Garzia entrò con passo rapido, non guardò nemmen la moglie, la quale sembrava un cadavere, gittò un’occhiata alla finestra chiusa, ed entrò nell’andito senza dire una parola. Non si udì più nulla. Poco dopo riapparve d’Arvelo, calmo e impenetrabile come al solito. — Tutto è tranquillo, — disse. — Andiamo a dormire, Madonna —.

XI
La notte s’era fatta tempestosa, il vento sembrava assumere voci e gemiti umani, e le onde flagellavano la rocca con un rumore come di un tonfo che soffocasse un gemito d’agonia. Il barone dormiva. Ella lo vedeva dormire, immobile, sfinita, moribonda d’angoscia, sentiva la tempesta dentro di sé, e non osava muoversi per timor di destarlo. Avea gli occhi foschi, le labbra semiaperte, il cuore le si rompeva nel petto, e sembravale che il sangue le si travolgesse nelle vene. Provava bagliori, sfinimenti, impeti inesplicabili, vertigini che la soffocavano, tentazioni furibonde, grida che le salivano alla gola, fascini che l’agghiacciavano, terrori che la spingevano alla follìa. Sembravale di momento in momento che la vòlta dell’alcova si abbassasse a soffocarla, o che l’onda salisse e traboccasse dalla finestra, o che le imposte fossero scosse con impeto disperato da una mano che si afferrasse a qualcosa, o che il muggito del mare soverchiasse un urlo delirante d’agonia: il gemito del vento le penetrava sin nelle ossa, con parole arcane ch’ella intendeva, che le dicevano arcane cose, e le facevano dirizzare i capelli sul capo — e teneva sempre gli occhi intenti e affascinati nelle orbite incavate ed oscure di quel marito dormente, il quale sembrava la guardasse attraverso la palpebre chiuse, e leggesse chiaramente tutti i terrori che sconvolgevano la sua ragione. — Di tanto in tanto si asciugava il freddo sudore che le bagnava la fronte, e ravviava macchinalmente i capelli che sentiva formicolarsi sul capo, come fossero divenuti cose animate anche essi. Quando l’uragano taceva, provava un terrore più arcano, e con un movimento macchinale nascondeva il capo sotto le coltri, per non udire qualcosa di terribile. Ad un tratto quel suono che parevale avere udito in mezzo agli urli della tempesta, quel gemito d’agonia, visione o realtà, s’udì più chiaro e distinto. Allora mise uno strido che non aveva più nulla d’umano, e si slanciò fuori del letto. Il barone, svegliato di soprassalto, la scorse come un bianco fantasma fuggire dalla finestra, si precipitò ad inseguirla, saltò sul ballatoio e non vide più nulla. La tempesta ruggiva come prima. Sul precipizio fu trovato il fazzoletto che avea asciugato quel sudore d’angoscia sovrumana.

XII La storia avea divertito tutti, anche quelli che la conoscevano diggià, e che la commentavano ai nuovi venuti colla leggenda degli spiriti che avevano abitato il castello. La sera era venuta, l’ora e il racconto aiutavano le vagabonde fantasticherie dell’eccellente digestione. Luciano e la signora Matilde avevano impallidito qualche volta durante quel racconto che conoscevano: — Badate, — le sussurrò egli sottovoce. — vostro marito vi osserva! — Ella si fece rossa, poi impallidì, guardò il mare che imbruniva, e s’avviò la prima. Scesero le scale crollanti, e giunti al basso era quasi buio. La grossa tavola che faceva da ponte levatoio sull’abisso spaventoso il quale spalancasi sotto la rocca, a quell’ora era un passaggio pericoloso. I più prudenti si fermarono prima di metterci piede, e proposero di mandare al villaggio per cercar dei lumi. — Avete paura? — esclamò il signor Giordano con un sorrisetto sardonico. E si mise arditamente sullo strettissimo ponte. Sua moglie lo seguì tranquilla e un po’ pallida, Luciano le tenne dietro e le strinse la mano. In quel momento, a 150 metri sul precipizio, accanto a quel marito di cui s’erano svegliati i sospetti, quella stretta di mano, di furto, fra le tenebre avea qualcosa di sovrumano. L’altro li vide forse nell’ombra, lo indovinò, avea calcolato su di ciò... Si volse bruscamente e la chiamò per nome. Si udì un grido, un grido supremo, ella vacillò, afferrandosi a quella mano che l’avea perduta per aiutarla, e cadde con lui nell’abisso. A Trezza si dice che nelle notti di temporale si odano di nuovo dei gemiti, e si vedano dei fantasmi fra le rovine del castello.


Nedda



Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d’amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l’altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l’effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte. E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca. La vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla; il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull’ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch’esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: — Nedda! Nedda la varannisa! — sclamarono parecchie. — Dove s’é cacciata la varannisa? — Son qua — rispose una voce breve dall’angolo più buio, dove s’era accoccolata una ragazza su di un fascio di legna. — O che fai tu costà? — Nulla. — Perché non hai ballato? — Perché son stanca. — Cantaci una delle tue belle canzonette. — No, non voglio cantare. — Che hai? — Nulla. — Ha la mamma che sta per morire, — rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti. La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi piedi nudi. Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: — O allora perché hai lasciato tua madre? — Per trovar del lavoro. — Di dove sei? — Di Viagrande, ma sto a Ravanusa —. Una delle spiritose, la figlioccia del castaldo, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d’oro al collo, le disse volgendole le spalle: — Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l’uccello —. Nedda le lanciò dietro un’occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda. — No! lo zio Giovanni sarebbe venuto a chiamarmi! — esclamò come rispondendo a se stessa. — Chi è lo zio Giovanni? — È lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così. — Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, — disse un’altra. — Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! — aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un’intonazione più dolente nella voce rude e quasi selvaggia: — ma a veder tramontare il sole dall’uscio, pensando che non c’è pane nell’armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l’indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel lettuccio! — E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero esprimere. — Le vostre scodelle, ragazze! — gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale. Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio. Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l’illuminò tutta. Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell’uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. — Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. — E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi. Nedda sporse la sua scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto. — Perché vieni sempre l’ultima? Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? — le disse a mo’ di compenso la castalda. La povera ragazza chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse. — Io te ne darei volentieri delle mie, — disse a Nedda una delle sue compagne che aveva miglior cuore; — ma se domani continuasse a piovere... davvero!... oltre a perdere la mia giornata non vorrei anche mangiare tutto il mio pane. — Io non ho questo timore! — rispose Nedda con un triste sorriso. — Perché? — Perché non ho pane di mio. Quel po’ che ci avevo, insieme a quei pochi quattrini, li ho lasciati alla mamma. — E vivi della sola minestra? — Sì, ci sono avvezza; — rispose Nedda semplicemente. — Maledetto tempaccio, che ci ruba la nostra giornata! — imprecò un’altra. — To’, prendi dalla mia scodella. — Non ho più fame; — rispose la varannisa ruvidamente, a mo’ di ringraziamento. — Tu che bestemmi la pioggia del buon Dio, non mangi forse del pane anche tu? — disse la castalda a colei che aveva imprecato contro il cattivo tempo. — E non sai che pioggia d’autunno vuol dire buon anno? — Un mormorio generale approvò quelle parole. — Sì, ma intanto son tre buone mezze giornate che vostro marito toglierà dal conto della settimana! — Altro mormorio d’approvazione. — Hai forse lavorato in queste tre mezze, perché ti s’abbiano a pagare? — rispose trionfalmente la vecchia. — È vero! è vero! — risposero le altre, con quel sentimento istintivo di giustizia che c’è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui. La castalda intuonò il rosario, le avemarie si seguirono col loro monotono brontolio, accompagnate da qualche sbadiglio. Dopo le litanie si pregò per i vivi e per i morti, e allora gli occhi della povera Nedda si riempirono di lagrime, e dimenticò di rispondere amen. — Che modo è cotesto di non rispondere amen? — le disse la vecchia in tuono severo. — Pensava alla mia povera mamma che è tanto lontana; — balbettò Nedda timidamente. Poi la castalda diede la santa notte, prese la lucerna e andò via. Qua e là, per la cucina o attorno al fuoco, s’improvvisarono i giacigli in forme pittoresche. Le ultime fiamme gettarono vacillanti chiaroscuri sui gruppi e su gli atteggiamenti diversi. Era una buona fattoria quella, e il padrone non risparmiava, come tant’altri, fave per la minestra, né legna pel focolare, né strame pei giacigli. Le donne dormivano in cucina, e gli uomini nel fienile. Dove poi il padrone è avaro, o la fattoria è piccola, uomini e donne dormono alla rinfusa, come meglio possono, nella stalla, o altrove, sulla paglia o su pochi cenci, i figliuoli accanto ai genitori, e quando il genitore è ricco, e ha una coperta di suo, la distende sulla sua famigliuola; chi ha freddo si addossa al vicino, o mette i piedi nella cenere calda, o si copre di paglia, s’ingegna come può; dopo un giorno di fatica, e per ricominciare un altro giorno di fatica, il sonno è profondo, al pari di un despota benefico, e la moralità del padrone non è permalosa che per negare il lavoro alla ragazza la quale, essendo prossima a divenir madre, non potesse compiere le sue dieci ore di fatica. Prima di giorno le più mattiniere erano uscite per vedere che tempo facesse, e l’uscio che sbatteva ad ogni momento sugli stipiti, spingeva turbini di pioggia e di vento freddissimo su quelli che intirizziti dormivano ancora. Ai primi albori il castaldo era venuto a spalancare l’uscio, per svegliare i pigri, giacché non è giusto defraudare il padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che gli paga il suo bravo tarì, e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la minestra. — Piove! — era la parola uggiosa che correva su tutte le bocche, con accento di malumore. La Nedda, appoggiata all’uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di piombo che gettavano su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era fredda e nebbiosa; le foglie avvizzite si staccavano strisciando lungo i rami, e svolazzavano alquanto prima di andare a cadere sulla terra fangosa, e il rigagnolo s’impantanava in una pozzanghera, dove s’avvoltolavano voluttuosamente dei maiali; le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva la stalla, e guardavano la pioggia che cadeva con occhio malinconico; i passeri, rannicchiati sotto le tegole della gronda, pigolavano in tono piagnoloso. — Ecco un’altra giornata andata a male! — mormorò una delle ragazze, addentando un grosso pan nero. — Le nuvole si distaccano dal mare laggiù, — disse Nedda stendendo il braccio; — verso il mezzogiorno forse il tempo cambierà. — Però quel birbo del fattore non ci pagherà che un terzo della giornata! — Sarà tanto di guadagnato. — Sì, ma il nostro pane che mangiamo a tradimento? — E il danno che avrà il padrone delle olive che andranno a male, e di quelle che si perderanno fra la mota? — È vero, — disse un’altra. — Ma pròvati ad andare a raccogliere una sola di quelle olive che andranno perdute fra mezz’ora, per accompagnarla al tuo pane asciutto, e vedrai quel che ti darà di giunta il fattore! — È giusto, perché le olive non sono nostre! — Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia! — La terra è del padrone, to’! — replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi. — È vero anche questo; — rispose un’altra, la quale non sapeva che rispondere. — Quanto a me preferirei che continuasse a piovere tutto il giorno, piuttosto che stare una mezza giornata carponi in mezzo al fango, con questo tempaccio, per tre o quattro soldi. — A te non ti fanno nulla tre o quattro soldi, non ti fanno! — esclamò Nedda tristemente. La sera del sabato, quando fu l’ora di aggiustare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore, tutta carica di cartacce e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più turbolenti furono pagati i primi, poscia le più rissose delle donne, in ultimo, e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto, Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezza di riposo forzato, restava ad avere quaranta soldi. La povera ragazza non osò aprir bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime. — E laméntati per giunta, piagnucolona! — gridò il fattore, il quale gridava sempre, da fattore coscienzioso che difende i soldi del padrone. — Dopo che ti pago come le altre, e sì che sei più povera e più piccola delle altre! e ti pago la tua giornata come nessun proprietario ne paga una simile in tutto il territorio di Pedara, Nicolosi e Trecastagne! Tre carlini, oltre la minestra! — Io non mi lamento... — disse timidamente Nedda intascando quei pochi soldi che il fattore, ad aumentare il valore, aveva conteggiato per grani. — La colpa è del tempo che è stato cattivo e mi ha tolto quasi la metà di quel che avrei potuto buscarmi. — Pigliatela col Signore! — disse il fattore ruvidamente. — Oh, non col Signore! ma con me che son tanto povera! — Pàgagli intiera la sua settimana, a quella povera ragazza; — disse al fattore il figliuolo del padrone, il quale assisteva alla raccolta delle olive. — Non sono che pochi soldi di differenza. — Non devo darle che quel ch’è giusto! — Ma se te lo dico io! — Tutti i proprietari del vicinato farebbero la guerra a voi e a me se facessimo delle novità. — Hai ragione! — rispose il figliuolo del padrone, il quale era un ricco proprietario, e aveva molti vicini. Nedda raccolse quei pochi cenci che erano suoi, e disse addio alle compagne. — Vai a Ravanusa a quest’ora? — dissero alcune. — La mamma sta male! — Non hai paura? — Sì, ho paura per questi soldi che ho in tasca; ma la mamma sta male, e adesso che non son più costretta a star qui a lavorare, mi sembra che non potrei dormire, se mi fermassi anche stanotte. — Vuoi che t’accompagni? — le disse in tuono di scherzo il giovane pecoraio. — Vado con Dio e con Maria — disse semplicemente la povera ragazza, prendendo la via dei campi a capo chino. Il sole era tramontato da qualche tempo e le ombre salivano rapidamente verso la cima della montagna. Nedda camminava sollecita, e quando le tenebre si fecero profonde, cominciò a cantare come un uccelletto spaventato. Ogni dieci passi voltavasi indietro, paurosa, e allorché un sasso, smosso dalla pioggia che era caduta, sdrucciolava dal muricciolo, o il vento le spruzzava bruscamente addosso a guisa di gragnuola la pioggia raccolta nelle foglie degli alberi, ella si fermava tutta tremante, come una capretta sbrancata. Un assiolo la seguiva d’albero in albero col suo canto lamentoso; ed ella, tutta lieta di quella compagnia, gli faceva il richiamo, perché l’uccello non si stancasse di seguirla. Quando passava dinanzi ad una cappelletta, accanto alla porta di qualche fattoria, si fermava un istante nella viottola per dire in fretta un’avemaria, stando all’erta che non le saltasse addosso dal muro di cinta il cane di guardia, che abbaiava furiosamente; poi partiva di passo più lesto, rivolgendosi due o tre volte a guardare il lumicino che ardeva in omaggio alla Santa, nello stesso tempo che faceva lume al fattore, quando doveva tornar tardi dai campi. Quel lumicino le dava coraggio, e la faceva pregare per la sua povera mamma. Di tempo in tempo un pensiero doloroso le stringeva il cuore con una fitta improvvisa, e allora si metteva a correre, e cantava ad alta voce per stordirsi, o pensava ai giorni più allegri della vendemmia, o alle sere d’estate, quando, con la più bella luna del mondo, si tornava a stormi dalla Piana, dietro la cornamusa che suonava allegramente; ma il suo pensiero correva sempre là, dinanzi al misero giaciglio della sua inferma. Inciampò in una scheggia di lava tagliente come un rasoio, e si lacerò un piede; l’oscurità era sì fitta che alle svolte della viottola la povera ragazza spesso urtava contro il muro o la siepe, e cominciava a perder coraggio e a non saper dove si trovasse. Tutt’a un tratto udì l’orologio di Punta che suonava le nove, così vicino che i rintocchi sembravano le cadessero sul capo. Nedda sorrise, quasi un amico l’avesse chiamata per nome in mezzo ad una folla di stranieri. Infilò allegramente la via del villaggio, cantando a squarciagola la sua bella canzone, e tenendo stretti nella mano, dentro la tasca del grembiule, i suoi quaranta soldi. Passando dinanzi alla farmacia vide lo speziale ed il notaro tutti inferraiuolati che giocavano a carte. Alquanto più in là incontrò il povero matto di Punta, che andava su e giù da un capo all’altro della via, colle mani nelle tasche del vestito, canticchiando la solita canzone che l’accompagna da venti anni, nelle notti d’inverno e nei meriggi della canicola. Quando fu ai primi alberi del diritto viale di Ravanusa, incontrò un paio di buoi che venivano a passo lento ruminando tranquillamente. — Ohé, Nedda! — gridò una voce nota. — Sei tu, Janu? — Sì, son io, coi buoi del padrone. — Da dove vieni? — domandò Nedda senza fermarsi. — Vengo dalla Piana. Son passato da casa tua; tua madre t’aspetta. — Come sta la mamma? — Al solito. — Che Dio ti benedica! — esclamò la ragazza come se avesse temuto il peggio, e ricominciò a correre. — Addio, Nedda! — le gridò dietro Janu. — Addio, — balbettò da lontano Nedda. E le parve che le stelle splendessero come soli, che tutti gli alberi, noti uno per uno, stendessero i rami sulla sua testa per proteggerla, e i sassi della via le accarezzassero i piedi indolenziti. Il domani, ch’era domenica, venne la visita del medico, il quale concedeva ai suoi malati poveri il giorno che non poteva consacrare ai suoi poderi. Una triste visita davvero! perché il buon dottore non era abituato a far complimenti coi suoi clienti, e nel casolare di Nedda non c’era anticamera, né amici di casa ai quali si potesse annunciare il vero stato dell’inferma. Nella giornata seguì anche una mesta funzione; venne il curato in rocchetto, il sagrestano coll’olio santo, e due o tre comari che borbottavano non so che preci. La campanella del sagrestano squillava acutamente in mezzo ai campi, e i carrettieri che l’udivano fermavano i loro muli in mezzo alla strada, e si cavavano il berretto. Quando Nedda l’udì per la sassosa viottola tirò su la coperta tutta lacera dell’inferma, perché non si vedesse che mancavano le lenzuola, e piegò il suo più bel grembiule bianco sul deschetto zoppo, reso fermo con dei mattoni. Poi, mentre il prete compiva il suo ufficiò, andò ad inginocchiarsi fuori dell’uscio, balbettando macchinalmente delle preci, guardando come trasognata quel sasso dinanzi alla soglia su cui la sua vecchierella soleva scaldarsi al sole di marzo, e ascoltando con orecchio distratto i consueti rumori delle vicinanze, ed il via vai di tutta quella gente che andava per i propri affari senza avere angustie pel capo. Il curato partì, ed il sagrestano indugiò invano sull’uscio perchè gli facessero la solita limosina pei poveri. Lo zio Giovanni vide a tarda ora della sera la Nedda che correva sulla strada di Punta. — Ohé! dove vai a quest’ora? — Vado per una medicina che ha ordinato il medico —. Lo zio Giovanni era economo e brontolone. — Ancora medicine! — borbottò, — dopo che ha ordinato la medicina dell’olio santo! già, loro fanno a metà collo speziale, per dissanguare la povera gente! Fai a mio modo, Nedda, risparmia quei quattrini e vatti a star colla tua vecchia. — Chissà che non avesse a giovare! — rispose tristemente la ragazza chinando gli occhi, e affrettò il passo. Lo zio Giovanni rispose con un brontolio. Poi le gridò dietro: — Ohe! la varannisa! — Che volete? — Anderò io dallo speziale. Farò più presto di te, non dubitare. Intanto non lascerai sola la povera malata —. Alla ragazza vennero le lagrime agli occhi. — Che Dio vi benedica! — gli disse, e volle anche mettergli in mano i denari. — I denari me li darai poi; — rispose ruvidamente lo zio Giovanni, e si diede a camminare colle gambe dei suoi vent’anni. La ragazza tornò indietro e disse alla mamma: — C’è andato lo zio Giovanni, — e lo disse con voce dolce insolitamente. La moribonda udì il suono dei soldi che Nedda posava sul deschetto, e la interrogò cogli occhi. — Mi ha detto che glieli darò poi; — rispose la figlia. — Che Dio gli paghi la carità! — mormorò l’inferma, — così resterai senza un quattrino. — Oh, mamma! — Quanto gli dobbiamo allo zio Giovanni? — Dieci lire. Ma non abbiate paura, mamma! Io lavorerò! — La vecchia la guardò a lungo coll’occhio semispento, e poscia l’abbracciò senza aprir bocca. Il giorno dopo vennero i becchini, il sagrestano e le comari. Quando Nedda ebbe acconciato la morta nella bara, coi suoi migliori abiti, le mise tra le mani un garofano che aveva fiorito dentro una pentola fessa, e la più bella treccia dei suoi capelli; diede ai becchini quei pochi soldi che le rimanevano perché facessero a modo, e non scuotessero tanto la morta per la viottola sassosa del cimitero; poi rassettò il lettuccio e la casa, mise in alto, sullo scaffale, l’ultimo bicchiere di medicina, e andò a sedersi sulla soglia dell’uscio, guardando il cielo. Un pettirosso, il freddoloso uccelletto del novembre, si mise a cantare tra le frasche e i rovi che coronavano il muricciuolo di faccia all’uscio, e saltellando fra le spine e gli sterpi, la guardava con certi occhietti maliziosi come se volesse dirle qualche cosa: Nedda pensò che la sua mamma, il giorno innanzi, l’aveva udito cantare. Nell’orto accanto c’erano delle olive per terra, e le gazze venivano a beccarle; ella le aveva scacciate a sassate, perché la moribonda non ne udisse il funebre gracidare; adesso le guardò impassibile, e non si mosse; e quando sulla strada vicina passarono il venditore di lupini, o il vinaio, o i carrettieri, che discorrevano ad alta voce per vincere il rumore dei loro carri e delle sonagliere dei loro muli, ella diceva: — costui è il tale, quegli è il tal altro —. Allorché suonò l’avemaria, e s’accese la prima stella della sera, si rammentò che non doveva andar giù per le medicine a Punta, ed a misura che i rumori andarono perdendosi nella via, e le tenebre a calare nell’orto, pensò che non aveva più bisogno d’accendere il lume. Lo zio Giovanni la trovò ritta sull’uscio. Ella si era alzata udendo dei passi nella viottola, perché non aspettava più nessuno. — Che fai costà! — le domandò lo zio Giovanni. Ella si strinse nelle spalle, e non rispose. Il vecchio si assise accanto a lei, sulla soglia, e non aggiunse altro. — Zio Giovanni, — disse la ragazza dopo un lungo silenzio, — adesso non ho più nessuno, e posso andar lontano a cercar lavoro; partirò per la Roccella, ove dura ancora la raccolta delle olive, e al ritorno vi restituirò i denari che ci avete imprestati. — Io non sono venuto a domandarteli i tuoi denari! — le rispose burbero lo zio Giovanni. Ella non disse altro, ed entrambi rimasero zitti ad ascoltare l’assiolo che cantava. Nedda pensò che era forse quello stesso di due sere innanzi, e sentì gonfiarsi il cuore. — E del lavoro ne hai? — domandò finalmente lo zio Giovanni. — No, ma qualche anima caritatevole troverò, che me ne darà. — Ho sentito dire che ad Aci Catena pagano le donne abili per incartare le arance in ragione di una lira al giorno, senza minestra, e ho subito pensato a te; tu hai già fatto quel mestiere nello scorso marzo, e devi esser pratica. Vuoi andare? — Magari! — Bisognerebbe trovarsi domani all’alba al giardino del Merlo, all’angolo della scorciatoia che conduce a Sant’Anna. — Posso anche partire stanotte. La mia povera mamma non ha voluto costarmi molti giorni di riposo. — Sai dove andare? — Sì, poi mi informerò. — Domanderai all’oste che sta sulla strada maestra di Valverde, al di là del castagneto ch’è sulla sinistra della via. Cercherai di massaro Vinirannu, e dirai che ti mando io. — Ci andrò, — disse la povera ragazza. — Ho pensato che non avresti avuto del pane per la settimana, — disse lo zio Giovanni cavando un grosso pan nero dalla profonda tasca del suo vestito, e posandolo sul deschetto. La Nedda si fece rossa, come se facesse lei quella buona azione. Poi, dopo qualche istante riprese: — Se il signor curato dicesse domani la messa per la mamma, io gli farei due giornate di lavoro, alla raccolta delle fave. — La messa l’ho fatta dire — rispose lo zio Giovanni. — Oh! la povera morta pregherà anche per voi! — mormorò la ragazza coi grossi lagrimoni agli occhi. Infine, quando lo zio Giovanni se ne andò, e udì perdersi in lontananza il rumore de suoi passi pesanti, chiuse l’uscio, e accese la candela. Allora le parve di trovarsi sola al mondo, ed ebbe paura di dormire in quel povero lettuccio ove soleva coricarsi accanto alla sua mamma. Le ragazze del villaggio sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò forte, quando la domenica successiva la vide sull’uscio del casolare, mentre si cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di non osservare le feste e le domeniche. La povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso peccato, andò a lavorare due giorni nel campo del curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all’uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera — ovvero diceva a se stessa a mo’ di rimprovero che si fosse meritato: — Son così povera! — oppure, guardando le sue due buone braccia: — Benedetto il Signore che me le ha date! — e tirava via sorridendo. Una sera — aveva spento da poco il lume — udì nella viottola una nota voce che cantava a squarciagola, e con la melanconica cadenza orientale delle canzoni contadinesche: Picca cci voli ca la vaju’ a viju. A la mi’ amanti di l’arma mia!... — È Janu! — disse sottovoce, mentre il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato, e cacciò la testa fra le coltri. E il domani, quando aprì la finestra, vide Janu col suo bel vestito nuovo di fustagno, nelle cui tasche cercavano entrare per forza le sue grosse mani nere e incallite al lavoro, con un bel fazzoletto di seta nuova fiammante che faceva capolino con civetteria dalla scarsella del farsetto, il quale si godeva il bel sole d’aprile appoggiato al muricciolo dell’orto. — Oh, Janu! — diss’ella, come se non ne sapesse proprio nulla. — Salutamu! — esclamò il giovane col suo più grosso sorriso. — O che fai qui? — Torno dalla Piana —. La fanciulla sorrise, e guardò le lodole che saltellavano ancora sul verde per l’ora mattutina. — Sei tornato colle lodole. — Le lodole vanno dove trovano il miglio, ed io dove c’è del pane. — O come? — Il padrone m’ha licenziato. — O perché? — Perché avevo preso le febbri laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana. — Si vede, povero Janu! — Maledetta Piana! — imprecò Janu stendendo il braccio verso la pianura. — Sai, la mamma!... — disse Nedda. — Me l’ha detto lo zio Giovanni —. Ella non aggiunse altro, e guardò l’orticello al di là del muricciolo. I sassi umidicci fumavano; le gocce di rugiada luccicavano su di ogni filo d’erba; i mandorli fioriti sussurravano lieve lieve e lasciavano cadere sul tettuccio del casolare i loro fiori bianchi e rosei che imbalsamavano l’aria; una passera, petulante e sospettosa nel tempo istesso, schiamazzava sulla gronda, e minacciava a suo modo Janu, che aveva tutta l’aria, col suo viso sospetto, di insidiare al suo nido, del quale spuntavano tra le tegole alcuni fili di paglia indiscreti. La campana della chiesuola chiamava a messa. — Come fa piacere a sentire la nostra campana! — esclamò Janu. — Io ho riconosciuto la tua voce stanotte, — disse Nedda facendosi rossa, e zappando con un coccio la terra della pentola che conteneva i suoi fiori. Egli si volse in là, ed accese la pipa, come deve fare un uomo. — Addio, vado a messa! — disse bruscamente la Nedda, tirandosi indietro dopo un lungo silenzio. — Prendi, ti ho portato codesto dalla città — le disse il giovane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta. — Oh! com’è bello! ma questo non fa per me! — O perché? se non ti costa nulla! — rispose il giovanotto con logica contadinesca. Ella si fece rossa, come se la grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò, sorridente, un’occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa; e allorché udì i grossi scarponi di lui sui sassi della viottola, fece capolino per accompagnarlo cogli occhi mentre se ne andava. Alla messa le ragazze del villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c’erano stampate delle rose che si sarebbero mangiate, e su cui il sole, scintillante dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri. E quand’ella passò dinanzi a Janu, il quale stava presso il primo cipresso del sacrato, colle spalle al muro e fumando nella sua pipa intagliata, ella sentì gran caldo al viso, e il cuore che le faceva un gran battere in petto, e sgusciò via alla lesta. Il giovane le tenne dietro fischiettando, e la guardava a camminare svelta e senza voltarsi indietro, colla sua veste nuova di fustagno che faceva delle belle pieghe pesanti, le sue brave scarpette, e la sua mantellina fiammante. — La povera formica, or che la mamma stando in paradiso non l’era più a carico, era riuscita a farsi un po’ di corredo col suo lavoro. — Fra tutte le miserie del povero c’e anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore! Nedda sentiva dietro di sè, con gran piacere o gran sgomento (non sapeva davvero che cosa fosse delle due), il passo pesante del giovanotto, e guardava sulla polvere biancastra dello stradale, tutto diritto e inondato di sole, un’altra ombra, la quale di tanto in tanto si distaccava dalla sua. Tutt’a un tratto, quando fu in vista della sua casuccia, senza alcun motivo, si diede a correre come una cerbiatta spaventata. Janu la raggiunse, ella si appoggiò all’uscio, tutta rossa e sorridente, e gli allungò un pugno sul dorso. — To’! — Egli ripicchiò con galanteria un po’ manesca. — O quanto l’hai pagato il tuo fazzoletto? — domandò Nedda togliendoselo dal capo per sciorinarlo al sole e contemplarlo in aria festosa. — Cinque lire, — rispose Janu un po’ pettoruto. Ella sorrise senza guardarlo; ripiegò accuratamente il fazzoletto, studiando i segni che avevano lasciato le pieghe, e si mise a canticchiare una canzonetta che non soleva tornarle in bocca da lungo tempo. La pentola rotta, posta sul davanzale, era ricca di garofani in boccio. — Che peccato, — disse Nedda, — che non ce ne siano di fioriti! — e spiccò il più grosso bocciolo e glielo diede. — Che vuoi che ne faccia se non è sbocciato? — diss’egli senza comprenderla, e lo buttò via. Ella si volse in là. — E adesso dovrai andare a lavorare? — gli domandò dopo qualche secondo. Egli alzò le spalle: — Dove andrai tu domani! — A Bongiardo. — Del lavoro ne troverò; ma bisognerebbe che non tornassero le febbri. — Bisognerebbe non star fuori la notte a cantare dietro gli usci! — gli diss’ella tutta rossa, dondolandosi sullo stipite dell’uscio con certa aria civettuola. — Non lo farò più, se tu non vuoi —. Ella gli diede un buffetto, e scappò dentro. — Ohé! Janu! — chiamò dalla strada lo zio Giovanni — Vengo! — gridò Janu; e alla Nedda: — Verrò anch’io a Bongiardo, se mi vogliono. — Ragazzo mio, — gli disse lo zio Giovanni quando fu sulla strada, — la Nedda non ha più nessuno, e tu sei un bravo giovinotto; ma insieme non ci state proprio bene. Hai inteso? — Ho inteso, zio Giovanni; ma se Dio vuole, dopo la messe, quando avrò da banda quel po’ di quattrini che ci vogliono, insieme ci staremo benissimo —. Nedda, che aveva udito da dietro il muricciolo, si fece rossa, sebbene nessuno la vedesse. L’indomani, prima di giorno, quand’ella si affacciò all’uscio per partire, trovò Janu, col suo fagotto infilato al bastone. — O dove vai? — gli domandò. — Vengo anch’io a Bongiardo, a cercar lavoro —. I passerotti, che si erano svegliati alle voci mattutine, cominciarono a pigolare dietro il nido. Janu infilò al suo bastone anche il fagotto di Nedda, e s’avviarono alacremente, mentre il cielo si tingeva all’orizzonte delle prime fiamme del giorno, e il venticello diveniva frizzante. A Bongiardo c’era proprio del lavoro per chi ne voleva. Il prezzo del vino era salito, e un ricco proprietario faceva dissodare un gran tratto di chiuse da mettere a vigneti. Le chiuse rendevano 1200 lire all’anno in lupini ed olio; messe a vigneto avrebbero dato, fra cinque anni, 12 o 13 mila lire, impiegandovene solo 10 o 12 mila; il taglio degli ulivi avrebbe coperto metà della spesa. Era un’eccellente speculazione, come si vede, e il proprietario pagava, di buon grado, una gran giornata ai contadini che lavoravano al dissodamento, 30 soldi agli uomini, e 20 alle donne, senza minestra; è vero che il lavoro era un po’ faticoso, e che ci si rimettevano anche quei pochi cenci che formavano il vestito dei giorni di lavoro; ma Nedda non era abituata a guadagnar 20 soldi tutti i giorni. Il soprastante s’accorse che Janu, riempiendo i corbelli di sassi, lasciava sempre il più leggiero per Nedda, e minacciò di cacciarlo via. Il povero diavolo, tanto per non perdere il pane, dovette accontentarsi di discendere dai 30 ai 20 soldi. Il male era che quei poderi quasi incolti mancavano di fattoria, e la notte uomini e donne dovevano dormire alla rinfusa nell’unico casolare senza porta, e sì che le notti erano piuttosto fredde. Janu diceva d’aver sempre caldo, e dava a Nedda la sua casacca di fustagno perché si coprisse per bene. La domenica poi tutta la brigata si metteva in cammino per vie diverse. Janu e Nedda avevano preso le scorciatoie, e andavano attraverso il castagneto chiacchierando, ridendo, cantando a riprese, e facendo risuonare nelle tasche i grossi soldoni. Il sole era caldo come in giugno; i prati lontani cominciavano ad ingiallire, le ombre degli alberi avevano qualche cosa di festevole, e l’erba che vi cresceva era ancora verde e rugiadosa. Verso il mezzogiorno sedettero al rezzo, per mangiare il loro pan nero e le loro cipolle bianche. Janu aveva anche del vino, del buon vino di Mascali che regalava a Nedda senza risparmio, e la povera ragazza, la quale non c’era avvezza, si sentiva la lingua grossa, e la testa assai pesante. Di tratto in tratto si guardavano e ridevano senza saper perché. — Se fossimo marito e moglie si potrebbe tutti i giorni mangiare il pane e bere il vino insieme; — disse Janu con la bocca piena, e Nedda chinò gli occhi, perché egli la guardava in un certo modo. Regnava il profondo silenzio del meriggio; le più piccole foglie erano immobili; le ombre erano rade; c’era per l’aria una calma, un tepore, un ronzio di insetti che pesava voluttuosamente sulle palpebre. Ad un tratto una corrente d’aria fresca, che veniva dal mare, fece sussurrare le cime più alte de’ castagni. — L’annata sarà buona pel povero e pel ricco, — disse Janu, — e se Dio vuole alla messe un po’ di quattrini metterò da banda... e se tu mi volessi bene!... — e le porse il fiasco. — No, non voglio più bere. — disse ella colle guance tutte rosse. — O perché ti fai rossa? — diss’egli ridendo. — Non te lo voglio dire. — Perché hai bevuto! — No! — Perché mi vuoi bene? — Ella gli diede un pugno sull’omero e si mise a ridere. Da lontano si udì il raglio di un asino che sentiva l’erba fresca. — Sai perché ragliano gli asini? — domandò Janu. — Dillo tu che lo sai. — Sì che lo so; ragliano perché sono innamorati, — disse egli con un riso grossolano, e la guardò fiso. Ella chinò gli occhi come se ci vedesse delle fiamme, e le sembrò che tutto il vino che aveva bevuto le montasse alla testa, e tutto l’ardore di quel cielo di metallo le penetrasse nelle vene. — Andiamo via! — esclamò corrucciata, scuotendo la testa pesante. — Che hai? — Non lo so, ma andiamo via! — Mi vuoi bene? — Nedda chinò il capo. — Vuoi essere mia moglie? — Ella lo guardò serenamente, e gli strinse forte la mano callosa nelle sue mani brune, ma si alzò sui ginocchi che le tremavano per andarsene. Egli la trattenne per le vesti, tutto stravolto, e balbettando parole sconnesse, come non sapendo quel che si facesse. Allorché si udì nella fattoria vicina il gallo che cantava, Nedda balzò in piedi di soprassalto, e si guardò attorno spaurita. — Andiamo via! Andiamo via! — disse tutta rossa e frettolosa. Quando fu per svoltare l’angolo della sua casuccia si fermò un momento trepidante, quasi temesse di trovare la sua vecchiarella sull’uscio deserto da sei mesi. Venne la Pasqua, la gaia festa dei campi coi suoi falò giganteschi, colle sue allegre processioni fra i prati verdeggianti e sotto gli alberi carichi di fiori, colla chiesuola parata a festa, gli usci delle casipole incoronati di festoni, e le ragazze colle belle vesti nuove d’estate. Nedda fu vista allontanarsi piangendo dal confessionario, e non comparve fra le fanciulle inginocchiate dinanzi al coro che aspettavano la comunione. Da quel giorno nessuna ragazza onesta le rivolse più la parola, e quando andava a messa non trovava posto al solito banco, e bisognava che stesse tutto il tempo ginocchioni: — se la vedevano piangere, pensavano a chissà che peccatacci, e le volgevano le spalle inorridite: — e quelle che le davano da lavorare, ne approfittavano per scemarle il prezzo della giornata. Ella aspettava il suo fidanzato che era andato a mietere alla Piana, raggruzzolare i quattrini che ci volevano a mettere su un po’ di casa, e a pagare il signor curato. Una sera, mentre filava, udì fermarsi all’imboccatura della viottola un carro da buoi, e si vide comparir dinanzi Janu pallido e contraffatto. — Che hai? — gli disse. — Son stato ammalato. Le febbri mi ripresero laggiù, in quella maledetta Piana; ho perso più di una settimana di lavoro, ed ho mangiato quei pochi soldi che avevo fatto —. Ella rientrò in fretta, scucì il pagliericcio, e volle dargli quel piccolo gruzzolo che aveva legato in fondo ad una calza. — No, — diss’egli. — Domani andrò a Mascalucia per la rimondatura degli ulivi, e non avrò bisogno di nulla. Dopo la rimondatura ci sposeremo —. Egli aveva l’aria triste facendole questa promessa, e stava appoggiato allo stipite, col fazzoletto avvolto attorno al capo, e guardandola con certi occhi luccicanti. — Ma tu hai la febbre! — gli disse Nedda. — Sì, ma ora che son qui mi lascerà; ad ogni modo non mi coglie che ogni tre giorni —. Ella lo guardava senza parlare, e sentiva stringersi il cuore, vedendolo così pallido e dimagrato. — E potrai reggerti sui rami alti? — gli domandò. — Dio ci penserà! — rispose Janu. — Addio, non posso far aspettare il carrettiere che mi ha dato un posto sul suo carro dalla Piana sin qui. A rivederci presto! — e non si moveva. Quando finalmente se ne andò, ella lo accompagnò sino alla strada maestra, e lo vide allontanarsi, senza una lagrima, sebbene le sembrasse che stesse a vederlo partire per sempre; il cuore ebbe un’altra strizzatina, come una spugna non spremuta abbastanza — nulla più, ed egli la salutò per nome alla svolta della via. Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio in quel modo. — Il cuore te lo diceva: — mormorava con un triste sorriso. Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli morì. Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta. Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota. — Povera bambina! Che incominci a soffrire almeno il più tardi che sia possibile! — disse. Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d’inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto, e il vento scuoteva l’uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più. Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le s’inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura. — Oh! benedette voi che siete morte! — esclamò. — Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me! —


Cavalleria rusticana



Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll’uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! Però non ne fece nulla, e si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. — Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, — dicevano i vicini, — che passa la notte a cantare come una passera solitaria? Finalmente s’imbattè in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo. — Beato chi vi vede! — le disse. — Oh, compare Turiddu, me l’avevano detto che siete tornato al primo del mese. — A me mi hanno detto delle altre cose ancora! — rispose lui. — Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere? — Se c’è la volontà di Dio! — rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto. — La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola! — Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole. — Sentite, compare Turiddu, — gli disse alfine, — lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?... — È giusto, — rispose Turiddu; — ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch’ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell’andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu —. La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d’oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d’indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell’oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava. — Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia! — borbottava. Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza. — Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? — rispondeva Santa. — La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora! — Io non me li merito i re di corona. — Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna. — La volpe quando all’uva non potè arrivare... — Disse: come sei bella, racinedda mia! — Ohè! quelle mani, compare Turiddu. — Avete paura che vi mangi? — Paura non ho né di voi, né del vostro Dio. — Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi. — Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio. — Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei! Ella, per non farsi rossa, gli tirò un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo. — Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti. — Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa. — Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l’ho anch’io, quando il Signore mi manderà qualcheduno. — Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo! — Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile —. Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell’uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui ogni sera, che tutto il vicinato non parlava d’altro. — Per te impazzisco, — diceva Turiddu, — e perdo il sonno e l’appetito. — Chiacchiere. — Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti! — Chiacchiere. — Per la Madonna che ti mangerei come il pane! — Chiacchiere! — Ah! sull’onor mio! — Ah! mamma mia! — Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilisco, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu. — E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più? — Ma! — sospirò il giovinotto, — beato chi può salutarvi! — Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! — rispose Lola. Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa se ne avvide, e gli battè la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule. — Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell’uva nera! — disse Lola. — Lascia stare! lascia stare! — supplicava Turiddu. — No, ora che s’avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi. — Ah! — mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. — Sull’anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza! — Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste. — Avete ragione di portarle dei regali, — gli disse la vicina Santa, — perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa! — Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull’orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l’avessero accoltellato. — Santo diavolone! — esclamò, — se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado! — Non son usa a piangere! — rispose Santa, — non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie. — Va bene, — rispose compare Alfio, — grazie tante —. Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l’uggia all’osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell’affare e posò la forchetta sul piatto. — Avete comandi da darmi, compare Alfio? — gli disse. — Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi —. Turiddu da prima gli aveva presentato un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse: — Son qui, compar Alfio —. Il carrettiere gli buttò le braccia al collo. — Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell’affare, compare. — Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme —. Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l’orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare. Gli amici avevano lasciato la salsiccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà Nunzia, poveretta, l’aspettava sin tardi ogni sera. — Mamma, — le disse Turiddu, — vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano —. Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno, quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria. — Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? — piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire. — Vado qui vicino, — rispose compar Alfio, — ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più —. Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto, premendosi sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi. — Compare Alfio, — cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, — come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella. — Così va bene, — rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto, — e picchieremo sodo tutt’e due —. Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all’anguinaia. — Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi! — Sì, ve l’ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi. — Apriteli bene, gli occhi! — gli gridò compar Alfio, — che sto per rendervi la buona misura —. Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi all’avversario. — Ah! — urlò Turiddu accecato, — son morto —. Ei cercava di salvarsi, facendo salti disperati all’indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un’altra botta nello stomaco e una terza alla gola. — E tre! questa è per la casa che tu m’hai adornato. Ora tua madre lascerà stare le galline —. Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola e non potè profferire nemmeno: — Ah, mamma mia! — La lupa Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna — e pure non era più giovane — era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai — di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. — Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei. Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio. Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: — O che avete, gnà Pina? — Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: — Che volete, gnà Pina? — Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: — Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te! — Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella — rispose Nanni ridendo. La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l’olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte. — Prendi il sacco delle olive, — disse alla figliuola, — e vieni —. Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava — Ohi! — alla mula perché non si arrestasse. — La vuoi mia figlia Maricchia? — gli domandò la gnà Pina. — Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? — rispose Nanni. — Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio. — Se è così se ne può parlare a Natale — disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: — Se non lo pigli, ti ammazzo! — La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte. — Svegliati! — disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. — Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola —. Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. — No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona! — singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. — Andatevene! andatevene! non ci venite più nell’aia! — Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte — e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: — Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia! — Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa, allorché la vedeva tornare da’ campi pallida e muta ogni volta. — Scellerata! — le diceva. — Mamma scellerata! — Taci! — Ladra! ladra! — Taci! — Andrò dal brigadiere, andrò! — Vacci! E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare. Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. — È la tentazione! — diceva; — è la tentazione dell’inferno! — Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera. — Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai! — No! — rispose invece la Lupa al brigadiere — Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene. Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si potè preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. — Lasciatemi stare! — diceva alla Lupa — Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... — Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza — e poi, come la Lupa tornava a tentarlo: — Sentite! — le disse, — non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo! — Ammazzami, — rispose la Lupa, — ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci —. Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. — Ah! malanno all’anima vostra! — balbettò Nanni. Fantasticheria Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci—Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: — Vorrei starci un mese laggiù! — Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci—Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l’alba ci sorprese in cima al fariglione — un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. — Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. — Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: — Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita —. Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così — per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano — quando ne mangiano — giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo. Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché. Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamentte il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. — Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; — ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà. Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant’è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l’elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il panchettino non c’è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio Posto della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com’è, vi aveva vista passare, bianca e superba. Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove — forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti — e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante — sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro. Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un’altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, — o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri — oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro! Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro. Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole» accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche. La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra — un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria — «nei guai!» come dicono laggiù. Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano; l’altro, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio. Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re», come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell’altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio — una grazia assai magra ad Aci—Trezza. Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio. Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d’arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci—Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va. — Insomma l’ideale dell’ostrica! — direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi —. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. — Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente. Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: — che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. — E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.


Jeli il pastore



Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra. Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso. Il suo amico don Alfonso, mentre era in villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi, e dividevano fra di loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d’orzo del pastorello, o le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell’eccellenza al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene, la loro amicizia fu stabilita solidamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, a montare correndo di salto sul dorso nudo delle giumente ancora indomite, acciuffando per la criniera la prima che passasse a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti, e dai loro salti disperati. Ah! le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! i bei giorni d’aprile, quando il vento accavallava ad onde l’erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! i bei meriggi d’estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! il bel cielo d’inverno attraverso i rami nudi del mandorlo, che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell’azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse — iuh! iuh! iuh! — che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all’alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti, così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore, e l’allagassero! Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie; se ne stava accoccolato sul ciglione, colle gote enfiate, intentissimo a suonare — iuh! iuh! iuh! — Poi radunava il branco a furia di gridi e di sassate, e lo spingeva nella stalla, di là del poggio alla croce. Ansando, saliva la costa, di là dal vallone, e gridava qualche volta al suo amico Alfonso: — Chiamati il cane! ohé, chiamati il cane! — oppure: — Tirami una buona sassata allo zaino, che mi fa il capriccioso, e se ne viene adagio adagio, gingillandosi colle macchie del vallone —; oppure: — Domattina portami un ago grosso, di quelli della gnà Lia —. Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll’ago; e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone; sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavallo, e si lavava anche da sé colla creta del vallone il fazzoletto che si metteva al collo, quando aveva freddo. Insomma, purché ci avesse la sua sacca ad armacollo, non aveva bisogno di nessuno al mondo, fosse stato nei boschi di Resecone, o perduto in fondo alla piana di Caltagirone. La gnà Lia, soleva dire: — Vedete Jeli il pastore? è stato sempre solo pei campi, come se l’avessero figliato le sue cavalle, ed e perciò che sa farsi la croce con le due mani! — Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessuno, ma tutti quelli della fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per lui, poiché era un ragazzo servizievole, e ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui. La gnà Lia gli cuoceva il pane per amor del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panierini di vimini per le ova, arcolai di canna, ed altre coserelle. — Facciamo come fanno le sue bestie, — diceva la gnà Lia, — che si grattano il collo a vicenda —. A Tebidi tutti lo conoscevano da piccolo, che non si vedeva fra le code dei cavalli, quando pascolavano nel piano del lettighiere, ed era cresciuto, si può dire, sotto i loro occhi, sebbene nessuno lo vedesse mai, e ramingasse sempre di qua e di là col suo armento! «Era piovuto dal cielo, e la terra l’aveva raccolto» come dice il proverbio; proprio di quelli che non hanno né casa né parenti. La sua mamma stava a servire a Vizzini, e non lo vedeva altro che una volta all’anno, quando egli andava coi puledri alla fiera di San Giovanni; e il giorno in cui era morta, erano venuti a chiamarlo — un sabato sera — che il lunedì Jeli tornò alla mandra, sicché non ci rimise neppure la giornata; ma il povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava scappare i puledri nel seminato. — Ohé, Jeli! — gli gridava allora massaro Agrippino dall’aja; — o che vuoi assaggiare le nerbate delle feste, figlio di cagna? — Jeli si metteva a correre dietro i puledri sbrancati, e li spingeva mogio mogio verso la collina. Però davanti agli occhi ci aveva sempre la sua mamma, col capo avvolto nel fazzoletto bianco, che non parlava più. Suo padre faceva il vaccaro a Ragoleti di là di Licodia, «dove la malaria si poteva mietere» dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria i pascoli sono grassi, e le vacche non prendono le febbri. Jeli quindi se ne stava nei campi tutto l’anno, o a Donferrante, o nelle chiuse della commenda, o nella valle del Jacitano, e i cacciatori, o i viandanti che prendevano le scorciatoie, lo vedevano sempre qua e là, come un cane senza padrone. Ei non ci pativa, perche era avvezzo a stare coi cavalli che gli camminavano dinanzi, passo passo, brucando il trifoglio, e cogli uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli avea il tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco, e figurar monti e vallate; conosceva come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c’era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Così, verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamente, e stava anch’essa a guardarlo, con i suoi grandi occhi pensierosi. Dove soffriva soltanto un po’ di malinconia era nelle lande deserte di Passanitello, in cui non sorge macchia né arbusto, e ne’ mesi caldi non ci vola un uccello. I cavalli si radunavano in cerchio colla testa ciondoloni, per farsi ombra l’un l’altro, e nei lunghi giorni della trebbiatura quella gran luce silenziosa pioveva sempre uguale ed afosa per sedici ore. Però dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli, delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco, con quattro ramoscelli; sapeva rizzare un po’ di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de’ sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate, o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa — poiché quando si trovava a Passanitello nell’inverno, le strade erano così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima viva. Don Alfonso, che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo amico Jeli la tasca di tela, dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli aghi rossi, la scatoletta di latta coll’esca e la pietra focaja; gli invidiava pure la superba cavalla vajata, quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla. Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie di cui era gelosa e l’andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle. — Lascia stare la vajata, — gli raccomandava Jeli, — non è cattiva, ma non ti conosce —. Dopo che Scordu il bucchierese si menò via la giumenta calabrese che aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell’armento sino alla vendemmia, il puledro zaino, rimasto orfano, non voleva darsi pace, e scorrazzava su pei greppi del monte, con lunghi nitriti lamentevoli, e colle froge al vento. Jeli gli correva dietro, chiamandolo con forti grida, e il puledro si fermava ad ascoltare, col collo teso e le orecchie irrequiete, sferzandosi i fianchi colla coda. — È perché gli hanno portato via la madre, e non sa più cosa si faccia — osservava il pastore. — Adesso bisogna tenerlo d’occhio, perché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio. Anch’io, quando mi è morta la mia mamma, non ci vedevo più dagli occhi —. Poi, dopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglio, e a darvi qualche boccata di malavoglia, — Vedi, a poco a poco comincia a dimenticarsene. — Ma anch’esso sarà venduto. I cavalli sono fatti per essere venduti; come gli agnelli nascono per andare al macello, e le nuvole portano la pioggia. Solo gli uccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno —. Le idee non gli venivano nette e filate l’una dietro l’altra, ché di rado aveva avuto con chi parlare, e perciò non aveva fretta di scovarle e distrigarle in fondo alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. — Anche gli uccelli, — soggiunse, — devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono —. Poi ci pensò su un pezzetto. — Tu sei come gli uccelli; ma quando arriva l’inverno, te ne puoi stare al fuoco, senza far nulla —. Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar di palpebre che indica l’intensità dell’attenzione nelle bestie che più si accostano all’uomo. Gli piacevano i versi che gli accarezzavano l’udito con l’armonia di una canzone incomprensibile, e alle volte aggrottava le ciglia, appuntava il mento, e sembrava che un gran lavorìo si stesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col capo, con un sorriso furbo, e si grattava la testa. Quando poi il signorino mettevasi a scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate intiere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un’occhiata sospettosa. Non poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite di bocca, talché lui finiva per tirarsi indietro, incredulo, e con un sorriso furbo. Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare, lo metteva in sospetto, e pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua vajata. Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile, con quella maschera d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano. Pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza, come fosse la forza della povertà. Tutte le volte che rimaneva a corto di argomenti ripeteva: — Io non ne so nulla. — Io sono povero — con quel sorriso ostinato che voleva essere malizioso. Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di un pezzetto di carta che aveva trovato chi sa dove, perché egli raccattava tutto quello che vedeva per terra, e se l’era messo nel batuffoletto dei cenci. Un giorno, dopo di esser stato un po’ zitto, a guardare di qua e di là soprappensiero, gli disse serio serio: — Io ci ho l’innamorata —. Alfonso, malgrado che sapesse leggere, sgranava gli occhi. — Sì, — ripeté Jeli, — Mara, la figlia di massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a Marineo, in quel gran casamento della pianura che si vede dal piano del lettighiere, lassù. — O ti mariti dunque? — Sì, quando sarò grande e avrò sei onze all’anno di salario. Mara non ne sa nulla ancora. — Perché non gliel’hai detto? — Jeli tentennò il capo, e si mise a riflettere. Poi svolse il batuffoletto e spiegò la carta che s’era fatta scrivere. — È proprio vero che dice Mara; l’ha letto pure don Gesualdo, il campiere, e fra Cola, quando venne giù per la cerca delle fave. — Uno che sappia scrivere, — osservò poi, — è come uno che serbasse le parole nella scatola dell’acciarino, e potesse portarsele in tasca, ed anche mandarle di qua e di là. — Ora che ne farai di quel pezzetto di carta, tu che non sai leggere? — gli domandò Alfonso. Jeli si strinse nelle spalle, ma continuò ad avvolgere accuratamente il suo fogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci. La Mara l’aveva conosciuta da bambina, che avevano cominciato dal picchiarsi ben bene, una volta che s’erano incontrati lungo il vallone, a cogliere le more nelle siepi di rovo. La ragazzina, la quale sapeva di essere «nel fatto suo», aveva agguantato pel collo Jeli, come un ladro. Per un po’ s’erano scambiati dei pugni nella schiena, uno tu ed uno io, come fa il bottaio sui cerchi delle botti, ma quando furono stanchi andarono calmandosi a poco a poco, tenendosi sempre acciuffati. — Tu chi sei? — gli domandò Mara. E come Jeli, più selvatico, non diceva chi fosse: — Io sono Mara, la figlia di massaro Agrippino, che è il campaio di tutti questi campi qui —. Jeli allora lasciò la presa senza dir nulla, e la ragazzina si mise a raccattare le more che le erano cadute per terra, sbirciando di tanto il tanto il suo avversario con curiosità. — Di là del ponticello, nella siepe dell’orto, ci son tante more grosse; — aggiunse la piccina, — e se le mangiano le galline —. Jeli intanto si allontanava quatto quatto, e Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa. Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Mara andava a filare la stoppa sul parapetto del ponticello, e Jeli adagio adagio spingeva l’armento verso le falde del poggio del bandito. Da prima se ne stava in disparte ronzandole attorno, guardandola da lontano in aria sospettosa, e a poco a poco andava accostandosi coll’andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate. Quando finalmente si trovavano accanto, ci stavano delle lunghe ore senza aprir bocca. Jeli osservando attentamente l’intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l’uno di qua e l’altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com’era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse. Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchie, sbucciando dei fichi tutto il santo giorno. Vagabondavano insieme sotti i noci secolari, e Jeli bacchiava tante delle noci, che piovevano fitte come la gragnuola; la ragazzina si affaticava a raccattarne con grida di giubilo più che ne poteva, e poi scappava via, lesta lesta, tenendo tese le due cocche del grembiule, dondolandosi come una vecchietta. Durante l’inverno Mara non osò mettere fuori il naso, in quel gran freddo. Alle volte, verso sera, si vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeli andava facendo nel piano del lettighiere, o sul poggio di Macca, per non rimanere intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovava dietro un sasso, o al riparo di una zolla. Anche i cavalli ci trovavano piacere a ciondolare un po’ la coda attorno al fuoco, e si stringevano fra di loro per star più caldi. Col marzo tornarono le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi, Mara riprese ad andare a spasso, in compagnia di Jeli, nell’erba soffice, tra le macchie in fiore, sotto gli alberi ancora nudi che cominciavano a punteggiarsi di verde. Jeli si ficcava negli spineti come un segugio, per andare a scovare delle nidiate di merli che guardavano sbalorditi coi loro occhietti di pepe; i due fanciulli portavano spesso nel petto della camicia dei piccoli conigli allora stanati, quasi nudi, ma dalle lunghe orecchie diggià inquiete; scorazzavano pei campi al seguito del branco dei cavalli, entrando nelle stoppie dietro i mietitori, passo passo coll’armento, fermandosi ogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata d’erba. La sera, giunti al ponticello, se ne andavano l’una di qua e l’altro di là, senza dirsi addio. Così passarono tutta l’estate. Intanto il sole cominciava a tramontare dietro il poggio alla croce, e i pettirossi gli andavano dietro verso la montagna, come imbruniva, seguendolo fra le macchie dei fichidindia. I grilli e le cicale non si udivano più, e in quell’ora per l’aria si spandeva come una gran malinconia. In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padre, il vaccaro, che aveva preso la malaria a Ragoleti, e non poteva nemmen reggersi sull’asino che lo portava. Jeli accese il fuoco, lesto lesto, e corse «alle case» per cercargli qualche uovo di gallina. — Piuttosto stendi un po’ di strame vicino al fuoco, — gli disse suo padre, — ché mi sento tornare la febbre —. Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menu, seppellito sotto il suo gran tabarro, la bisaccia dell’asino, e la sacca di Jeli, tremava come fanno le foglie in novembre, davanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva il viso bianco bianco come un morto. I contadini della fattoria venivano a domandargli: — Come vi sentite, compare Menu? — Il poveretto non rispondeva altro che con un guaito, come fa un cagnuolo di latte. — È malaria di quella che ammazza meglio di una schioppettata — dicevano gli amici, scaldandosi le mani al fuoco. Fu chiamato anche il medico, ma erano tutti denari sprecati, perché la malattia era di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarla, e se la febbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modo, col solfato si sarebbe guarita subito. Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfato, ma era come buttarlo nel pozzo. — Prendete un buon decotto di ecalibbiso che non costa nulla, — suggeriva mastro Agrippino, — e se non serve a nulla come il solfato, almeno non vi rovinate a spendere —. Si prendeva anche il decotto di eucaliptus, eppure la febbre tornava sempre, anche più forte. Jeli assisteva il genitore come meglio sapeva. Ogni mattina, prima d’andarsene coi puledri, gli lasciava il decotto preparato nella ciotola, il fascio di sarmenti sotto la mano, le uova nella cenere calda, e tornava presto alla sera, colle altre legne per la notte, e il fiaschetto di vino, e qualche pezzetto di carne di montone che era corso a comperare sino a Licodia. Il povero ragazzo faceva ogni cosa con garbo, come una brava massaia, e suo padre, accompagnandolo cogli occhi stanchi nelle sue faccenduole qua e là pel casolare, di tanto in tanto sorrideva, pensando che il ragazzo avrebbe saputo aiutarsi, quando fosse rimasto solo. I giorni in cui la febbre cessava per qualche ora, compare Menu si alzava tutto stravolto e col capo stretto nel fazzoletto, e si metteva sull’uscio ad aspettare Jeli, mentre il sole era ancora caldo. Come Jeli lasciava cadere accanto all’uscio il fascio della legna, e posava sulla tavola il fiasco e le uova, ei gli diceva: — Metti a bollire l’ecalibbiso per stanotte —; oppure; — Guarda che l’oro di tua madre l’ha in consegna la zia Agata, quando non ci sarò più io —. E Jeli diceva di sì col capo. — È inutile — ripeteva massaro Agrippino ogni volta che tornava a vedere compare Menu colla febbre. — Il sangue oramai è tutto una peste —. Compare Menu ascoltava senza batter palpebra, col viso più bianco della sua berretta. Diggià non si alzava più. Jeli si metteva a piangere quando non gli bastavano le forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all’altro; poco per volta compare Menu finì per non parlare nemmen più. Le ultime parole che disse al suo ragazzo furono: — Quando sarò morto, andrai dal padrone delle vacche, a Ragoleti, e ti farai dare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questa parte. — No, — rispose Jeli, — sono soltanto due onze e quindici, perché avete lasciato le vacche che è più di un mese, e bisogna fare il conto giusto col padrone. — È vero! — affermò compare Menu socchiudendo gli occhi. — Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono mangiare i lupi! — pensò Jeli quando gli ebbero portato il babbo al cimitero di Licodia. Mara era venuta a vedere anche lei la casa del morto, colla curiosità inquieta che destano le cose spaventose. — Vedi come son rimasto? — le disse Jeli. La ragazzetta si tirò indietro sbigottita, per paura che non la facesse entrare nella casa dove era stato il morto. Jeli andò a riscuotere il danaro del babbo, e se ne partì coll’armento per Passanitello, dove l’erba era già alta sul terreno lasciato pel maggese, e il mangime era abbondante; perciò i puledri vi restarono a pascolarvi per molto tempo. Frattanto Jeli s’era fatto grande, ed anche Mara doveva esser cresciuta, pensava egli sovente, mentre suonava il suo zufolo; poi quando tornò a Tebidi, dopo tanto tempo, spingendosi innanzi adagio adagio le giumente per i viottoli sdrucciolevoli della fontana dello zio Cosimo, andava cercando cogli occhi il ponticello del vallone, e il casolare nella valle del Jacitano, e il tetto delle case grandi, su cui svolazzavano sempre i colombi. Ma in quel tempo il padrone aveva licenziato massaro Agrippino e tutta la famiglia di Mara stava soleggiando. Jeli trovò la ragazza, la quale s’era fatta grandicella e belloccia, alla porta del cortile, che teneva d’occhio la sua roba, mentre la caricavano sulla carretta. Ora la stanza vuota sembrava più scura e affumicata del solito. La tavola, e il letto, e il cassettone, e le immagini della Vergine e di San Giovanni, e fino i chiodi per appendiervi le zucche delle sementi, ci avevano lasciato il segno sulle pareti dove erano state per tanti anni. — Andiamo via, — gli disse Mara come lo vide osservare. — Ce ne andiamo laggiù a Marineo, dove c’è quel gran casamento, nella pianura —. Jeli si diede ad aiutare massaro Agrippino e la gnà Lia nel caricare la carretta, e allorché non ci fu altro da portare via dalla stanza, andò a sedere con Mara sul parapetto dell’abbeveratojo. — Anche le case, — le disse, quand’ebbe visto accatastare l’ultima cesta sulla carretta, — anche le case, come se ne toglie via la loro roba, non sembrono più quelle. — A Marineo, — rispose Mara, — ci avremo una camera più bella, ha detto la mamma, e grande come il magazzino dei formaggi. — Ora che tu sarai via, non voglio venirci più qui; ché mi parrà di esser tornato l’inverno, a veder quell’uscio chiuso. — A Marineo invece troveremo dell’altra gente, Pudda la rossa, e la figlia del campiere; si starà allegri, per la messe verranno più di ottanta mietitori, colla cornamusa, e si ballerà sull’aja —. Massaro Agrippino e sua moglie si erano avviati colla carretta, Mara correva loro dietro tutta allegra, portando il paniere coi piccioni. Jeli volle accompagnarla sino al ponticello, e quando Mara stava per scomparire nella vallata la chiamò: — Mara! oh, Mara! — Che vuoi? — disse Mara. Egli non lo sapeva che voleva. — O tu, cosa farai qui tutto solo? — gli domandò allora la ragazza. — Io resto coi puledri —. Mara se ne andò saltellando, e lui rimase lì fermo, finché poté udire il rumore della carretta che rimbalzava sui sassi. Il sole toccava le rocce alte del poggio alla croce, le chiome grigie degli ulivi sfumavano nel crepuscolo, e per la campagna vasta, lontan lontano, non si udiva altro che il campanaccio della bianca nel silenzio che si allargava. Mara, come se ne fu andata a Marineo, in mezzo alla gente nuova, e alle faccende della vendemmia, si scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a lei, perché non aveva altro da fare, nelle lunghe giornate che passava a guardare la coda delle sue bestie. Adesso non aveva poi motivo alcuno per calar nella valle, di là del ponticello, e nessuno lo vedeva più alla fattoria. In tal modo ignorò per un pezzo che Mara si era fatta sposa, giacché dell’acqua intanto ne era passata e passata sotto il ponticello. Egli rivide soltanto la ragazza il dì della festa di San Giovanni, come andò alla fiera coi puledri da vendere: una festa che gli si mutò tutta in veleno, e gli fece cascar il pan di bocca, per un accidente toccato ad uno dei puledri del padrone, Dio ne scampi. Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall’alba, andando su e giù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei muli, messi in fila di qua e di là dello stradone. La fiera era già sul finire, né Jeli spuntava ancora colle bestie, di là del gomito che faceva lo stradone. Sulle pendici riarse del calvario e del mulino a vento, rimaneva tuttora qualche branco di pecore, strette in cerchio col muso a terra e l’occhio spento, e qualche pariglia di buoi dal pelo lungo, di quegli che si vendono per pagare il fitto delle terre, che aspettavano immobili, sotto il sole cocente. Laggiù, verso la valle, la campana di San Giovanni suonava la messa grande, accompagnata dal lungo crepitìo dei mortaletti. Allora il campo della fiera sembrava trasalire, e correva un gridìo che si prolungava fra le tende dei trecconi schierate nella salita dei Galli, scendeva per le vie del paese, e sembrava ritornare dalla valle dov’era la chiesa. — Viva San Giovanni! — Santo diavolone! — strillava il fattore, — quell’assassino di Jeli mi farà perdere la fiera! — Le pecore levavano il muso attonito, e si mettevano a belare tutte in una volta, e anche i buoi facevano qualche passo lentamente, guardando in giro, con grandi occhi intenti. Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fitto delle chiuse grandi, «come San Giovanni fosse arrivato sotto l’olmo», diceva il contratto, e a completare la somma si era fatto assegnamento sulla vendita dei puledri. Intanto di puledri, e cavalli, e muli, ce n’erano quanti il Signore ne aveva fatti, tutti strigliati e lucenti, e ornati di fiocchi, e nappine, e sonagli, che scodinzolavano per scacciare la noia, e voltavano la testa verso ognuno che passava, come aspettassero un’anima caritatevole che volesse comprarli. — Si sarà messo a dormire, quell’assassino! — seguita a gridare il fattore; — e mi lascia i puledri sulla pancia! — Invece Jeli aveva camminato tutta la notte, acciocché i puledri arrivassero freschi alla fiera, e prendessero un buon posto nell’arrivare, ed era giunto al piano del corvo che ancora i tre re non erano tramontati, e luccicavano sul monte Arturo, colle braccia in croce. Per la strada passavano continuamente carri, e gente a cavallo, che andavano alla festa; per questo il giovanetto teneva ben aperti gli occhi, acciò i puledri, spaventati dall’insolito via vai, non si sbandassero, ma andassero uniti lungo il ciglione della strada, dietro la bianca che camminava diritta e tranquilla, col campanaccio al collo. Di tanto in tanto, allorché la strada correva sulla sommità delle colline, si udiva sin lassù la campana di San Giovanni, che anche nel bujo e nel silenzio della campagna arrivava la festa, e per tutto lo stradone, lontan lontano, sin dove c’era gente a piedi o a cavallo che andava a Vizzini, si udiva gridare: — Viva San Giovanni! — e i razzi salivano diritti e lucenti dietro i monti della Canziria, come le stelle che piovono in agosto. — È come la notte di Natale! — andava dicendo Jeli al ragazzo che l’aiutava a condurre il branco, — che in ogni fattoria si fa festa e luminaria, e per tutta la campagna si vedono qua e là dei fuochi —. Il ragazzo sonnecchiava, spingendo adagio adagio una gamba dietro l’altra, e non rispondeva nulla; ma Jeli che si sentiva rimescolare tutto il sangue da quella campana, non poteva star zitto, come se ognuno di quei razzi che strisciavano sul bujo taciti e lucenti dietro il monte gli sbocciassero dall’anima. — Mara sarà andata anche lei alla festa di San Giovanni, — diceva, — perché ci va tutti gli anni —. E senza curarsi che Alfio, il ragazzo, non rispondesse nulla: — Tu non sai? ora Mara è alta così, che è più grande di sua madre che l’ha fatta, e quando l’ho rivista non mi pareva vero che fosse proprio quella stessa con cui si andava a cogliere i fichidindia, e a bacchiare le noci —. E si mise a cantare ad alta voce tutte le canzoni che sapeva. — O Alfio, che dormi? — gli gridò quando ebbe finito. — Bada che la bianca ti vien sempre dietro, bada! — No, non dormo! — rispose Alfio con voce rauca. — La vedi la puddara, che sta ad ammiccarci lassù, verso Granvilla, come sparassero dei razzi anche a Santa Domenica? Poco può passare a romper l’alba; pure alla fiera arriveremo in tempo per trovare un buon posto. Ehi, morellino bello! che ci avrai la cavezza nuova, colle nappine rosse, per la fiera! e anche tu, stellato! Così andava parlando all’uno e all’altro dei puledri, perché si rinfrancassero sentendo la sua voce al bujo. Ma gli doleva che lo stellato e il morellino andassero alla fiera per esser venduti. — Quando saran venduti, se ne andranno col padrone nuovo, e non si vedranno più nella mandria, com’è stato di Mara, dopo che se ne fu andata a Marineo. — Suo padre sta benone laggiù a Marineo; ché quando andai a trovarli mi misero dinanzi pane, vino, formaggio, e ogni ben di Dio, perché egli è quasi il fattore, ed ha le chiavi di ogni cosa, e avrei potuto mangiarmi tutta la fattoria, se avessi voluto. Mara non mi conosceva quasi più da tanto che non mi vedeva! e si mise a gridare: «Oh! guarda! è Jeli, il guardiano dei cavalli, quello di Tebidi!». Gli è come quando uno torna da lontano, che al vedere soltanto il cocuzzolo di un monte, gli basta a riconoscere subito il paese dove è cresciuto. La gnà Lia non voleva che le dessi più del tu, alla Mara, ora che sua figlia si è fatta grande, perché la gente che non sa nulla, chiacchiera facilmente. Mara invece rideva, e sembrava che avesse infornato il pane allora allora, tanto era rossa; apparecchiava la tavola, e spiegava la tovaglia che non pareva più quella. «O che ti rammenti più di Tebidi?» le chiesi appena la gnà Lia fu sortita per spillare del vino fresco dalla botte. «Sì, sì, me ne rammento», mi disse ella «a Tebidi c’era la campana, col campanile che pareva un manico di saliera, e si suonava dal ballatoio, e c’erano pure due gatti di sasso, che facevano le fusa sul cancello del giardino». Io me le sentivo qui dentro tutte quelle cose, come ella andava dicendole. Mara mi guardava da capo a piedi con tanto d’occhi, e tornava a dire: «Come ti sei fatto grande!» e si mise pure a ridere, e mi diede uno scapaccione qui, sulla testa —. In tal modo Jeli, il guardiano dei cavalli, perdette il pane, perché giusto in quel punto sopravveniva all’improvviso una carrozza che non si era udita prima, mentre saliva l’erta passo passo, e si era messa al trotto com’era giunta al piano, con gran strepito di frusta e di sonagli, quasi la portasse il diavolo. I puledri, spaventati, si sbandarono in un lampo, che pareva un terremoto, e ce ne vollero delle chiamate, e delle grida e degli ohi! ohi! ohi! di Jeli e del ragazzo prima di raccoglierli attorno alla bianca, la quale anch’essa trotterellava svogliatamente, col campanaccio al collo. Appena Jeli ebbe contato le sue bestie, si accorse che mancava lo stellato, e si cacciò le mani nei capelli, perché in quel posto la strada correva lungo il burrone, e fu nel burrone che lo stellato si fracassò le reni, un puledro che valeva dodici onze come dodici angeli del paradiso! Piangendo e gridando Jeli andava chiamando il puledro — ahu! ahu! ahu! — che non ci si vedeva ancora. Lo stellato rispose finalmente dal fondo del burrone, con un nitrito doloroso, come avesse avuto la parola, povera bestia! — Oh! mamma mia! — andavano gridando Jeli e il ragazzo. — Oh! che disgrazia, mamma mia! — I viandanti che andavano alla festa, e sentivano piangere a quel modo in mezzo al buio, domandavano cosa avessero perso, e poi, come sapevano di che si trattava, andavano per la loro strada. Lo stellato rimaneva immobile dove era caduto, colle zampe in aria, e mentre Jeli l’andava tastando per ogni dove, piangendo e parlandogli quasi avesse potuto farsi intendere, la povera bestia rizzava il collo penosamente, e voltava la testa verso di lui, che si udiva l’anelito rotto dallo spasimo. — Qualche cosa si sarà rotto! — piagnucolava Jeli, disperato di non poter vedere nulla pel buio; e il puledro inerte come un sasso lasciava ricadere il capo di peso. Alfio rimasto sulla strada a custodia del branco, s’era rasserenato per il primo, e aveva tirato fuori il pane dalla sacca. Ora il cielo s’era fatto bianchiccio, e i monti tutto intorno parevano che spuntassero ad uno ad uno, neri ed alti. Dalla svolta dello stradone si cominciava a scorgere il paese, col monte del calvario e del mulino a vento stampato sull’albore, ancora foschi, seminati dalle chiazze bianche delle pecore, e come i buoi che pascolavano sul cocuzzolo del monte, nell’azzurro, andavano di qua e di là, sembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita. La campana, dal fondo del burrone, non si udiva più, i viandanti si erano fatti più rari, e quei pochi che passavano avevano fretta di arrivare alla fiera. Il povero Jeli non sapeva a qual santo votarsi in quella solitudine: lo stesso Alfio, da solo, non poteva giovargli per niente; perciò costui andava sbocconcellando pian piano il suo pezzo di pane. Finalmente si vede venire a cavallo il fattore, il quale da lontano stripitava e bestemmiava accorrendo, al vedere gli animali fermi sulla strada, sicché lo stesso Alfio se la diede a gambe per la collina. Ma Jeli non si mosse d’accanto allo stellato. Il fattore lasciò la mula sulla strada, e scese nel burrone anche lui, cercando di aiutare il puledro ad alzarsi, e tirandolo per la coda. — Lasciatelo stare! — diceva Jeli, bianco in viso come se si fosse fracassate le reni lui. — Lasciatelo stare! Non vedete che non si può muovere, povera bestia? — Lo stellato infatti ad ogni movimento, e ad ogni sforzo che gli facevano fare, metteva un rantolo che pareva un cristiano. Il fattore si sfogava a calci e scapaccioni su di Jeli, e tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso. Allora Alfio più rassicurato era tornato sulla strada, per non lasciare le bestie senza custodia, e badava a scolparsi dicendo: — Io non ci ho colpa. Io andavo innanzi colla bianca. — Qui non c’è più nulla da fare, — disse alfine il fattore, dopo che si persuase che era tutto tempo perso. — Qui non se ne può prendere altro che la pelle, finch’è buona —. Jeli si mise a tremare come una foglia, quando vide il fattore andare a staccare lo schioppo dal basto della mula. — Levati di lì, paneperso! — gli urlò il fattore, — che non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel puledro che valeva assai più di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro! — Lo stellato, non potendosi muovere, volgeva il capo con grandi occhi sbarrati, quasi avesse inteso ogni cosa, e il pelo gli si arricciava ad onde, lungo le costole; sembrava ci corresse sotto un brivido. In tal modo il fattore uccise sul luogo lo stellato, per cavarne almeno la pelle, e il rumore fiacco che fece dentro le carni vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselo dentro di sé. — Ora, se vuoi sapere il mio consiglio, — gli lasciò detto il fattore, — cerca di non farti vedere più dal padrone per quel salario che avanzi, perché te lo pagherebbe salato assai! — Il fattore se ne andò insieme ad Alfio, cogli altri puledri che non si voltavano nemmeno a vedere dove rimanesse lo stellato, e andavano strappando l’erba dal ciglione. E lo stellato rimase solo nel burrone, aspettando che venissero a scuoiarlo, cogli occhi ancora spalancati, e le quattro zampe distese, beato lui, che non penava più infine. Jeli, ora che aveva visto con qual ceffo il fattore aveva preso di mira il puledro e tirato il colpo, mentre la povera bestia volgeva la testa penosamente, quasi avesse il giudizio, smise di piangere, e se ne stette a guardare lo stellato, duro duro, seduto sul sasso, fin quando arrivarono gli uomini che dovevano prendersi la pelle. Adesso poteva andarsene a spasso, a godersi la festa, o starsene in piazza tutto il giorno, a vedere i galantuomini nel casino, come meglio gli piaceva, ché non aveva più né pane, né tetto, e bisognava cercarsi un padrone, se pure qualcuno lo voleva, dopo la disgrazia dello stellato. Le cose del mondo vanno così: mentre Jeli andava cercando un padrone, colla sacca ad armacollo e il bastone in mano, la banda suonava in piazza allegramente, coi pennacchi sul cappello, in mezzo a una folla di berrette bianche fitte come le mosche, e i galantuomini stavano a godersela seduti nel casino. Tutta la gente era vestita da festa, come gli animali della fiera, e in un canto della piazza c’era una donna colla gonnella corta e le calze color di carne che pareva colle gambe nude, e picchiava sulla gran cassa, davanti a un gran lenzuolo dipinto, dove si vedeva una carneficina di cristiani, col sangue che colava a fiumi, e nella folla che stava a guardare a bocca aperta c’era pure massaro Cola, il quale conosceva Jeli da quando stava a Passanitello, e gli disse che il padrone glielo avrebbe trovato lui, poiché compare Isidoro Macca cercava un guardiano per i porci. — Però non dir nulla dello stellato, — gli raccomandò massaro Cola. — Una disgrazia come quella può accadere a tutti, nel mondo, ma è meglio non parlarne —. Andarono perciò a cercare compare Macca, il quale era al ballo, e nel tempo che massaro Cola entrò a fare l’ambasciata, Jeli aspettò sulla strada, in mezzo alla folla che stava a guardare dalla porta della bottega. Nella stanzaccia c’era un mondo di gente, che saltava e si divertiva, tutti rossi e scalmanati, e facevano un gran pestare di scarponi sull’ammattonato, che non si udiva nemmeno il ron—ron del contrabasso, e appena finiva una suonata, che costava un grano, levavano il dito per far segno che ne volevano un’altra; e quello del contrabasso faceva una croce col carbone sulla parete, per memoria, e cominciava da capo. — Questi li spendono senza pensarci, — s’andava dicendo Jeli, — e vuol dire che hanno la tasca piena, e non sono in angustia come me, per difetto di un padrone, se sudano e s’affannano a saltare per loro piacere, quasi fossero presi a giornata! — Massaro Cola tornò dicendo che compare Macca non aveva bisogno di nulla. Allora Jeli volse le spalle e se ne andò mogio mogio. Ma stava di casa verso Sant’Antonio, dove le case s’arrampicano sul monte, di fronte al vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in fondo, nel torrente; ma Jeli non ebbe il coraggio di andare da quelle parti, ora che non l’avevano voluto nemmeno per guardare i porci e girandolando in mezzo alla folla che lo urtava e lo spingeva senza curarsi di lui, gli pareva di essere più solo di quando era coi puledri nelle lande di Passanitello, e si sentiva voglia di piangere. Finalmente massaro Agrippino lo incontrò nella piazza, che andava di qua e di là colle braccia ciondoloni, godendosi la festa, e cominciò a gridargli dietro: — Oh Jeli! oh! — e se lo menò a casa. Mara era in gran gala, con tanto d’orecchini che le sbattevano sulle guance, e stava sull’uscio, colle mani sulla pancia, cariche d’anelli, ad aspettare che imbrunisse per andare a vedere i fuochi. — Oh! — gli disse Mara, — sei venuto anche tu per la festa di San Giovanni! — Jeli veramente non osava entrare, perché era vestito male; però massaro Agrippino lo spinse per le spalle, dicendogli che non si vedevano allora per la prima volta, e che si sapeva che era venuto per la fiera coi puledri del padrone. La gnà Lia gli versò un bel bicchiere di vino, e vollero condurlo con loro a veder la luminaria, insieme alle comari ed ai vicini. Arrivando in piazza, Jeli rimase a bocca aperta dalla meraviglia: tutta quanta era un mare di fuoco, come quando s’incendiano le stoppie, per il gran numero di razzi che i devoti accendevano in cospetto del santo, il quale stava a goderseli dall’imboccatura del Rosario, tutto nero sotto il baldacchino d’argento. I devoti andavano e venivano fra le fiamme come tanti diavoli, e c’era persino una donna discinta, spettinata, cogli occhi fuori della testa, che accendeva i razzi anch’essa, e un prete colla sottana in aria, senza cappello, che pareva un ossesso dalla devozione. — Quello lì è il figliuolo di massaro Neri, il fattore della Salonia, e spende più di dieci lire di razzi! — diceva la gnà Lia, accennando a un giovinotto che andava in giro per la piazza tenendo due razzi alla volta nelle mani, come due candele, sicché tutte le donne se lo mangiavano cogli occhi, e gli gridavano: — Viva San Giovanni. — Suo padre è ricco e possiede più di venti capi di bestiame, — aggiunse massaro Agrippino. Mara sapeva pure che aveva portato lo stendardo grande nella processione, e lo reggeva diritto come un fuso, tanto era forte e bel giovane. Il figlio di massaro Neri pareva che sentisse quei discorsi, e accendesse i razzi per la Mara, facendo la ruota dinanzi a lei; tanto che dopo i fuochi si accompagnò con loro, e li condusse al ballo, e al cosmorama, dove si vedeva il mondo vecchio e il mondo nuovo, pagando lui, beninteso, anche per Jeli, il quale andava dietro la comitiva come un cane senza padrone, a veder ballare il figlio di massaro Neri colla Mara, la quale girava in tondo e si accoccolava come una colombella in amore, e teneva tesa con bel garbo una cocca del grembiale. Il figlio di massaro Neri, lui, saltava come un puledro, tanto che la gnà Lia piangeva dalla consolazione, e massaro Agrippino faceva cenno di sì col capo, che la cosa andava bene. Infine, quando furono stanchi, se ne andarono di qua e di là nel passeggio, trascinati dalla folla quasi fossero in mezzo a una fiumana, a vedere i trasparenti illuminati, dove tagliavano il collo a San Giovanni, che avrebbe fatto pietà agli stessi turchi, e il santo sgambettava come un capriuolo sotto la mannaia. Lì vicino c’era la banda che suonava, sotto un gran paracqua di legno tutto illuminato, e nella piazza una folla tanto stipata che mai s’erano visti tanti cristiani a una fiera. Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorina, e gli parlava nell’occhio, e rideva che pareva si divertisse assai. Jeli non ne poteva più dalla stanchezza, e si mise a dormire seduto sul marciapiede, fin quando lo svegliarono i primi petardi del fuoco d’artifizio. In quel momento Mara era sempre al fianco del figlio di massaro Neri, gli si appoggiava colle due mani intrecciate sulla spalla, e al lume dei fuochi colorati sembrava ora tutta bianca ed ora tutta rossa. Quando scapparono pel cielo gli ultimi razzi in mucchio, il figlio di massaro Neri, si voltò verso di lei, bianca in viso, e le diede un bacio. Jeli non disse nulla, ma in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festa che aveva goduto sin allora, e tornò a pensare a tutte le sue disgrazie, che gli erano uscite di mente — e che era rimasto senza padrone, e che non sapeva più che fare né dove andare, e che non aveva più né pane né tetto, — insomma che era meglio andare a buttarsi nel burrone, come lo stellato, che se lo mangiavano i cani a quell’ora. Intanto attorno a lui la gente era allegra. Mara colle compagne saltava, e cantava per la stradicciuola sassosa, mentre tornavano a casa. — Buona notte! Buona notte! — andavano dicendo le compagne, a misura che si lasciavano per la strada. Mara dava la buona notte, che pareva che cantasse, tanta contentezza ci aveva nella voce, e il figlio di massaro Neri poi sembrava proprio imbestialito e non volesse lasciarla più, mentre massaro Agrippino e la gnà Lia litigavano nell’aprire l’uscio di casa. Nessuno badava a Jeli, soltanto massaro Agrippino si rammentò di lui, e gli chiese: — Ed ora dove andrai? — Non lo so, — disse Jeli. — Domani vieni a trovarmi, e t’aiuterò a cercar d’allogarti. Per stanotte torna in piazza dove siamo stati a sentir suonare la banda; un posto su qualche panchetta lo troverai, e a dormire allo scoperto tu devi esserci avvezzo —. Sì che c’era avvezzo, ma quello che gli dava maggior pena era che Mara non gli dicesse nulla, e lo lasciasse a quel modo sull’uscio come un pezzente; tanto che glielo disse, il giorno dopo, appena poté trovarla in casa un momento sola: — Oh, gnà Mara! come li scordate gli amici! — Oh, sei tu Jeli? — disse Mara. — No, io non ti ho scordato. Ma ero così stanca dopo i fuochi! — Gli volete bene almeno, al figlio di massaro Neri? — chiese lui voltando e rivoltando il bastone fra le mani. — Che discorsi andate facendo! — rispose bruscamente la gnà Mara. — Mia madre è di là che sente tutto —. Massaro Agrippino gli trovò da allogarlo come pecoraio alla Salonia, dov’era fattore massaro Neri, ma siccome Jeli era poco pratico del mestiere si dovette contentare di un salario assai magro. Adesso badava alle sue pecore, e ad imparare come si fa il formaggio, e la ricotta, e il caciocavallo, e ogni altro frutto di mandra; ma fra le chiacchiere che correvano alla sera nel cortile tra gli altri pastori e contadini, mentre le donne sbucciavano le fave della minestra, se si veniva a parlare del figlio di massaro Neri, il quale si prendeva in moglie Mara di massaro Agrippino, Jeli non diceva più nulla, e nemmeno osava di aprir bocca. Una volta che il campaio lo motteggiò, dicendogli che Mara non aveva voluto saperne più di lui, dopo che tutti avevano detto che sarebbero stati marito e moglie, Jeli che badava alla pentola in cui bolliva il latte, rispose facendo sciogliere il caglio adagio adagio: — Ora Mara si è fatta più bella col crescere, che sembra una signora —. Però siccome egli era paziente e laborioso, imparò presto ogni cosa del mestiere meglio di uno che ci fosse nato, e siccome era avvezzo a star colle bestie, amava le sue pecore come se le avesse fatte lui, e quindi il male alla Salonia non faceva tanta strage, e la mandra prosperava ch’era un piacere per massaro Neri, tutte le volte che veniva alla fattoria, tanto che ad anno nuovo si persuase ad indurre il padrone perché aumentasse il salario di Jeli, sicché costui venne ad avere quasi quello che prendeva col fare il guardiano dei cavalli. Ed erano danari bene spesi, ché Jeli non badava a contar le miglia e le miglia per cercare i migliori pascoli ai suoi animali, e se le pecore figliavano o erano malate se le portava a pascolare dentro le bisacce dell’asinello, e si recava in collo gli agnelli che gli belavano sulla faccia, col muso fuori del sacco, e gli poppavano le orecchie. Nella nevigata famosa della notte di Santa Lucia la neve cadde alta quattro palmi nel lago morto alla Salonia, e tutto all’intorno per miglia e miglia che non si vedeva altro per tutta la campagna, come venne il giorno. — Quella volta sarebbe stata la rovina di massaro Neri, come fu per tanti altri del paese, se Jeli non si fosse alzato nella notte tre o quattro volte a cacciare le pecore pel chiuso, così le povere bestie si scuotevano la neve di dosso, e non rimasero seppellite come tante ce ne furono nelle mandre vicine — a quel che disse massaro Agrippino quando venne a dare un’occhiata ad un campicello di fave che ci aveva alla Salonia, e disse pure che di quell’altra storia del figlio di massaro Neri, il quale doveva sposare sua figlia Mara, non era vero niente, ché Mara aveva tutt’altro per il capo. — Se avevano detto che dovevano sposarsi a Natale! — disse Jeli. — Non vero niente, non dovevano sposare nessuno! tutte chiacchiere di gente invidiosa che si immischia negli affari altrui! — rispose massaro Agrippino. Però il campaio, il quale la sapeva più lunga, per averne sentito parlare in piazza, quando andava in paese la domenica, raccontò invece la cosa tale e quale com’era, dopo che massaro Agrippino se ne fu andato: non si sposavano più perché il figlio di massaro Neri aveva risaputo che Mara di massaro Agrippino se la intendeva con don Alfonso, il signorino, il quale aveva conosciuta Mara da piccola; e massaro Neri aveva detto che il suo ragazzo voleva che fosse onorato come suo padre, e delle corna in casa non le voleva altre che quelle dei suoi buoi. Jeli era lì presente anche lui, seduto in circolo cogli altri a colezione, e in quel momento stava affettando il pane. Egli non disse nulla, ma l’appetito gli andò via per quel giorno. Mentre conduceva al pascolo le pecore tornò a pensare a Mara, quando era ragazzina, che stavano insieme tutto il giorno e andavano nella valle del Jacitano e sul poggio alla croce, ed ella stava a guardarlo col mento in aria mentre egli si arrampicava a prendere i nidi sulle cime degli alberi; e pensava anche a don Alfonso, il quale veniva a trovarlo dalla villa vicina, e si sdraiavano bocconi sull’erba a stuzzicare con un fuscellino i nidi di grilli. Tutte quelle cose andava rimuginando per ore ed ore, seduto sull’orlo del fossato, tenendosi i ginocchi fra le braccia, e i noci alti di Tebidi, e le folte macchie dei valloni, e le pendici delle colline verdi di sommacchi, e gli ulivi grigi che si addossavano nella valle come nebbia, e i tetti rossi del casamento, e il campanile «che sembrava un manico di saliera» fra gli aranci del giardino. — Qui la campagna gli si stendeva dinanzi brulla, deserta, chiazzata dall’erba riarsa, sfumando silenziosa nell’afa lontana. In primavera, appena i baccelli delle fave cominciavano a piegare il capo, Mara venne alla Salonia col babbo e la mamma, e il ragazzo e l’asinello, a raccogliere le fave, e tutti insieme vennero a dormire alla fattoria pei due o tre giorni che durò la raccolta. Jeli in tal modo vedeva la ragazza mattina e sera, e spesso sedevano accanto al muricciolo dell’ovile, a discorrere insieme, mentre il ragazzo contava le pecore. — Mi pare d’essere a Tebidi, — diceva Mara, — quando eravamo piccoli, e stavamo sul ponticello della viottola —. Jeli si rammentava di ogni cosa anche lui, sebbene non dicesse nulla, perché era stato sempre un ragazzo giudizioso e di poche parole. Finita la raccolta, alla vigilia della partenza, Mara venne a salutare il giovanotto, nel tempo che ei stava facendo la ricotta, ed era tutto intento a raccogliere il siero colla cazza. — Ora ti dico addio, — gli disse ella, — poiché domani torniamo a Vizzini. — Come sono andate le fave? — Male sono andate! la lupa le ha mangiate tutte, quest’anno. — Dipende dalla pioggia che è stata scarsa, — disse Jeli. — Figurati che si è dovuto uccidere anche le agnelle perché non avevano da mangiare; su tutta la Salonia non venne tre dita di erba. — Ma a te poco te ne importa. Il salario l’hai sempre, buona o mal’annata! — Sì, è vero, — disse lui; — ma mi rincresce dare quelle povere bestie in mano al beccaio. — Ti ricordi quando sei venuto per la festa di San Giovanni, ed eri rimasto senza padrone? — Sì, me lo ricordo. — Fu mio padre che ti allogò qui, da massaro Neri. — E tu perché non l’hai sposato il figlio di massaro Neri? — Perché non c’era la volontà di Dio. — Mio padre è stato sfortunato, — riprese di lì a poco. — Dacché ce ne siamo andati a Marineo ogni cosa ci è riuscita male. La fava, il seminato, quel pezzetto di vigna che ci abbiamo lassù. Poi, mio fratello è partito soldato, e ci è morta pure una mula che valeva quarant’onze. — Lo so, — rispose Jeli, — la mula baia! — Ora che abbiamo perso la roba, chi vuoi che mi sposi? — Mara andava sminuzzando uno sterpolino di pruno, mentre parlava, col mento sul seno, e gli occhi bassi, e col gomito stuzzicava un po’ il gomito di Jeli, senza badarci. Ma jeli, cogli occhi sulla zangola anche lui, non rispondeva nulla; sicché ella riprese: — A Tebidi dicevano che saremmo stati marito e moglie, lo rammenti? — Sì, — disse Jeli, e posò la cazza sull’orlo della zangola. — Ma io sono un povero pecoraio, e non posso pretendere alla figlia di un massaro come sei tu —. La Mara rimase un pochino zitta e poi disse: — Se tu mi vuoi, io per me ti piglio volentieri. — Davvero? — Sì, davvero. — E massaro Agrippino cosa dirà? — Mio padre dice che ora il mestiere lo sai, e tu non sei di quelli che vanno a spendere il loro salario, ma di un soldo ne fai due, e non mangi per non consumare il pane, così arriverai ad aver delle pecore anche tu, e ti farai ricco. — Se è cosi, — conchiuse Jeli, — ti piglio volentieri anch’io. — To’! — gli disse Mara, come si era fatto buio, e le pecore andavano tacendosi a poco a poco, — se vuoi un bacio adesso te lo do, poiché saremo marito e moglie —. Jeli se lo prese in santa pace, e non sapendo che dire aggiunse: — Io t’ho sempre voluto bene, anche quando volevi lasciarmi pel figlio di massaro Neri... — Ma non ebbe cuore di dirgli di quell’altro. — Non lo vedi? eravamo destinati! — conchiuse Mara. Massaro Agrippino infatti disse di sì, e la gnà Lia mise insieme presto un giubbone nuovo, e un paio di brache di velluto per il genero. Mara era bella e fresca come una rosa, con quella mantellina bianca che sembrava l’agnello pasquale, e quella collana d’ambra che le faceva il collo bianco; sicché Jeli, quando andava per le strade al fianco di lei, camminava impalato, tutto vestito di panno e di velluto nuovo, e non osava soffiarsi il naso col fazzoletto di seta rosso, per non farsi scorgere; ma i vicini e tutti quelli che sapevano la storia di don Alfonso gli ridevano sul naso. Quando Mara disse sissignore, e il prete gliela diede in moglie con un gran crocione, Jeli se la condusse a casa, e gli parve che gli avessero dato tutto l’oro della Madonna, e tutte le terre che aveva visto cogli occhi. — Ora che siamo marito e moglie, — le disse giunti a casa, seduto di faccia a lei, e facendosi piccino piccino, — ora che siamo marito e moglie, posso dirtelo che non mi par vero che tu m’abbia voluto... mentre avresti potuto prenderne tanti meglio di me... così bella come tu sei!... — Il poveraccio non sapeva dirle altro, e non capiva nei panni nuovi dalla contentezza di vedersi Mara per casa, che rassettava e toccava ogni cosa, e faceva la padrona. Egli non trovava il verso di spiccicarsi dall’uscio per tornarsene alla Salonia; quando fu venuto il lunedì, indugiava nell’assettare sul basto dell’asinello le bisacce, e il tabarro, e il paracqua d’incerata. — Tu dovresti venirtene alla Salonia anche te! — disse alla moglie che stava a guardarlo dalla soglia. — Tu dovresti venirtene con me —. Ma la donna si mise a ridere, e gli rispose che ella non era nata a far la pecoraia, e non aveva nulla da andare a farci alla Salonia. Infatti Mara non era nata a far la pecoraia, e non ci era avvezza alla tramontana di gennaio, quando le mani si irrigidiscono sul bastone, e sembra che vi caschino le unghie, e ai furiosi acquazzoni, in cui l’acqua vi penetra fino alle ossa, e alla polvere soffocante delle strade, quando le pecore camminano sotto il sole cocente, e al giaciglio duro e al pane muffito, e alle lunghe giornate silenziose e solitarie, in cui per la campagna arsa non si vede altro di lontano, rare volte, che qualche contadino nero dal sole, il quale si spinge innanzi silenzioso l’asinello, per la strada bianca e interminabile. Almeno Jeli sapeva che Mara stava al caldo sotto le coltri, o filava davanti al fuoco, in crocchio colle vicine, o si godeva il sole sul ballatoio, mentre egli tornava dal pascolo stanco ed assetato, o fradicio di pioggia, o quando il vento spingeva la neve dentro il casolare, e spegneva il fuoco di sommacchi. Ogni mese Mara andava a riscuotere il salario dal padrone, e non le mancavano né le uova nel pollaio, né l’olio nella lucerna, né il vino nel fiasco. Due volte al mese poi Jeli andava a trovarla, ed ella lo aspettava sul ballatoio, col fuso in mano; poi quando gli aveva legato l’asino nella stalla e toltogli il basto e messogli la biada nella greppia, e riposta la legna sotto la tettoia nel cortile, o quel che portava in cucina, Mara l’aiutava ad appendere il tabarro al chiodo, e a togliersi le gambiere fradice, davanti al focolare, e gli versava il vino, mentre la minestra bolliva allegramente, ed ella apparecchiava il desco, cheta cheta e previdente come una brava massaia, nel tempo stesso che gli parlava di questo e di quello, della chioccia che aveva messo a covare, della tela che era sul telaio, del vitello che allevavano, senza dimenticare una sola delle faccenduole di casa, ché Jeli si sentiva di starci come un Papa. Ma la notte di Santa Barbara tornò a casa ad ora insolita, che tutti i lumi erano spenti nella stradicciuola, e l’orologio della città suonava la mezzanotte. Una notte da lupi, che proprio il lupo gli era entrato in casa, mentre lui andava all’acqua e al vento per amor del salario, e della giumenta del padrone ch’era ammalata, e ci voleva il maniscalco subito subito. Bussò e tempestò all’uscio, chiamando Mara ad alta voce, mentre l’acqua gli pioveva addosso dalla grondaia, e gli usciva dalle calcagna. Sua moglie venne ad aprirgli finalmente, e cominciò a strapazzarlo quasi fosse stata lei a scorrazzare pei campi con quel tempaccio, con una faccia che lui chiese: — Che c’è? Cos’hai? — Ho che m’hai fatto paura a quest’ora! che ti par ora da cristiani questa? Domani sarò ammalata! — Va a coricarti, il fuoco l’accendo io. — No, bisogna che vada a prender la legna. — Andrò io. — No, ti dico! — Quando Mara ritornò colla legna nelle braccia Jeli le disse: — Perché hai aperto l’uscio del cortile? Non ce n’era più di legna in cucina? — No, sono andata a prenderla sotto la tettoja —. Ella si lasciò baciare, fredda fredda, e volse il capo dall’altra parte. — Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro l’uscio, — dicevano i vicini, — quando in casa c’è il tordo! — Ma Jeli non sapeva nulla, ch’era becco, né gli altri si curavano di dirglielo, perché a lui non gliene importava niente, e s’era accollata la donna col danno, dopo che il figlio di massaro Neri l’aveva piantata per aver saputo la storia di don Alfonso. Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperio, e s’ingrassava come un maiale, «ché le corna sono magre, ma mantengono la casa grassa!». Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in faccia, una volta che vennero alle brutte, per certe pezze di formaggio tosate. — Ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato, e avete messo superbia che vi par di esser un re di corona, con quelle corna che avete in testa —. Il fattore e il campaio si aspettavano di veder scorrere il sangue allora; ma invece Jeli stette zitto quasi non fosse fatto suo, con una faccia di grullo che le corna gli stavano bene davvero. Ora si avvicinava la Pasqua e il fattore mandava tutti gli uomini della fattoria a confessarsi, colla speranza che pel timor di Dio non rubassero più. Jeli andò anche lui, e all’uscir di chiesa cercò del ragazzo con cui erano corse le male parole e gli buttò le braccia al collo dicendogli: — Il confessore mi ha detto di perdonarti; ma io non sono in collera con te per quelle chiacchiere; e se tu non toserai più il formaggio a me non me ne importa nulla di quello che mi hai detto nella collera —. Fu da quel momento che lo chiamarono per soprannome Corna d’oro, e il soprannome gli rimase, a lui e tutti i suoi, anche dopo che ci si lavò le corna, nel sangue. La Mara era andata a confessarsi anche lei, e tornava di chiesa tutta raccolta nella mantellina, cogli occhi bassi che sembrava una Santa Maria Maddalena. Jeli che l’aspettava taciturno sul ballatoio, come la vide venire a quel modo, che si vedeva come ci avesse il Signore in corpo, la stava a guardare pallido pallido dai piedi alla testa, quasi la vedesse per la prima volta, o gliela avessero cambiata, la sua Mara, e neppure osava alzare gli occhi su di lei, mentre ella sciorinava la tovaglia, e metteva in tavola le scodelle, tranquilla e pulita al suo solito. Egli, dopo averci pensato su un poco, le domandò freddo freddo: — È vero che te la intendi con don Alfonso? — Mara gli piantò in faccia i suoi begli occhi limpidi, e si fece il segno della croce. — Perché volete farmi far peccato in questo giorno! — esclamò. — No! non voglio crederci ancora!... perché con don Alfonso eravamo sempre insieme, quando eravamo ragazzi, e non passava giorno ch’ei non venisse a Tebidi, proprio come due fratelli... Poi egli è ricco che i denari li ha a palate, e se volesse delle donne potrebbe maritarsi, né gli mancherebbe la roba, o il pane da mangiare —. Mara invece andavasi riscaldando, e cominciò a strapazzarlo in malo modo, tanto che lui non alzava più il naso dal piatto. Infine perché quella grazia di Dio che stavano mangiando non andasse in tossico, Mara cambiò discorso, e gli domandò se ci avesse pensato a far zappare quel po’ di lino che avevano seminato nel campo delle fave. — Sì, — rispose Jeli, — e il lino verrà bene. — Se è così, — disse Mara, — in questo inverno ti farò due camicie nuove che ti terranno caldo —. Insomma Jeli non lo capiva quello che vuol dire becco, e non sapeva cosa fosse la gelosia; ogni cosa nuova stentava ad entrargli in capo, e questa poi gli riusciva così grossa che addirittura faceva una fatica del diavolo ad entrarci, massime allorché si vedeva dinanzi la sua Mara, tanto bella, e bianca, e pulita, che l’aveva voluto lei stessa, e le voleva tanto bene, e aveva pensato a lei tanto tempo, tanti anni, fin da quando era ragazzo, che il giorno in cui gli avevano detto com’ella volesse sposarne un altro, non aveva avuto più cuore di mangiare o di bere tutta la giornata. — Ed anche se pensava a don Alfonso, non poteva credere a una birbonata simile, lui che gli pareva di vederlo ancora, cogli occhi buoni e la boccuccia ridente con cui veniva a portargli i dolci e il pane bianco a Tebidi, tanto tempo fa — un’azionaccia così nera! e dacché non lo aveva più visto, perché egli era un povero pecoraio, e stava tutto l’anno in campagna, gli era sempre rimasto in cuore a quel modo. Ma la prima volta che per sua disgrazia rivide don Alfonso già uomo fatto, Jeli sentì come una botta allo stomaco. Come s’era fatto grande e bello! con quella catena d’oro sul panciotto, e la giacca di velluto, e la barba liscia che pareva d’oro anch’essa. Niente superbo poi, tanto che gli batté sulla spalla salutandolo per nome. Era venuto col padrone della fattoria insieme a una brigata d’amici, a fare una scampagnata nel tempo che si tosavano le pecore; ed era venuta pure Mara all’improvviso, col pretesto che era incinta e aveva voglia di ricotta fresca. Era una bella giornata calda, nei campi biondi, colle siepi in fiore, e i lunghi filari verdi delle vigne. Le pecore saltellavano e belavano dal piacere, al sentirsi spogliate da tutta quella lana, e nella cucina le donne facevano un bel fuoco per cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare. I signori intanto che aspettavano si erano messi all’ombra, sotto i carrubi, e facevano suonare i tamburelli e le cornamuse, o ballavano colle donne della fattoria, chi ne aveva voglia. Jeli mentre andava tosando le pecore, si sentiva rodere dentro di sé, senza sapere perché, come uno spino, un chiodo fitto, una forbice fine che gli lavorasse dentro minuta minuta, peggio di un veleno. Il padrone aveva ordinato che si sgozzassero due capretti, e il castrato di un anno, e dei polli, e un tacchino. Insomma voleva fare le cose in grande, senza risparmio, per farsi onore coi suoi amici, e mentre tutte quelle bestie schiamazzavano dal dolore, e i capretti strillavano sotto il coltello, Jeli si sentiva tremare le ginocchia e di tratto in tratto gli pareva che la lana che andava tosando e l’erba in cui le pecore saltellavano avvampassero di sangue. — Non andare! — disse egli a Mara, come don Alfonso la chiamava perché venisse a ballare cogli altri. — Non andare, Mara! — Perché? — Non voglio che tu vada! Non andare! — Lo senti che mi chiamano? — Egli non disse altro, fattosi brutto come la malanuova, mentre stava curvo sulle pecore che tosava. Mara si strinse nelle spalle, e se ne andò a ballare. Ella era rossa ed allegra, cogli occhi neri che sembravano due stelle, e rideva che le si vedevano i denti bianchi, e tutto l’oro che aveva indosso le sbatteva e le scintillava sulle guance e sul petto che pareva la Madonna tale e quale. Jeli un tratto si rizzò sulla vita, colla lunga forbice in pugno, così bianco in viso, così bianco come era una volta suo padre il vaccajo, quando tremava dalla febbre accanto al fuoco, nel casolare. Guardò don Alfonso, colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d’oro sul panciotto, che prendeva Mara per la mano e l’invitava a ballare; lo vide che allungava il braccio, quasi per stringersela al petto, e lei che lo lasciava fare — allora, Signore perdonategli, non ci vide più, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto. Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la minima resistenza: — Come, — diceva — non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la Mara!... —


Rosso Malpelo



Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava. Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato, e dacché non serviva più, s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: — Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre —. Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato. Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: — Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! — e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: — Tirati in là! — oppure: — Sta attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! — Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense. L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia! Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero. — To’! — disse infine uno. — È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? — Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... — Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: — Così creperai più presto! — Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: — Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! — E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: — È stato lui! per trentacinque tarì! — E un’altra volta, dietro allo Sciancato: — E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera! — Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: — To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! — O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: — Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! — Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: — L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi —. Oppure: — Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso —. Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. — La rena è traditora, — diceva a Ranocchio sottovoce; — somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui —. Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: — Taci, pulcino! — e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: — Lasciami fare; io sono più forte di te —. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: — Io ci sono avvezzo —. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: — A che giova? Sono malpelo! — e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull’uscio in quell’arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, — o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; — o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l’aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt’ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. — Proprio come suo figlio Malpelo! — ripeteva lo sciancato — ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là —. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto. Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. — Così si fa, — brontolava Malpelo; — gli arnesi che non servono più, si buttano lontano —. Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. — Vedi quella cagna nera, — gli diceva, — che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più —. L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. — Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio —. La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato da giovane, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni. — Egli solo ode le sue stesse grida! — diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva. — Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà —. Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente — perché allora la sciara sembra più bella e desolata. — Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, — pensava Malpelo, — dovrebbe essere buio sempre e da per tutto —. La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: — Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli —. Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate. — Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, — gli diceva, — e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti —. Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. — Chi te l’ha detto? — domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma. Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. — Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella —. E dopo averci pensato un po’: — Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io —. Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: — Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! — Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: — È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! — E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo. Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla. Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista. Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi. — Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? — domandò Malpelo. — Perché non sono malpelo come te! — rispose lo Sciancato. — Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! — Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo. Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.


L'amante di Gramigna(A Salvatore Farina)



Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi? Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine. Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietarii non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno. Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni. La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse: — La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —. Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta. Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! — Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso. Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui. Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi. Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia. Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia. — Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di tre compagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —. Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra. Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata. Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo. — Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui? Ella non rispose, guardandolo fisso. — Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo! — Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati. — Cosa m’importa? Vattene! — E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso: — Dunque? ... Sei pazza? ... O sei qualche spia? — No, — diss’ella, — no! — Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così —. Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé: — Queste erano per me —. Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine: — Vuoi venire con me? — Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —. E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva. Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse: — Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! — Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte. — Ferma! ferma! — E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina. — È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo. Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta. Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita! La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa. Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo. Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna. Guerra di santi Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella. Tutto ciò per l’invidia di que» del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d’oro, che pesava più d’un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una «spuma d’oro» addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: — Viva San Pasquale! — Allora s’erano messe le legnate. Certo andare a dire «viva San Pasquale» sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c’è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po’ di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt’una cosa. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle. — Santo diavolone! — urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio. — Voglio un po’ vedere chi gli basta l’anima di gridare ancora «viva San Pasquale!». — Io! — rispose furibondo Turi il «conciapelli» il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato. — Viva San Pasquale, sino alla morte! — Per l’amor di Dio! per l’amor di Dio! — strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d’amore e d’accordo sino a quel momento. Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno: — Viva i miei stivali! viva san stivale! — Te’! — urlò Turi colla spuma alla bocca, e l’occhio gonfio e livido al pari d’un petronciano. — Te’, per San Rocco, tu dei stivali! Prendi! — Così si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli, a furia di busse e di pedate. Saridda, scaldatasi anche lei, strillava — viva San Pasquale —, che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero già stati marito e moglie. — In tali occasioni si accapigliano i genitori coi figliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato uno di San Rocco. — Non voglio sentirne parlare più di quel cristiano! — sbraitava Saridda, coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all’aria il matrimonio. — Neanche se me lo danno vestito d’oro e d’argento, sentite! — Per conto mio Saridda può far la muffa! — diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all’osteria il viso tutto sporco di sangue. — Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m’è saltato in testa d’andare a cercarmi colà l’innamorata dovevo essere ubriaco. — Giacch’è così! — aveva conchiuso il sindaco — e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarant’ore! e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione. La faccenda poi s’era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai canonici di San Pasquale, e quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati fino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, su carta bollata e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, s’erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa, che la giustizia si compra e vende come l’anima di Giuda. A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d’argento di mezza libra l’una alle scarpe, chi l’aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perciò avevano scritturato anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di «Viva San Pasquale» a lettere di scatola. Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, più eccitati, mondavano certi randelli di pero e di ciliegio grossi come stanghe, e borbottavano: — Se ci dev’essere la musica, si ha da portar la battuta! — Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte, dalla sua entrata trionfale. Ma il reverendo, furbo, lasciò la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti. Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l’autorità del reverendo, il quale s’era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far venire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti. — Così va bene! — approvava il sindaco col naso nel bicchiere, — quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre —. Il delegato disse infatti ch’egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d’ulivo in bocca, come la colomba di Noè, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, dicendo a tutti: — Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dì della festa. — Lasciamo stare la festa, — disse il vicepretore, — se no, nasceranno degli altri guai. — I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non è più padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari! — esclamò Bruno il carradore. — Io me ne lavo le mani. Gli ordini del governo sono precisi. Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri. Io voglio l’ordine. — Dell’ordine rispondo io — sentenziò il sindaco, picchiando in terra coll’ombrella, e girando lo sguardo intorno. — Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in Consiglio è vostro cognato Bruno! — ripicchiò il vicepretore. — E voi fate l’opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giù! — Signori miei! signori miei! — andava raccomandando il delegato. — Così non facciamo nulla. — Faremo la rivoluzione, faremo! — urlava Bruno colle mani in aria. Per fortuna, il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere e i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l’arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei tromboni. — Così non si fa nulla! — borbottava il delegato; e gli seccava pure che le messi fossero già mature, di là delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vicepretore, che volevano mangiarsi l’anima. — Cos’è questa storia della contravvenzione pel bucato? — Le solite prepotenze. Ora non si può sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa. La moglie del vicepretore, fidandosi che suo marito era in carica, — sinora un po’ di riguardo c’era sempre stato per le autorità, — soleva mettere ad asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa ... quel po’ di grazia di Dio! ... Ma adesso, colla nuova legge, è peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia delle strade. Alle prime pioggie, se Dio vuole, l’avremo sino al mostaccio, il sudiciume. Il delegato del vescovo, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta, dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate da lui, che ci aveva l’assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, quasi fosse stata la persona stessa di monsignore. — Padre! — gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario. — Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa. — In che modo, figliuola mia? — Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese; ma ora che il matrimonio è rotto, si pianta vicino all’altar maggiore, per guardarmi, e ridere coi suoi amici, tutto il tempo della messa —. E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino: — È lei piuttosto che mi volta le spalle, quando mi vede, quasi fossi uno scomunicato! — rispondeva il contadino. Egli invece, se la gnà Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt’uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei. Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul naso, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare. Una volta che si trovarono insieme in un battesimo, non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina. — Compare da strapazzo! — sogghignava Nino. — Compare di bambina! Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto —. E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera: — Tutto il male non viene per nuocere. Alle volte, quando vi pare d’aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale! ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale. — Già, le disgrazie bisogna pigliarle come vengono; il peggio è guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena. Morto un papa, se ne fa un altro —. In piazza suonava il tamburo, quello della meta. — Il sindaco dice che vi sarà la festa, — sussurravano nella folla. — Litigherò sino alla consumazione dei secoli! Mi ridurrò povero e in camicia come il Santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagherò, dovessi lasciarlo nel testamento! — Sangue d’un cane! che festa vogliono fare se quest’anno morremo tutti di fame? — esclamava Nino. Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d’acqua, e i seminati, gialli, che scoppiettavano come l’esca «morivano di sete». Bruno il carradore diceva invece che appena San Pasquale esciva in processione pioveva di certo. Ma che gliene importava della pioggia a lui, se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito?... Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l’affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli — una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi «bruciati», e le spighe chinano il capo proprio come se morissero. — San Pasquale maledetto! — gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. — M’avete rovinato, San Pasquale ladro! Non mi avete lasciato altro che la falce per tagliarmi il collo! — Nel quartiere alto era una desolazione: una di quelle annate lunghe, in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll’occhio fisso. La gnà Saridda, all’udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino, onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentì sbollire la collera in un attimo, e mandò in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo. Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula, tutta in fronzoli e colla cavezza nuova. — Non voglio nulla — ei rispose torvo. — Le braccia mi restano ancora, grazie a Dio! Bel santo, quel San Pasquale, eh! — Turi gli voltò le spalle per non finirla brutta, e se ne andò. Ma la verità era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l’avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato. Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato. Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda, com’era venuto. Il vicepretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l’ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udì la notizia che nella notte erano arrivati i Compagni d’Arme, e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico. — Son venuti pel colera, — dicevano però degli altri. — Laggiù nella città la gente muore come le mosche —. Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, il dottore scappò il primo di tutti, perché non l’accoppassero. — Non sarà nulla, — dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e là per la campagna. — San Rocco benedetto lo guarderà il suo paese! e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle! — E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco. Però di lì a poco i colerosi cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale — e di questo dicevasi ch’era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia — e di quell’altro che era tornato da campagna a notte fatta. Insomma il colera era venuto bello e buono, malgrado la guardia, e alla barba di San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco in persona le diceva: — Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale —. Nino e Turi non si erano più visti dopo l’affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovò Saridda nera e contraffatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva più che fare. — Ah! San Rocco ladro! — si mise a gemere Nino. — Questa non me l’aspettava! O gnà Saridda, che non mi conoscete più? Nino, quello di una volta? — La gnà Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi. — Ah, San Rocco! — diceva lui, — questo tiro è più birbone di quello che ci ha fatto San Pasquale! Però la Saridda guarì, e mentre stava sull’uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, gialla come la cera vergine, gli andava dicendo: — San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi a portargli la candela per la sua festa —. Nino, col cuore gonfio, diceva di sì col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire. Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l’avrebbe più vista in faccia, finché era viva. — No! no! — rispondeva Nino, col viso disfatto. — I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrà più sarò io, che sarò morto. — Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco ! — gli diceva Turi, per consolarlo. E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo, si gettavano in viso l’un l’altro San Rocco e San Pasquale. Una volta passò Bruno il carradore, che tornava di fuori a colera finito, e disse: — Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati tutti quanti siamo. D’ora innanzi non ci saranno più arruffapopoli, né oppositori, ora che è morto quel vicepretore che ha lasciato la lite nel testamento. — Sì, faremo la festa per quelli che son morti! — sogghignò Nino. — E tu che sei vivo per San Rocco forse? — La volete finire, — saltò su Saridda, — che poi ci vorrà un altro colera, per far la pace! —


Pentolaccia



Adesso viene la volta di «Pentolaccia» ch’è un bell’originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua. Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barba di compare don Liborio, meglio di un re di corona. Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene. Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia, per buscarsi il pane. Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse: — Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada —. I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio. Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercano il marito fuori della mantellina: perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa, dopo trent’anni che c’era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece, che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio. Quando infine la povera vecchia finì di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non potè riceverne la benedizione, né cavare l’ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell’angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. — Eh?... Eh?... — Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine. La povera vecchia morì col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo. Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie — Tu che ci credi? — gli diceva lei. E basta. Lui allora contento come una pasqua. Era fatto così, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel’avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero, grazia di Santa Lucia benedetta. A che giovava guastarsi il sangue? C’era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d’altro, santo Iddio? Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria, ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio. «Pentolaccia» gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l’uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l’olio nell’orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta, don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio «signor compare» e lavorava con coscienza. Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a «Pentolaccia». Badava a far prosperare la società col «signor compare» il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti. Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt’a un tratto, in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all’ombra, nell’ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che «Pentolaccia» s’era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l’aveva visto. — Per questo si suol dire «quando mangi, chiudi l’uscio, e quando parli, guardati d’attorno». Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare «Pentolaccia» il quale dormiva, e gli soffiasse nell’orecchio gl’improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell’anima come un chiodo. — E quel becco di «Pentolaccia»! — dicevano, — che si rosica mezzo don Liborio! — e ci mangia e ci beve nel brago! — e c’ingrassa come un maiale! — Che avvenne? Che gli passò pel capo a «Pentolaccia»? Si rizzò a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l’avesse morso la tarantola, senza vederci più degli occhi, che fin l’erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. — Sentite, «signor compare», — gli disse — se vi vedo un’altra volta in casa mia, com’è vero Dio, vi faccio la festa! — Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a «Pentolaccia» saltasse in mente da un momento all’altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d’uomo e di marito che fosse al mondo. — Che avete oggi, compare? — gli disse. — Ho, che se vi vedo un’altra volta in casa mia, com’è vero Dio, vi faccio la festa! — Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripetè alla moglie: — Se vedo qui un’altra volta il «signor compare» com’è vero Dio, gli faccio la festa! — Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quella novità. La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell’uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva. «Pentolaccia» non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d’imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle muoversi di lì, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia. Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d’andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. «Pentolaccia» lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venìa adagio adagio, un po’ stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, «Pentolaccia» andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l’uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l’ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale. Così fu che «Pentolaccia» andò a finire in galera.


Il come, il guando ed il perché



Il signor Polidori e la signora Rinaldi si amavano — o credevano di amarsi — ciò che è precisamente la stessa cosa, alle volte; e in verità, se mai l’amore è di questa terra, essi erano fatti l’uno per l’altro: Polidori si godeva quarantamila lire di entrata, e una pessima riputazione di cattivo soggetto, la signora Rinaldi era una donnina vaporosa e leggiadra, e aveva un marito che lavorava per dieci, onde farla vivere come se possedesse quarantamila lire di rendita. Però sul conto di lei non era corsa la più innocente maldicenza, sebbene tutti gli amici di Polidori fossero passati in rivista, col fiore all’occhiello, dinanzi alla fiera beltà. Finalmente la fiera beltà era caduta — il caso, la fatalità, la volontà di Dio, o quella del diavolo, l’avevano tirata pel lembo della veste. Quando si dice cadere intendesi che aveva lasciato cadere sul Polidori quel primo sguardo languido, molle, smarrito, che fa tremare le ginocchia al serpente messo in agguato sotto l’albero della seduzione. Le cadute a rotta di collo son rare, e alle volte fanno scappare il serpente. La signora Rinaldi, prima di scendere da un ramo all’altro, voleva vedere dove metteva i piedi, e faceva mille graziose moine col pretesto di voler fuggire verso le cime alte. Da circa un mese ella si era appollaiata sul ramoscello della corrispondenza epistolare, ramoscello flessibile e pericoloso, agitato da tutte le aurette profumate. — Avevano cominciato col pretesto di un libro da chiedere o da restituire, di una data da precisare, o che so io — la bella avrebbe voluto fermarvisi un pezzo, su quel ramo, a cinguettare graziosamente, perché le donne cinguettano sempre a meraviglia, così cullandosi fra il cielo e la terra; Polidori, il quale aveva vuotato il sacco, divenne presto arido, laconico, categorico che era una disperazione. La poveretta chiuse gli occhi e le ali, e si lasciò scivolare un altro po’. — Non ho letto la vostra lettera; né voglio leggerla! — gli disse incontrandolo all’ultimo ballo della stagione, mentre seguivano la fila delle coppie. — Giacché non volete essere quello che vi avevo ideato, lasciatemi rimanere quale voglio essere io —. Polidori la fissava serio serio, tormentandosi i baffi, ma colla fronte china. Gli altri ballerini che non avevano nessuna ragione per stare a chiacchierare nel vano dell’uscio, li spingevano verso il salone. La donna arrossì, quasi fosse stata sorpresa in un abboccamento segreto con lui. Polidori — il serpente — notò quella vampa fugace. — Sapete che vi obbedirò ad ogni costo, — rispose semplicemente. La croce di brillanti scintillò sul petto di lei, sollevandosi in trionfo. Tutta la sera la signora Rinaldi ballò come una pazza, passando da un ballerino all’altro, tirandosi dietro uno sciame di adoratori, cogli occhi ebbri di festa, luccicanti come le gemme che le formicolavano sul seno anelante. Però ad un tratto, trovandosi faccia a faccia colla sua immagine in un grande specchio, si fece seria e non volle ballar più. Rispondeva a tutti di sentirsi stanca, molto stanca; e macchinalmente cercava cogli occhi suo marito. Non c’era nemmen lui, quell’uomo! In quei dieci minuti che rimase accasciata sul canapè, senza curarsi che la sua veste si affagottava sgarbatamente, le passarono davanti agli occhi delle strane fantasie, insieme alle coppie che ballavano il valzer. Polidori solo non ballava, né si vedeva più. — Che uomo era mai costui? Finalmente lo scorse in fondo a una sala deserta, faccia a faccia con una testa pelata, che non doveva aver nulla da dire, sorridendo come un uomo per cui il sorriso sia indifferente anch’esso. — Ella avrebbe preferito sorprenderlo colla più bella signora della festa, in parola d’onore! — Polidori non se ne avvide. Si alzò, premuroso sempre, e le offrì il braccio. In quel momento, proprio in quel momento doveva cacciarlesi fra i piedi anche suo marito, che cercava di lei. Allora, bruscamente, aggiustandosi sull’omero la scollatura della veste, con un leggiadro movimento della spalla, disse piano a Polidori, così piano che il fruscio della seta coprì quasi il suono della voce: — Sia pure, domani alle nove, ai Giardini —. Polidori s’inchinò profondamente e la lasciò passare, raggiante e commossa, al braccio del marito. Giammai mattino di primavera non era sembrato così misteriosamente bello alla signora Rinaldi nella sua villa deliziosa della Brianza, e giammai ella non l’avea contemplato con occhio più distratto attraverso al cristallo scintillante del suo coupé, come quando il suo legnetto attraversava rapidamente la piazza Cavour. Il sole inondava i viali del giardino, caldo e dorato, sull’erba che incominciava a rinverdire; l’azzurro del cielo era profondo. Coteste impressioni, ad insaputa di lei, riverberavansi nei suoi grandi occhi neri, che guardavano lontano, non sapeva ella stessa dove, né che cosa, mentre appoggiava la mano e la fronte pallida alla manopola. Di tanto in tanto un brivido la faceva stringere nelle spalle, un brivido di stanchezza o di freddo. Appena la carrozza si fermò al cancello, ella trasalì, e si tirò indietro vivamente, quasi suo marito si fosse affacciato all’improvviso allo sportello. Esitò alquanto prima di scendere, colla mano sulla maniglia pensando vagamente a quell’aspetto nuovo, sotto cui le si affacciava alla mente suo marito; poi mise il piede a terra e si calò il velo sul viso: un velo fitto, nero, tempestato di puntini, attraverso al quale gli occhi acquistavano alcunché di febbrile, e i lineamenti una rigidità di fantasma. La carrozza si allontanò di passo, senza far rumore, da carrozza discreta e ben educata. Il giardino sembrava destato anche’esso prima dell’ora, e tutto sorpreso d’incominciar la sua giornata così presto. Degli uomini in manica di camicia lo lavavano, lo pettinavano, gli facevano la sua toeletta mattutina. Le poche persone che si incontravano avevano l’aspetto di trovarsi là a quell’ora per la prima volta, e per ordine del medico anche loro; osavano interrogare il velo della passeggiatrice mattiniera, e indovinare il profumo del fazzoletto nascosto nel manicotto che ella si premeva sul petto con forza. Un vecchio che si trascinava lentamente, cercando il sole di marzo, si fermò a guardarla, com’ella fu passata, appoggiandosi al bastone malfermo, e tentennò il capo tristamente. La signora Rinaldi si arrestò dinanzi alla sponda del laghetto, saettando a dritta e a sinistra un’occhiata guardinga, cercando qualche cosa o qualcuno. Il mormorìo fresco dell’acqua, e lo stormire lieve lieve degli ippocastani la isolavano completamente; allora sollevò alquanto il velo, e cavò dal guanto un bigliettino meno grande di una carta da giuoco. Per due o tre minuti l’acqua seguitò a scorrere, e le foglie a stormire per conto loro. La donna aveva gli occhi assorti, avidi, umidi di sogni. Tutt’a un tratto un passo frettoloso le fece rizzare il capo, e il sangue le avvampò sulle guance, come se gli occhi ardenti del nuovo arrivato le avessero sfiorato il viso con un bacio. Polidori stava per portare la mano al cappello, quando ella gli arrestò il gesto con uno sguardo impercettibile, e gli passò vicino senza fissarlo. Camminava a capo chino, ascoltando lo stridere della sabbia sotto i suoi stivalini, senza guardare dinanzi a sé. Di tanto in tanto si metteva il fazzoletto alla bocca; per riprender fiato, quasi il suo cuore divorasse avidamente tutta l’aria che la circondava. L’onda lenta del ruscello l’accompagnava chetamente, borbottando sottovoce, addormentando le ultime sue paure; l’ombra dei cedri e il silenzio del viale deserto la penetravano vagamente, con sottile voluttà. Quando si fermò dinanzi alla gabbia del leopardo il petto le scoppiava e i ginocchi le tremavano forte, ché accanto a lei si era fermato anche Polidori, guardando attentamente il superbo animale, con la curiosità che avrebbe mostrato un contadino sbandato per quelle parti, e le disse piano: — Grazie! — Ella non rispose, si fece rossa, e strinse con forza i ferri della stia a cui appoggiava la fronte. Cotesta sensazione le faceva bene sulla epidermide della mano senza guanto. Chi avrebbe potuto immaginare che quella semplice parola, scambiata di furto, in fondo a quel deserto, dovesse vibrare tanto deliziosamente! No! davvero! C’era da perderci la testa! Ella si sentiva avvampare fin sulla nuca, che ei, ritto dietro le sue spalle, poteva vedere arrossire; un’onda di parole sconnesse e tumultuose le montavano alla testa, la ubbriacavano; parlava del ballo dove si era divertita assai; di suo marito il quale era partito all’alba, quand’ella non aveva ancora chiuso gli occhi. — Però non sono stanca! quest’aria fresca fa bene, tanto bene! ci si sente rinascere, non é vero? — Sì! è vero! — rispose Polidori guardandola fisso negli occhi; ma ella non osava levarli di terra. — Quando sarò in Brianza voglio levarmi col sole tutti i giorni. In città facciamo una vita impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirla —. Parlava in fretta, e con voce un po’ troppo alta e squillante, sorridendo spesso, a caso; gli era grata inconsciamente che ei non osasse interromperla, non osasse mischiare la sua voce a quella di lei. Finalmente Polidori le disse: — Ma perché non avete voluto ricevermi a casa vostra? — Ella gli piantò gli occhi in viso per la prima volta dacché erano lì, sorpresa, dolorosamente sorpresa. — Finora in tutto quello che avevano fatto, in tutto quello che avevano detto, il male non c’era stato che vagamente, in nube, nella loro intenzione, con squisita delicatezza che i suoi sensi finissimi assaporavano deliziosamente, come il leopardo sdraiato ai loro piedi si godeva il raggio caldo del sole, ammiccando la larga pupilla dorata, con quel medesimo inconscio e voluttuoso stiramento di membra. Richiamata così bruscamente alla realtà, stringeva le mani e le labbra con un’espressione dolorosa; gli occhi le si velarono quasi, seguendo nello spazio l’incantesimo che si era rotto, e gli fissò in volto quegli occhi stralunati. Tutta l’esperienza che possedeva Polidori non seppe fargli leggere quello che vi si scorgeva. — Ah! — disse poi con voce mutata, — sarebbe stato più prudente!... — Siete crudele! — mormorò Polidori. — No! — rispose ella sollevando il capo, un po’ rossa, ma con accento fermo. — Non sono come tutte le altre signore, non sono prudente!... quando mi romperò il collo, vorrò godermi l’orrore del precipizio sotto di me! Tanto peggio per voi se non capite —. Allora ei le afferrò la mano per forza, divorando tutta la sua bellezza palpitante con uno sguardo assetato, e balbettò: — Volete?... volete?... Ella non rispose, e fece uno sforzo per ritirare la mano. Polidori implorava la sua grazia con parole concitate, deliranti. Le ripeteva una domanda, una preghiera, sempre la stessa, con diverse inflessioni di voce che andavano a ricercare la donna nelle più intime fibre di tutto il suo essere; ella ne sentiva la vampa, le sembrava di esserne avviluppata e divorata, soverchiata da un languore mortale e delizioso; e cercava di svincolarsi, pallida, smarrita, colle labbra convulse, spiando il viale di qua e di là con occhi pazzi di terrore, contorcendosi sotto quella stretta possente, facendo forza con tutte e due le mani febbrili per strapparsi da quell’altra mano che sentiva ardere sotto il guanto. Infine, vinta, fuori di sé, balbettò: — Sì! sì! sì! — e fuggì dinanzi a qualcuno di cui si udiva avvicinarsi il calpestìo. Uscendo dal giardino era così sconvolta che stette per buttarsi sotto i cavalli di una carrozza. Aveva avuto un appuntamento! Quello era stato un appuntamento! E ripeteva macchinalmente, balbettando: — È questo! è questo! — Si sentiva tutta piena ed ebbra di cotesta parola, e le sue labbra smorte agitavansi senza mandare alcun suono, vagamente assaporando la colpa. Andò barcollante sino alla prima carrozza che incontrò; e si fece condurre dalla sua Erminia, quasi in cerca di aiuto. La sua amica, vedendosela comparire dinanzi con quel viso, le corse incontro fin sull’uscio del salotto. — Che hai? — Nulla! nulla! — Come sei bella! Cos’hai? Ella, invece di rispondere, le saltò al collo e le fece due baci pazzi. La signora Erminia era abituata alle sfuriate d’amicizia della sua Maria. Si misero a guardare insieme le fotografie che avevano viste cento volte, e i fiori che erano da un mese sul terrazzino. In quel momento, per combinazione, passava Polidori nel phaeton del suo amico Guidetti, col sigaro in bocca, e salutò la signora Erminia allo stesso modo come avrebbe potuto salutare Maria, se l’avesse scorta rincantucciata fra gli arbusti, premendosi le mani sul petto che voleva scoppiarle. Era una cosa da nulla; ma uno di quei nonnulla che penetrano in tutto l’essere di una donna come la punta di un ago. Allora, tornando a casa, la signora Rinaldi scrisse a Polidori una lunga lettera, calma e dignitosa, onde pregarlo di rinunciare a quell’appuntamento, di cui le aveva strappata la promessa in un momento di aberrazione, un momento che rammentava ancora con confusione e rossore, per sua punizione. C’era tanta sincerità nella contraddizione dei suoi sentimenti, che quell’istante d’abbandono, dopo un’ora sembrava infinitamente lontano, e se qualche cosa di vivo vibrava tuttora fra le linee della lettera, era solo il rimpianto di sogni che si dileguavano così bruscamente. Ella faceva appello all’onore e alla delicatezza di lui per farle dimenticare il suo errore, e lasciarle la stima di se stessa. Polidori si aspettava quasi quella lettera: la signora Rinaldi era troppo inesperta per non pentirsi dieci volte, prima di aver motivo di pentirsi davvero; ei fece una cosa che gli provò come quella donnina inesperta avesse ridestato in lui un sentimento schietto e forte con tutta la freschezza delle prime impressioni: le rimandò la lettera accompagnata da questa breve risposta: «Vi amo con tutto il rispetto e la tenerezza che deve inspirare la vostra innocenza. Vi rimando la lettera che mi avete diretta, perché non sarei degno di conservarla, e non oserei distruggerla. Ma l’imprudenza che avete commesso scrivendo una tal lettera è la prova migliore della stima in cui deve avervi ogni uomo di cuore». — Mio marito! — esclamava Maria con una strana intonazione di voce. — Ma mio marito è felicissimo! La rendita sale e scende per fargli piacere, i bachi sono andati bene, le commissioni piovono da ogni parte. C’è un cinquanta per cento di utili netti! — Erminia la stava a guardare a bocca aperta. — Senti, bambina, tu hai la febbre. Mesciamoci del the —. Due giorni dopo, per guarire della febbre, che le aveva trovato la sua Erminia, le disse: — Andrò in Brianza con Rinaldi. L’aria, l’ossigeno, la quiete, il canto degli usignoli, la famiglia... Che peccato non ci abbia dei bambini da cullare! — Là, sotto gli alberi folti, di faccia ai larghi orizzonti, sentiva una strana irritazione contro quella pace che la invadeva lentamente, suo malgrado, dal di fuori. Andava spesso sulle balze pittoresche verso il tramonto, a sciuparsi gli stivalini, e a montarsi la testa di proposito con dei sentimenti presi a prestito nei romanzi. Polidori aveva avuto il buon gusto di eclissarsi con garbo, restando a Milano, senza far nulla di teatrale e di convenzionale, come uno che sa mettere della cortesia anche a farsi dimenticare. — Né ella avrebbe saputo dire se pensasse ancora a lui; ma provava delle aspirazioni indefinite, che nella solitudine le tenevano compagnia, l’avviluppavano mollemente e tenacemente in quell’inerzia pericolosa, e parlavano per lei nel silenzio solenne che la circondava, e l’uggiva. Ella sfogavasi a scrivere delle lunghe lettere alla sua amica, vantandole le delizie ignorate della campagna, la squilla dell’avemaria fra le valli, il sorger del sole sui monti; facendole il conto delle ova che raccoglieva la castalda, e del vino che si sarebbe imbottigliato quell’anno. — Parlami un po’ più dei tuoi libri e delle tue corse a cavallo, — rispondeva la Erminia. — Di’ a tuo marito che non ti lasci andare al pollaio, o che ci venga anche lui —. E un bel giorno, dopo un certo silenzio, si mise in viaggio, un po’ inquieta, e andò a trovare la sua Maria. — T’ho fatto paura? — le disse costei. — M’hai creduto un’anima desolata in via di annientarsi? — No. T’ho creduto una che si annoia. Qui e una vera Tebaide: non c’è che da darsi a Dio o al diavolo. Vieni con me, a Villa d’Este. Voi mi permettete che ve la rubi, non è vero, Rinaldi? — Ma io desidero che ella si diverta e sia allegra —. A Villa d’Este c’era davvero da stare allegri: musica, balli, regate, corse sui vaporini, escursioni nei dintorni, un mondo di gente, bellissime toelette, e Polidori, il quale era l’anima di tutti i divertimenti. La signora Rinaldi non sapeva che ci fosse anche lui; e Polidori, se avesse potuto prevedere la sua venuta, le avrebbe reso il servigio di non farsi trovare a Villa d’Este. Ma oramai aveva accettato certo incarico nell’organizzare le regate, e non poteva muoversi senza dar nell’occhio prima che le regate avessero avuto luogo. Egli fece capire tutto ciò alla signora Rinaldi, brevemente e delicatamente, la prima volta che si incontrarono nel salone, facendole in certo modo delle scuse velate, e scivolando sul passato con disinvoltura. Maria, superato quel primo istante di turbamento, si era sentita rinfrancare non solo, ma, per una strana reazione, il contegno riservato di lui le metteva in corpo degli accessi matti d’ironia. Egli diceva che sarebbe partito subito dopo le regate, perché aveva promesso di trovarsi con alcuni amici in Piemonte, per una gran caccia, e veramente gli rincresceva lasciare tante belle signore a Villa d’Este. — Davvero? — domandò la signora Rinaldi con un certo risolino. — Chi le piace dippiù? — Ma... tutte, — rispose tranquillamente Polidori, — la sua amica Erminia per esempio —. Proprio! Ella non ci aveva mai pensato: la sua amica Erminia doveva far girare la testa ai signori uomini a preferenza di ogni altra, col suo visino piccante, e il suo spirito di diavolessa; così noncurante degli omaggi a cui era avvezza naturalmente — e marchesa per sopramercato — di quelle marchese che portano la loro corona sì fieramente, che ogni mortale sarebbe lietissimo di farsi accoppare per coglierle un fiore. Colla sua Erminia erano sempre insieme, sul lago, sul monte, nel salone, sotto gli alberi. Adesso ella la osservava come se la vedesse per la prima volta; la studiava, la imitava e qualche volta anche le invidiava dei nonnulla. Senza volerlo, aveva scoperto che la sua Erminia, con tutte le sue arie da regina, era un tantino civetta, di quella civetteria che non impegna a nulla, ma contro la quale nondimeno tutti gli uomini vanno a rompersi il naso. Era un affar serio! Non si poteva fare un passo senza trovarsi fra i piedi Polidori, il bel Polidori, corteggiato come un re da tutte quelle signore, il quale senza aver l’aria di avvedersene comprometteva orribilmente l’Erminia — il peggio era che non se ne avvedeva neppur lei, e che tutti non accettavano ad occhi chiusi le risate che ella ne faceva. La signora Rinaldi pensava che se non fosse stato un tasto tanto delicato, ella l’avrebbe fatto suonare all’orecchio della sua amica, e le avrebbe fatto osservare che suono falso rendeva. Perciò si sforzava di non farle scorgere nemmeno la pena che tutto quell’armeggìo le arrecava, pel bene che voleva ad Erminia, ben inteso — di Polidori poco le importava — era un uomo e faceva il suo mestiere, oramai!... eppoi era di quelli che sanno consolarsi. Ma Erminia aveva tutto da perdere a quel giuoco, con un marito come il suo, che le voleva bene, ed era proprio un marito ideale. Che talismano possedeva dunque quel Polidori per ecclissare un uomo come il marchese Gandolfi nel cuore di una donna bella, intelligente e corteggiata come l’Erminia? Certe cose non si sanno spiegare. Per nulla al mondo avrebbe voluto che anima viva si fosse accorta di quel che succedeva, e avrebbe voluto chiudere gli occhi a tutti gli altri come li chiudeva lei; ma francamente, c’era da perdere la pazienza. — Mia cara, io non mi raccapezzo più, — le diceva Erminia ridendo, tranquilla, come se non si trattasse di lei. — Cos’hai? Alle volte mi sembra che io debba averti fatto qualcosa di grosso a mia insaputa! — Oibò! quella povera Erminia come s’ingannava!... non le aveva fatto altro che la pena di vederla impaniarsi spensieratamente in quei pasticcio; anzi di lasciarvisi impaniare, perché quel Polidori sembrava impastarlo e rimpastarlo a suo grado con un’abilità diabolica. Doveva averne fatte molte di grosse quell’uomo, per aver acquistato quella maestria; era proprio un pessimo soggetto! — Cara Maria! — le disse Erminia un bel giorno, e con un bel bacione. — Mi sembra che quel Polidori ti trotti un po’ più del dovere per la testa. Guardati! è un individuo pericoloso, per una bambina come te! — Io? — rispose ella stupefatta. — Io?... — e non sapeva trovare altre parole sotto quegli occhioni acuti di Erminia. — Tanto meglio! tanto meglio! M’hai fatto una gran paura! tanto meglio! — Per una bambina, — pensava Maria, — non mi usa molti riguardi, la mia Erminia! Certe cose cavano gli occhi! — La signora Rinaldi era spietata per i corteggiatori eleganti, per gli innamorati ad ora fissa, nella passeggiata del parco o nelle serate di musica, pei conquistatori in guanti di Svezia. Una volta che Polidori si permise di fare qualche osservazione rispettosa in propria difesa, ella gli lanciò in faccia uno scoppio di risa squillanti. — Oh! oh! — Egli parve impallidire, colui, alfine! Siccome le altre signore gli ronzavano sempre attorno come api a Polidori — la colpa era di quelle signore che lo guastavano — ella soggiunse: — Non vi fate scorgere, ne sarei desolata. — Per chi? — Per voi, per me... e per gli altri — per tutto il mondo —. Questa volta ei non si lasciò sconcertare dal sarcasmo, e rispose con calma: — Non mi preme che di voi —. Ella avrebbe voluto colpirlo in viso con un altro getto di quella ilarità spietata e mordente, ma il riso le morì sulle labbra, dinanzi all’espressione che quelle due parole davano a tutta la fisonomia di lui. — Potete insultarmi, — rispose egli, — ma non avete il diritto di dubitare del sentimento che avete messo nel mio cuore —. Maria chinò il capo, vinta. — Non ho rispettato ciecamente la vostra volontà, quale sia stata? Vi ho chiesto una spiegazione? Non ho prevenuto il vostro desiderio? e non son riescito a far le viste di aver dimenticato quello che nessun uomo al mondo potrebbe dimenticare... da voi?... E se ho sofferto, per questo, c’è alcuno al mondo che mi abbia visto soffrire? — Egli parlava con voce calma, con l’atteggiamento tranquillo che davano a quelle parole pacate un’eloquenza irresistibile. — Voi!... — balbettò Maria. — Io! — ribatte Polidori, — che vi amo ancora, e che non ve lo avrei detto giammai —. Ella che si era fermata per strappare le foglie degli arbusti, fece due o tre passi per allontanarsi da lui, povera bambina! Polidori non ne fece uno solo per seguirla. La signora Rinaldi era divenuta a un tratto malinconica e fantastica. Stava delle lunghe ore col libro aperto alla medesima pagina, colle dita vaganti sulla tastiera del pianoforte, col ricamo abbandonato sui ginocchi, a contemplare l’acqua, i monti e le stelle. Lo specchio del lago riverberava tutte le sfumature dei suoi pensieri più indefiniti, e provava una squisita voluttà a sentirseli ripercuotere dentro di sé, intenta, assorta. Perciò sfuggiva alle allegre brigate e preferiva errare in barchetta sul lago, sola, quando i monti vi stendevano larghe ombre verdi, o quando i remi luccicavano fra le tenebre, come spade d’acciaio, o quando il tramonto vi spirava tristamente con vaghe strisce amaranti; frapponeva la tenda fra sé e i barcaiuoli, e coricata sui cuscini godeva a sentirsi cullata sull’abisso, ad immergervisi quasi, tuffando la mano nell’acqua, sentendosene guadagnare tutta la persona con un brivido misterioso; le piaceva sprofondare il suo sguardo nel buio interminato, al di là delle stelle, e a fantasticare su quel che doveva rischiarare qualche lumicino lontano che tremolava fra il buio, nella china dei monti. Cercava i viali erbosi, i misteriosi silenzi del boschetto, o lo spettacolo del lago in quelle ore in cui il sole vi splendeva come su di uno specchio, o tutte le finestre dell’albergo stavano ancora chiuse, e la rugiada luccicava sull’erba del prato, e le ombre erano folte sotto gli alberi giganteschi, e lo scricchiolare della sabbia sotto i suoi passi le sussurrava all’orecchio misteriose fantasticherie; spesso andava a leggere o a passeggiare sulla sponda del laghetto, nei viali remoti dei Campi Elisi, quando la luna si posava dolcemente sul lago e le accarezzava le mani bianche, o quando le finestre del salone stampavano nel buio del viale larghi quadrati di luce fredda, e la musica del salone faceva vagare arcane fantasie sotto le grandi ombre silenziose ed addormentate. Al di là di quelle ombre misteriose, dietro quei vetri scintillanti, il movimento della festa ammorzato, velato, acquistava una fusione di colori, di linee e di suoni, che lo rendeva affascinante, qualcosa fra il baccanale e la danza degli spiriti alati; allora respirando la vertigine, rimaneva lì, colla fronte sui vetri, con un formicolìo leggero alla radice dei capelli. Una sera, tutt’a un tratto, la si vide comparire in mezzo al ballo come una visione affascinante, più pallida e più bella che mai, e con qualcosa che nessuno le aveva mai visto sulla bocca e negli occhi. La folla si apriva commossa dinanzi a lei; Erminia andò ad abbracciarla; uno sciame di eleganti giovinotti le fece ressa attorno per strapparle la promessa di un giro di valzer o di una contradanza; ella si fermò un istante con quel medesimo sorriso sulle labbra, e quegli occhi splendenti come le lucciole del viale, cercando intorno, e come scorse Polidori gli buttò il fazzoletto. — Dio salvi la regina! — esclamò Polidori piegando un ginocchio. — Ti rubo il tuo ballerino, sai, — disse Maria tutta festante alla sua Erminia. — Ho una voglia matta di fare un bel giro di valzer anche io —. Polidori era uno di quei ballerini che le signore si disputano coi sorrisi e a colpi di ventaglio sulle dita — quando il sorriso ha fatto troppo effetto. Possedeva la forza e la grazia, lo slancio e la mollezza; nessuno sapeva rapirvi come lui verso le sfere spumanti d’ebbrezza color di rosa con un colpo di garetto, adagiandovi sul braccio destro come su di un cuscino di velluto. Dicevano che egli solo possedesse quell’intelligenza squisita dello Strauss, che vi fa perdere il fiato e la testa, e sapeva mettere nel braccio, nei muscoli, in tutta la persona, la foga, l’abbandono, l’estasi. — Non voglio che balliate più! — Non voglio che balliate con altre — gli disse Maria fermandosi anelante, colle guance rosse, cogli occhi un po’ velati — e fu tutto per quella sera. Ah! come era trionfante, e come il cuore le ballava dentro il petto, mentre quel cavaliere invidiato l’accompagnava fra la folla ammiratrice! e mentre si ravvolgeva stretta nella sciarpetta nera in mezzo al viale, dove i rumori della festa si dileguavano, e le fantasticherie sorgevano, vaghe, senza forma, ma assetate ancora! Pareva di essere in preda a un sogno delizioso, quando al valzer successe un notturno di Mendelson, un notturno che le passava anch’esso fra i capelli e sulla fronte, e fra le spalle, come una mano di velluto fresca e odorosa. A un tratto una figura nera si frappose dinanzi alla luce delle finestre che cadeva sul viale; il suo sogno le sorgeva improvviso dinanzi come un’ombra. Ella si alzò di soprassalto, sbigottita, in tumulto, balbettando qualche parola sconnessa che voleva dir no! no! no! e andò a ricovrarsi nel salone, rifugiandosi in mezzo al rumore e alla luce — la luce che le faceva socchiudere gli occhi abbarbagliati, e il rumore che la stordiva gradevolmente, la lasciava intontita e sorridente, un po’ rigida e pensosa. Erminia l’accarezzava quasi fosse un ninnolo leggiadro; quelle signore dicevano ad una voce che era proprio carina, così accerchiata dai più eleganti cacciatori di avventure, colle spalle al muro, come una cerbiatta addossata alla roccia: si sarebbe detto che le tremolasse negli occhi la lagrima della sconfitta. Polidori fu degli ultimi ad assalirla, da cacciatore che la sorte aveva destinato pel colpo di grazia; e sembrava mosso a pietà della vittima, giacché parlandole con un viso serissimo della pioggia e del bel tempo, si limitava a farle il suo briciolo di corte, domandandole con grande interesse di cose indifferentissime: se avesse fatto la sua gita in barca, se il giorno dopo sarebbe andata alla sua solita passeggiata mattutina verso i Campi Elisi. — Ella lo guardò negli occhi senza mai rispondere. Ei non insistette altro. Erminia si era messa al piano, e tutti stavano intenti ad ascoltarla; Maria non aveva occhi che per lei, anche quando li fissava vagamente nelle fantasie dell’ignoto, perché era lei che le evocava quelle fantasie e l’affascinava con esse: la sala intera splendida e calda fremeva di armonia. Erano di quei fatali momenti in cui il cuore si dilata con violenza dentro il petto e soverchia la ragione. Maria rabbrividiva dalla testa ai piedi, accasciata nella poltrona, colla fronte nella mano, e Polidori le sussurrava sul capo parole ardenti che le facevano fremere come cosa animata i ricci dei capelli sulla nuca bianca. La poveretta non vedeva più nulla, né la sala splendente, né la folla commossa, né gli occhi lucenti e penetranti di Erminia, e si abbandonò a quel che credeva il suo destino, senza forza, coll’occhio vitreo, come una morente. — Sì! sì! — mormorò con un soffio. Polidori si allontanò pian piano, per lasciarla rimettere, e andò a fumare la sua sigaretta nella sala del bigliardo. La brezza del lago fece vacillare tutta notte le fiammelle dei candelabri posti sul caminetto di lei, che si guardava nello specchio per delle ore intere, senza vedersi, con occhi fissi, arsi dalla febbre. Il signor Polidori passeggiava da un pezzo pel viale deserto in un’ora mattutina che gli ricordava un convegno di caccia; non si accorgeva del paesaggio incantevole per altra cosa che per sprofondarvi delle lunghe occhiate impazienti. Di tratto in tratto si fermava in ascolto, e rizzava il capo proprio come un levriere. Finalmente si udì un passo leggiero e timido di selvaggina elegante. Maria giungeva, e appena scorse Polidori, sebbene sapesse di trovarlo là, si arrestò all’improvviso, sgomenta, immobile come una statua. Il suo fine profilo arabo sembrava tagliare il velo fitto. Polidori, a capo scoperto, si inchinò profondamente, senza osare di toccarle la mano, né di rivolgerle una sola parola. Ella, anelante, turbata, sentiva per istinto quanto fosse imbarazzante il silenzio: — Sono stanca! — mormorò con voce rotta. — L’emozione la soffocava. Così dicendo seguitò ad inoltrarsi pel viale che saliva serpeggiando per la china del monte, ed ei le andava accanto, senza parlare, soggiogati entrambi da una forte commozione. Così giunsero ad una specie di monumento funerario. Maria si fermò ad un tratto appoggiando le spalle alla roccia e col viso fra le mani. Infine scoppiò in lagrime. Allora ei le prese le mani, e vi appoggiò lievemente le labbra, come uno schiavo. Allorché sentì finalmente che il tremito di quelle povere manine andava calmandosi, le disse piano, ma con un’intonazione ineffabile di tenerezza: — Dunque vi faccio paura? — Voi non mi disprezzate ora? — disse Maria. — Non è vero? — Egli giunse le mani, in un’espressione ardente di passione ed esclamò: — Io? Disprezzarvi io? — Maria sollevò il viso disfatto e lo fissò con occhi sbarrati, e colle lagrime ancora sul viso mormorava confusamente parole insensate: — È la prima volta!... ve lo giuro! — Ve lo giuro, signore!... — Oh! — esclamò Polidori con impeto. — Perché mi dite questo? a me che vi amo? che vi amo tanto! — Quelle parole vibravano come cosa viva dentro di lei; un istante ella se le premé forte colle mani dentro il petto, chiudendo gli occhi; ma immediatamente le avvamparono in viso, come avessero compito in un lampo tutta la circolazione del suo sangue, e le avessero arso tutte le vene. — No! no! — ripeteva; — ho fatto male, ho fatto assai male! sono stata una stordita. Credetemi, signore! Non sono colpevole; sono stata una stordita; sono davveto una bimba, lo dicono tutti, lo dicono anche le mie amiche —. La poverina cercava di sorridere, guardando di qua e di là stralunata. — Ho bisogno che non mi disprezziate! — Maria! — esclamò Polidori. Ella trasalì, e si tirò indietro bruscamente, spaventata dall’udire il suo nome. Polidori chino dinanzi a lei, umile, tenero, innamorato, le diceva: — Come siete bella! e come è bella la vita che ha di questi momenti! — Maria si passava le mani sugli occhi e pei capelli, confusa, smarrita, e s’accasciava su di sé stessa, e ripeteva quasi macchinalmente: — Se sapete che affare grosso è stato l’attraversare il viale, quel viale che ho fatto tutti i giorni. Non avrei mai creduto che potesse essere così! Davvero! non credevo! — E sorrideva per farsi coraggio, senza osare di guardar lui, abbandonata contro il sasso che le faceva da spalliera, tirandosi i guanti sulle braccia, ancora leggermente convulse, e seguitava a chiacchierare a modo del fanciullo che canta di notte per le strade onde farsi coraggio. — Sono stata disgraziata! sì, confesso che sono un cervellino strano! Ho delle pazze tendenze per quel mondo che forse non è altro se non un sogno, un sogno di gente inferma, sia pure! alle volte mi pare di soffocare fra tanta ragione in cui viviamo; sento il bisogno d’aria, di andarla a respirare in alto, dove è più pura ed azzurra. Non è mia colpa se non mi persuado di esser matta, se non mi rassegno alla vita com’è, se non capisco gli interessi che preoccupano gli altri. No! non ci ho colpa. Ho fatto il possibile. Sono in ritardo di parecchi secoli. Avrei dovuto venire al mondo al tempo dei cavalieri erranti —. Il suo leggiadro sorriso aveva una melanconica dolcezza e s’abbandonava senz’accorgersene all’incanto che contribuiva a crearsi ella stessa. — Beato voi che potete vivere a modo vostro! — Io vorrei vivere ai vostri piedi. — Tutta la vita? — domandò ella ridendo. — Tutta la vita. — Badate che vi stanchereste, — gli rispose gaiamente. — Voi dovrete stancarvi spesso! — ripeté Maria con uno sguardo che cercava di rendere ardito e sicuro. Polidori la trovava deliziosa nel suo imbarazzo — soltanto quell’imbarazzo si prolungava troppo. Prima di venire a quell’appuntamento, nell’istante supremo di passar l’uscio, Maria aveva provato tutte le pungenti emozioni che danno la curiosità dell’ignoto, l’attrattiva del male, il fascino dello sgomento che le serpeggiava nelle vene con brividi arcani e irresistibili; con una confusione tale di sentimenti e di idee, di impulsi e di terrore, che l’avevano spinta a precipitarsi nell’ignoto suo malgrado, in una specie di sonnambulismo, senza sapere precisamente cosa andasse a fare. Se Polidori le avesse steso le braccia al primo vederla, probabilmente ella si sarebbe spaccata la testa contro la rupe alla quale adesso appoggiavasi mollemente, con abbandono. Ora, incoraggiata dal vedersi ai piedi quell’uomo contrastato e invidiato, sentiva una deliziosa sensazione al contatto di quel muschio vellutato che le accarezzava le spalle; come le parole che egli le diceva tenere e ferventi le accarezzavano dolcemente l’orecchio e se ne sentiva invadere mollemente, come da un delizioso languore. Egli era così gentile, così rispettoso e così buono! non osava toccarle la punta delle dita, e si contentava di sfiorarla dolcemente col soffio ardente di quella passione che lo teneva prostrato dinanzi a lei quasi dinanzi a un idolo. Tutto ciò era senza ombra di male, e carino, carino. A poco a poco Polidori le aveva preso la mano, ed ella senza accorgersene gliela aveva abbandonata. Anche lui era sinceramente e fortemente commosso in quel momento, e cercava gli occhi di lei con occhi assetati ed ebbri. Ella senza vederli ne sentiva la fiamma, non osava levare i suoi, e il riso le moriva sulle labbra; non aveva la forza di ritirare le mani ad ogni nuovo tentativo che faceva, quasi il suono di quelle parole le addormentasse vagamente in un sonno dolcissimo l’anima e la coscienza, la facesse entrare in un’estasi angosciosa; Polidori non poteva saziarsi di ammirarla in quell’atteggiamento, abbandonata su di se stessa, colle braccia inerti, la fronte china e il petto anelante, e infine esclamò con uno slancio di passione, stendendo le braccia convulse: — Come siete bella, Maria, e come vi amo! — Ella si rizzò di botto, seria e rigida, quasi sentisse dirselo per la prima volta. — Voi lo sapete che vi amo tanto! da tanto tempo! — ripeteva lui. Ella non rispondeva; curvando all’indietro tutta la persona, e a testa bassa, in atteggiamento sospettoso, colle sopracciglia aggrottate, agitando macchinalmente le mani, come se cercasse farsene schermo contro qualche cosa, colle labbra pallide e serrate. Ad un tratto, levando gli occhi sul viso sconvolto di lui, incontrando quegli occhi, mise un strido soffocato, e si arretrò sino all’ingresso di quella specie di monumento sepolcrale, bianca di terrore, difendendosi colle braccia stese da quella passione che l’atterriva ora che vedeva cosa fosse, guardandola in faccia per la prima volta, balbettando: — Signore!... signore!... — Egli ripeteva fuori di sé, supplichevole, in un’implorazione affascinante di delirio e d’amore: — Maria! Maria!... — No! — ripeteva costei smarrita, — no!... Polidori si arrestò di botto, e si passò due o tre volte la mano sulla fronte e sugli occhi con un gesto disperato. Indi le disse con voce rauca: — Voi non mi avete mai amato, Maria! — No! no! lasciatemi andare! — ripeteva ella, quando Polidori s’era già allontanato. — Signore!... signore!... Polidori subiva suo malgrado la forte commozione di quell’istante, ed era tutto tremante anch’esso come quella povera ingenua. — Sentite, abbiamo fatto male! — ripeteva ella con voce convulsa. — Abbiamo fatto male... — e si sentiva venir meno. In quel punto, all’improvviso, si udì rumore fra le piante e lo scalpiccìo di chi sopraveniva si arrestò poco lontano, come esitante. — Maria! — esclamò una voce talmente alterata che nessuno di loro due la riconobbe: — Maria! — Polidori, ridivenuto l’uomo di prima da un momento all’altro, prese vivamente Maria per un braccio e la spinse pel viale da dove era venuta la voce, e in un lampo scomparve fra gli andirivieni del sepolcreto. Maria arrivando nel viale, si trovò faccia a faccia con Erminia, pallida anch’essa, che cercava a fatica di dissimulare il suo turbamento, e voleva spiegarle qualche cosa, dandosi un’aria indifferente. Maria le piantò in viso certi occhi che avevano una strana espressione. — Che vuoi? — le chiese soltanto, con voce sorda dopo alcuni istanti di un silenzio che sembrò eterno. — Oh! Maria!... — rispose Erminia, buttandole le braccia al collo. E fu tutto. Ritornarono indietro l’una al fianco dell’altra, senza aprire bocca e a capo chino. Come furono in vista dell’albergo, sentirono tutte e due a un tempo di dover assumere un contegno. — Lucia mi aveva detto ch’eri scesa in giardino, — disse Erminia, — e ciò mi ha fatto venire il desiderio di fare una passeggiata mattutina anch’io, col pretesto di venire in traccia di te. — Grazie — rispose Maria semplicemente. — Però comincia ad esser troppo tardi per passeggiare. Il sole è già caldo —. Maria infatti aveva preso un colpo di sole che l’aveva abbacinata e stordita. Era rimasta come scossa e turbata in tutto il suo essere. Alle volte macchinalmente si stringeva le mani, come per riconoscersi, o per cercarvi qualche cosa, un’impronta del passato, e chiudeva gli occhi. Quando incontrava degli sguardi curiosi, e tutti le sembravano curiosi, oppure quelli della sua amica, avvampava in viso. Stava rincantucciata nel suo appartamento il più che poteva, e quindi molti credevano che fosse partita. La sola vista di Erminia le faceva corrugare la fronte, e dava un non so che di fosco a tutta la sua fisionomia. Però era abbastanza donna di mondo per sapere dissimulare sino a un certo punto i suoi sentimenti, quali essi fossero. Erminia, che non ne era illusa, provava un vero rammarico. — Io son sempre la tua Erminia, sai! — le diceva ogni volta che poteva, scuotendole amorevolmente le mani. — Io son sempre la tua Erminia, quella di prima! quella di sempre! — Maria sorrideva a fior di labbra, gentile e distratta. — Hai torto, vedi! — ripeteva Erminia. — Ti inganni!... t’inganni, se credi che io non ti voglia più il bene di prima! — Ella aveva infatti delle sollecitudini materne per la sua Maria, delle sollecitudini che sovente indispettivano costei, come se prendessero l’aspetto di una sorveglianza amorevole e discreta. Un giorno Erminia la sorprese mentre stava incominciando una lettera; e le domandò semplicemente se suo marito le avesse scritto; la domanda veniva così male a proposito, che Maria fu quasi per arrossire, come se fosse stata nel punto di dover rispondere una bugia. — No! mio marito non mi guasta tanto. È troppo occupato. — Sì, è troppo occupato! — affermò Erminia senza rilevare l’ironia della risposta, — è seriamente occupato. Affoga negli affari, poveretto! — Che dici mai? se sono la sua passione, l’unica sua passione! — Lo credi? — domandò Erminia, fissandole in faccia quei suoi occhioni acuti. — Ma sì! — rispose Maria con un risolino che le contraeva gli angoli della bocca, e aggiunse ancora, come correttivo: — Non ho alcun motivo di esser gelosa però. Mio marito non giuoca, non va al caffè, non è cacciatore, non ama i cavalli, non legge che il listino della Borsa — nulla, ti dico! — È vero; non ama che te! — Maria inchinò il capo con un sorrisetto contraffatto; ma non aggiunse verbo per un pezzo, e poi, amaramente: — Avete ragione, sono anche un’ingrata! — No, non sei ingrata; sei una donnina viziata, una testolina guasta, che vede falso in molte cose e che non ci vede in certe altre. Il solo torto di tuo marito è di non averti aperto gli occhi sul gran bene che ti vuole. — Fortunatamente che ha incaricato te di dirmelo. — Sì, io che ti voglio bene, anch’io! bene davvero!... Vuoi che partiamo domattina? — Oooh! — Ti rincresce? — No, mi sorprende soltanto la risoluzione improvvisa, così come si fa nelle commedie, per le ragazze che hanno abbozzato un romanzetto... — Scusami; ti ho proposto di venire con me... Ma se vuoi restare... — No, voglio venire anch’io. Solamente bisogna trovare un pretesto plausibile, per non far pensare al romanzo a tutti i curiosi che ci vedranno ordinare così in furia le nostre valige. — Il motivo è bello e trovato, tanto più che è il motivo vero. Io vado ad incontrare mia suocera che arriva domani da Firenze, e tu naturalmente vieni con me, per non rimaner sola a Villa d’Este. — Benissimo! E dacché dobbiamo partire, più presto sarà meglio sarà. Desidero andare col primo treno —. Partirono infatti di buon mattino. A lei scoppiava il cuore passando dinanzi a quelle finestre chiuse, sulle quali l’ombra dei grandi alberi dormiva tuttora, uscendo da quel viale deserto, ove si era aggirata fantasticando tante volte. Il lago, nella pace di quell’ora, aveva un incantesimo singolare, e ogni menomo particolare del paesaggio si animava, sembrava che fosse vissuto con lei, le si stampava nell’intimo del cuore profondamente. Appena fu nel vagone aprì il libro che aveva portato apposta, e vi nascose il viso e gli occhi pieni di lagrime. Erminia seppe non avvedersi di nulla, ed ebbe l’accortezza di lasciarle assaporare voluttuosamente il dolore del distacco. Alla stazione trovarono la carrozza di Erminia, la quale volle accompagnare l’amica sino a casa. — Rinaldi non è a Milano — le disse rispondendo al movimento di sorpresa che aveva fatto Maria non trovando nessuno ad aspettarla. — È andato a Roma. — Senza scrivermelo! senza lasciarmi una parola! — mormorò Maria. — Sì, ha scritto. La lettera deve averla mio marito —. Ma subito s’interruppe, perché cominciava a spaventarsi dell’agitazione che si andava manifestando sul viso di Maria. — Infine, — le disse, — tosto o tardi devi saperlo. Rinaldi è corso a Roma per regolare degli affari... Sai.. quando si è lontani non vanno sempre come dovrebbero andare. Tuo marito era inquieto. Colla sua gita accomoderà tutto. — Cos’è stato? — balbettava Maria, turbata maggiormente da quell’annunzio perché la sorprendeva in quel momento. — Cos’è avvenuto? — Non ti spaventare; tuo marito sta bene. È accaduto che uno dei suoi debitori è fallito. Questione di denaro. — Ah! — disse Maria respirando; e un’ombra d’ironia le tornò sul viso. Suo marito sembrava che facesse apposta onde giustificare il sorrisetto amaro di lei. Era così preoccupato del suo affare che non aveva più testa per nessun’altra cosa al mondo. Passarono parecchi giorni senza che ei si facesse vivo altrimenti. Alla fine arrivò un telegramma che mise in grande costernazione il socio di lui, il quale partì subito per Roma. — Oh! — esclamò allora Maria con quell’intonazione pungente che le era divenuta abituale da otto giorni. — Ma dev’essere proprio un affar serio! Del resto per mio marito sarà sempre un affar serio. Vuol dire che il mio posto in questa circostanza, sarebbe vicino a lui. Non me lo dice; ma si capisce che non me ne ha scritto nulla per delicatezza. E giacché il socio è andato a raggiungerlo, dovrei partire anch’io —. Malgrado la leggerezza che ostentava, fu sorpresa, e rimase inquieta osservando che Erminia approvava il suo progetto. Per un istante un’idea nera le si affacciò alla mente e le scolorò il viso; ma subito dopo tornò a ridere nervosamente come prima. — Se mio marito non mi avesse ben avvezzata a lasciarlo fare un po’ a suo modo, ci sarebbe davvero di che spaventarsi. — Spaventarsi di che? di fare un viaggio sino a Roma? nella bella stagione, e nel paese più bello?... — Hai ragione; sarà quasi come andare in villeggiatura. Tanto, Roma o la Brianza è lo stesso. E tu non torni a Villa d’Este? — No. — Oh!... — Accompagno mia suocera a Firenze. — Che peccato!... parlo di Villa d’Este, perché ci dev’essere una brillante compagnia in questo momento. Sei proprio una brava figliuola, dovrebbe dirti tua suocera —. La sera stessa partì per Roma; ma era in uno stato febbrile che non sapeva spiegarsi, e la sua inquietudine aumentava avvicinandosi al termine del suo viaggio che le parve eterno. Trovò suo marito tanto mutato in così breve tempo, che al primo vederlo ne fu quasi spaventata. Rinaldi le strinse le mani con effusione; ma sembrò più che sorpreso del suo arrivo improvviso. Egli era così sconvolto che non faceva altro che ripeterle: — Perché sei venuta? Perché venire?... — — Non avevo mai visto mio marito così! — diceva Maria ad Erminia alcuni mesi dopo, la prima volta che la rivedeva dopo che era tornata a Milano. — Non credevo che la fisonomia di quell’uomo potesse destare tale impressione, né che egli sapesse dire di quelle parole, né che la sua voce avesse di quei suoni che vi sconvolgono l’anima da cima a fondo —. Non l’aveva mai visto così! Anch’essa era molto mutata, la povera Maria! aveva una ruga impercettibile fra le sopracciglia, che solcava finamente il candore purissimo della sua fronte, e alle volte stendeva come un’ombra su tutta la sua fisonomia. — Sì: sono stati giorni terribili, mi par di sentirmeli ancora dentro il petto, come un gruppo nero, come una fitta dolorosa che mi è quasi cara, tanto è profonda e radicata. Ormai hanno stampato in me un’orma così indelebile che non potrei scancellarla senza farmi male. Che momento, quando sorpresi mio marito colla pistola in pugno! che momento! E come ebbi la forza di avviticchiarmi a lui per impedirgli di morire — giacché egli voleva morire, me lo ha detto dopo. Non aveva il coraggio di dirmi che non poteva più comperarmi né cavalli, né palco alla Scala, né gioielli, nulla! e piangeva, come piangono certi uomini che non hanno pianto mai, con quelle lagrime che vi scavano un solco dentro all’anima. Quante cose mi son passate in un lampo per la testa in quel momento in cui sentivo contro il mio quel cuore che batteva ancora per me, e per me sola! e contro il quale nascondeva il viso che ardeva!... Tu sei stata assai gentile a venirmi a trovare ora che sono salita a un quarto piano. Tu sei stata molto gentile! — Ma tu non lo sei gran fatto, cara Maria, facendomi di questi ringraziamenti. Vuol dire che non avevi una bella opinione di me! — No! ma che vuoi? quando si son viste tutte le cose che ho viste!... e poi la disgrazia ha questo di peggio, che ci rende ingiusti... Figurati che quando era corsa la voce che io fossi vedova!... mi ha fatto un certo senso il vedere che a nessuno fosse venuto in mente che ero rimasta senza appoggio, laggiù a Roma... nessuno di quelli che dicevano di avere per me tanta amicizia! Ma non mi lagno, sai! Avevo torto verso di te poi, ti voglio sempre bene! — Esitò alquanto e infine le buttò le braccia al collo con impeto. — Perdonami! perdonami! Sono stata ingiusta contro di te, contro di tutti! Ho avuto ragione tante volte! — Erminia le ricambiava la stretta, assai commossa anche lei, ma senza risponder verbo. — Ero folle! — mormorò dopo un’altra esitazione, col viso contro il petto di Erminia. — Ora non ci penso più. — Ed io non ci ho mai pensato, — disse alfine Erminia ridendo al suo solito, ma con grande sincerità di viso e di accento. Maria rizzò il capo vivamente e le piantò in faccia due occhioni fiammeggianti: — Mai pensato? mai? — Mai. — Ma allora... allora non l’ho amato nemmen io! No! davvero? Mai! —


Il Reverendo



Di reverendo non aveva più né la barba lunga, né lo scapolare di zoccolante, ora che si faceva radere ogni domenica, e andava a spasso colla sua bella sottana di panno fine, e il tabarro colle rivolte di seta sul braccio. Allorché guardava i suoi campi, e le sue vigne, e i suoi armenti, e i suoi bifolchi, colle mani in tasca e la pipetta in bocca, se si fosse rammentato del tempo in cui lavava le scodelle ai cappuccini, e che gli avevano messo il saio per carità. si sarebbe fatta la croce colla mano sinistra. Ma se non gli avessero insegnato a dir messa, e a leggere e a scrivere per carità, non sarebbe riescito a ficcarsi nelle primarie casate del paese, né ad inchiodare nei suoi bilanci il nome di tutti quei mezzadri che lavoravano e pregavano Dio e la buon’annata per lui, e bestemmiavano poi come turchi al far dei conti. «Guarda ciò che sono e non da chi son nato» dice il proverbio. Da chi era nato lui, tutti lo sapevano, ché sua madre gli scopava tuttora la casa. Il Reverendo non aveva la boria di famiglia, no; e quando andava a fare il tresette dalla baronessa, si faceva aspettare in anticamera dal fratello, col lanternone in mano. Nel far del bene cominciava dai suoi, come Dio stesso comanda; e s’era tolta in casa una nipote, belloccia, ma senza camicia, che non avrebbe trovato uno straccio di marito; e la manteneva lui, anzi l’aveva messa nella bella stanza coi vetri alla finestra, e il letto a cortinaggio, e non la teneva per lavorare, o per sciuparsi le mani in alcun ufficio grossolano. Talché parve a tutti un vero castigo di Dio, allorquando la poveraccia fu presa dagli scrupoli, come accade alle donne che non hanno altro da fare, e passano i giorni in chiesa a picchiarsi il petto pel peccato mortale — ma non quando c’era lo zio, ch’ei non era di quei preti i quali amano farsi vedere in pompa magna sull’altare dall’innamorata. Le donne, fuori di casa, gli bastava accarezzarle con due dita sulla guancia, paternamente, o dallo sportellino del confessionario, dopo che s’erano risciacquata la coscienza, e avevano vuotato il sacco dei peccati propri ed altrui, ché qualche cosa di utile ci si apprendeva sempre, per dar la benedizione, uno che speculasse sugli affari di campagna. Benedetto Dio! egli non pretendeva di essere un sant’uomo, no! I sant’uomini morivano di fame; come il vicario il quale celebrava anche quando non gli pagavano la messa; e andava attorno per le case de’ pezzenti con una sottana lacera che era uno scandalo per la Religione. Il Reverendo voleva portarsi avanti; e ci si portava, col vento in poppa; dapprincipio un po’ a sghembo per quella benedetta tonaca che gli dava noia, tanto che per buttarla nell’orto del convento aveva fatta causa al Tribunale della Monarchia, e i confratelli l’avevano aiutato a vincerla per levarselo di torno, perché sin quando ci fu lui in convento volavano le panche e le scodelle in refettorio ad ogni elezione di provinciale; il padre Battistino, un servo di Dio robusto come un mulattiere, l’avevano mezzo accoppato, e padre Giammaria, il guardiano, ci aveva rimesso tutta la dentatura. Il Reverendo, lui, stava chiotto in cella, dopo di aver attizzato il fuoco, e in tal modo era arrivato ad esser reverendo con tutti i denti, che gli servivano bene; e al padre Giammaria che era stato lui a ficcarsi quello scorpione nella manica, ognuno diceva: — Ben gli sta! — Ma il padre Giammaria, buon uomo, rispondeva, masticandosi le labbra colle gengive nude: — Che volete? Costui non era fatto per cappuccino. È come papa Sisto, che da porcaio arrivò ad essere quello che fu. Non avete visto ciò che prometteva da ragazzo? — Per questo padre Giammaria era rimasto semplice guardiano dei Cappuccini, senza camicia e senza un soldo in tasca, a confessare per l’amor di Dio, e cuocere la minestra per i poveri. Il Reverendo, da ragazzo, come vedeva suo fratello, quello del lanternone, rompersi la schiena a zappare, e le sorelle che non trovavano marito neanche a regalarle, e la mamma la quale filava al buio per risparmiar l’olio della lucerna, aveva detto: — Io voglio esser prete! — Avevano venduto la mula e il campicello, per mandarlo a scuola, nella speranza che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula. Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario! Allora il ragazzo si mise a ronzare attorno al convento perché lo pigliassero novizio; e un giorno che si aspettava il provinciale, e c’era da fare in cucina, lo accolsero per dare una mano. Padre Giammaria, il quale aveva il cuore buono, gli disse: — Ti piace lo stato? e tu stacci —. E fra Carmelo, il portinaio, nelle lunghe ore d’ozio, che s’annoiava seduto sul muricciuolo del chiostro a sbattere i sandali l’un contro l’altro, gli mise insieme un po’ di scapolare coi pezzi di saio buttati sul fico a spauracchio delle passere. La mamma, il fratello e la sorella protestavano che se entrava frate era finita per loro, e ci rimettevano i denari della scuola, perché non gli avrebbero cavato più un baiocco. Ma lui che era frate nel sangue, si stringeva le spalle, e rispondeva: — Sta a vedere che uno non può seguire la vocazione a cui Dio l’ha chiamato! — Il padre Giammaria l’aveva preso a ben volere perché era lesto come un gatto in cucina, e in tutti gli uffici vili, persino nel servir la messa, quasi non avesse fatto mai altro in vita sua, cogli occhi bassi, e le labbra cucite come un serafino. — Ora che non serviva più la messa aveva sempre quegli occhi bassi e quelle labbra cucite, quando si trattava di un affare scabroso coi signori, che c’era da disputarsi all’asta le terre del comune, o da giurare il vero dinanzi al Pretore. Di giuramenti, nel 1854, dovette farne uno grosso davvero, sull’altare, davanti alla pisside, mentre diceva la santa messa, ché la gente lo accusava di spargere il colèra, e voleva fargli la festa. — Per quest’ostia consacrata che ho in mano — disse lui ai fedeli inginocchiati sulle calcagna — sono innocente , figliuoli miei! Del resto vi prometto che il flagello cesserà fra una settimana. Abbiate pazienza! — Sì, avevano pazienza! per forza dovevano averla! Poiché egli era tutt’uno col giudice e col capitan d’armi, e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi, dicevasi; e gli aveva mandato anche il contravveleno, caso mai succedesse una disgrazia. Una vecchia zia che aveva dovuto tirarsi in casa, per non fare mormorare il prossimo, e non era più buona che a mangiare il pane a tradimento, aveva sturato una bottiglia per un’altra, e acchiappò il colèra bell’e buono; ma il nipote stesso, per non fare insospettir la gente, non aveva potuto amministrarle il contravveleno. — Dammi il contravveleno! dammi il contravveleno! — supplicava la vecchia, già nera come il carbone, senza aver riguardo al medico ed al notaio ch’erano lì presenti, e si guardavano in faccia imbarazzati. Il Reverendo, colla faccia tosta, quasi non fosse fatto suo, borbottava stringendosi nelle spalle: — Non le date retta, che sta delirando —. Il contravveleno, se pur ce l’aveva, il re glielo aveva mandato sotto suggello di confessione, e non poteva darlo a nessuno. Il giudice in persona era andato a chiederglielo ginocchioni per sua moglie che moriva, e s’era sentito rispondere dal Reverendo: — Comandatemi della vita, amico caro; ma per cotesto negozio, proprio, non posso servirvi —. Questa era storia che tutti la sapevano, e siccome sapevano che a furia di intrighi e d’abilità era arrivato ad essere l’amico intrinseco del re, del giudice e del capitan d’armi, che aveva la polizia come l’Intendente, e i suoi rapporti arrivavano a Napoli senza passar per le mani del Luogotenente, nessuno osava litigare con lui, e allorché gettava gli occhi su di un podere da vendere, o su di un lotto di terre comunali che si affittavano all’asta, gli stessi pezzi grossi del paese, se s’arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi, e offrendogli una presa di tabacco. Una volta, col barone istesso, durarono una mezza giornata a tira e molla. Il barone faceva l’amabile, e il Reverendo seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe, ad ogni offerta d’aumento gli presentava la tabacchiera d’argento, sospirando: — Che volete farci, signor barone. Qui è caduto l’asino, e tocca a noi tirarlo su —. Finché si pappò l’aggiudicazione, e il barone tirò su la presa, verde dalla bile. Cotesto l’approvavano i villani, perché i cani grossi si fanno sempre la guerra fra di loro, se capita un osso buono, e ai poveretti non resta mai nulla da rosicare. Ma ciò che li faceva mormorare era che quel servo di Dio li smungesse peggio dell’anticristo, allorché avevano da spartire con lui, e non si faceva scrupolo di chiappare la roba del prossimo, perché gli arnesi della confessione li teneva in mano e se cascava in peccato mortale poteva darsi l’assoluzione da sè. — Tutto sta ad averci il prete in casa! — sospiravano. E i più facoltosi si levavano il pan di bocca per mandare il figliuolo al seminario. — Quando uno si dà alla campagna, bisogna che ci si dia tutto, — diceva il Reverendo, onde scusarsi se non usava riguardi a nessuno. E la messa stessa lui non la celebrava altro che la domenica, quando non c’era altro da fare, che non era di quei pretucoli che corrono dietro al tre tarì della messa. Lui non ne aveva bisogno. Tanto che Monsignor Vescovo, nella visita pastorale, arrivando a casa sua, e trovandogli il breviario coperto di polvere, vi scrisse su col dito «deo gratias»! Ma il Reverendo aveva altro in testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di Monsignore. Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore lanute, e i seminati alti come un uomo, che i suoi mezzadri almeno se ne godevano la vista, e potevano fabbricarvi su dei bei castelli in aria, prima di fare i conti col padrone. I poveretti slargavano tanto di cuore. — Seminati che sono una magìa! Il Signore ci è passato di notte! Si vede che è roba di un servo di Dio e conviene lavorare per lui che ci ha in mano la messa e la benedizione! — In maggio, all’epoca in cui guardavano in cielo per scongiurare ogni nuvola che passava, sapevano che il padrone diceva la messa pella raccolta, e valeva più delle immagini dei santi, e dei pani benedetti per scacciare il malocchio e la malannata. Anzi il Reverendo non voleva che spargessero i pani benedetti pel seminato, perché non servono che ad attirare i passeri e gli altri uccelli nocivi. Delle immagini sante poi ne aveva le tasche piene, giacché ne pigliava quante ne voleva in sagrestia, di quelle buone, senza spendere un soldo, e le regalava ai suoi contadini. Ma alla raccolta, giungeva a cavallo, insieme a suo fratello, il quale gli faceva da campiere, collo schioppo ad armacollo, e non si muoveva più, dormiva lì, nella malaria, per guardare ai suoi interessi, senza badare neanche a Cristo. Quei poveri diavoli, che nella bella stagione avevano dimenticato i giorni duri dell’inverno, rimanevano a bocca aperta sentendosi sciorinare la litania dei loro debiti. — Tanti rotoli di fave che tua moglie è venuta a prendere al tempo della neve. — Tanti fasci di sarmenti consegnati al tuo figliuolo. — Tanti tumoli di grano anticipati per le sementi — coi frutti — a tanto il mese. — Fa il conto —. Un conto imbrogliato. Nell’anno della carestia, che lo zio Carmenio ci aveva lasciato il sudore e la salute nelle chiuse del Reverendo, gli toccò di lasciarvi anche l’asino, alla messe, per saldare il debito, e se ne andava a mani vuote, bestemmiando delle parolacce da far tremare cielo e terra. Il Reverendo, che non era lì per confessare, lasciava dire, e si tirava l’asino nella stalla. Dopo che era divenuto ricco aveva scoperto nella sua famiglia, la quale non aveva mai avuto pane da mangiare, certi diritti ad un beneficio grasso come un canonicato, e all’epoca dell’abolizione delle manimorte aveva chiesto lo svincolo e s’era pappato il podere definitivamente. Solo gli seccava per quei denari che si dovevano pagare per lo svincolo, e dava del ladro di Governo il quale non rilascia gratis la roba dei beneficii a chi tocca. Su questa storia del Governo egli aveva dovuto inghiottir della bile assai, fin dal 1860, quando avevano fatto la rivoluzione, e gli era toccato nascondersi in una grotta come un topo, perché i villani, tutti quelli che avevano avuto delle quistioni con lui, volevano fargli la pelle. In seguito era venuta la litania delle tasse, che non finiva più di pagare, e il solo pensarci gli mutava in tossico il vino a tavola. Ora davano addosso al Santo Padre, e volevano spogliarlo del temporale. Ma quando il Papa mandò la scomunica per tutti coloro che acquistassero beni delle manimorte, il Reverendo sentì montarsi la mosca al naso, e borbottò: — Che c’entra il Papa nella roba mia? Questo non ci ha a far nulla col temporale. — E seguitò a dir la santa messa meglio di prima. I villani andavano ad ascoltare la sua messa, ma pensavano senza volere alle ladrerie del celebrante, e avevano delle distrazioni. Le loro donne, mentre gli confessavano i peccati, non potevano fare a meno di spifferargli sul mostaccio: — Padre, mi accuso di avere sparlato di voi che siete un servo di Dio, perché quet’inverno siamo rimasti senza fave e senza grano a causa vostra. — A causa mia! Che li faccio io il bel tempo o la malannata? Oppure devo possedere le terre perché voialtri ci seminiate e facciate i vostri interessi? Non ne avete coscienza, né timore di Dio? Perché ci venite allora a confessarvi? Questo è il diavolo che vi tenta per farvi perdere il sacramento della penitenza. Quando vi mettete a fare tutti quei figliuoli non ci pensate che son tante bocche che mangiano? Ve li ho fatti far io tutti quei figliuoli? Io mi son fatto prete per non averne —. Però assolveva, come era obbligo suo; ma nondimeno nella testa di quella gente rozza restava qualche confusione fra il prete che alzava la mano a benedire in nome di Dio, e il padrone che arruffava i conti, e li mandava via dal podere col sacco vuoto e la falce sotto l’ascella. — Non c’è che fare, non c’è che fare — borbottavano i poveretti rassegnati. — La brocca non ci vince contro il sasso, e col Reverendo non si può litigare, ché lui sa la legge! — Se la sapeva! Quand’erano davanti al giudice, coll’avvocato, egli chiudeva la bocca a tutti col dire: — La legge è così e così —. Ed era sempre come giovava a lui. Nel buon tempo passato se ne rideva dei nemici, degli invidiosi. Avevano fatto un casa del diavolo, erano andati dal vescovo, gli avevano gettato in faccia la nipote, massaro Carmenio e la roba malacquistata, gli avevano fatto togliere la messa e la confessione. Ebbene? E poi? Egli non aveva bisogno del vescovo né di nessuno. Egli aveva il fatto suo ed era rispettato come quelli che in paese portano la battuta; egli era di casa della baronessa, e più facevano del chiasso intorno a lui, peggio era lo scandalo. I pezzi grossi non vanno toccati, nemmeno dal vescovo, e ci si fà di berretto, per prudenza, e per amor della pace. Ma dopo che era trionfata la eresia, colla rivoluzione, a che gli serviva tutto ciò? I villani che imparavano a leggere e a scrivere, e vi facevano il conto meglio di voi; i partiti che si disputavano il municipio, e si spartivano la cuccagna senza un riguardo al mondo; il primo pezzente che poteva ottenere il gratuito patrocinio, se aveva una quistione con voi, e vi faceva sostener da solo le spese del giudizio! Un sacerdote non contava più né presso il giudice , né presso il capitano d’armi; adesso non poteva nemmeno far imprigionare con una parolina, se gli mancavano di rispetto, e non era più buono che a dir messa, e confessare, come un servitore del pubblico. Il giudice aveva paura dei giornali, dell’opinione pubblica, di quel che avrebbero detto Caio e Sempronio, e trinciava giudizi come Salomone! Perfino la roba che si era acquistata col sudore della fronte gliela invidiavano, gli avevano fatto il malocchio e la iettatura; quel po’ di grazia di Dio che mangiava a tavola, gli dava gran travaglio, la notte, mentre suo fratello, il quale faceva una vita dura, e mangiava pane e cipolla, digeriva meglio di uno struzzo, e sapeva che di lì a cent’anni, morto lui, sarebbe stato il suo erede, e si sarebbe trovato ricco senza muovere un dito. La mamma, poveretta, non era più buona a nulla, e campava per penare e far penare gli altri, inchiodata nel letto dalla paralisi, che bisognava servir lei piuttosto; e la nipote istessa, grassa, ben vestita, provvista di tutto, senza altro da fare che andare in chiesa, lo tormentava, quando le saltava in capo di essere in peccato mortale, quasi ei fosse di quegli scomunicati che avevano spodestato il Santo Padre, e gli aveva fatto levar la messa dal vescovo. — Non c’è più religione, né giustizia, né nulla! — brontolava il Reverendo come diventava vecchio. — Adesso ciascuno vuol dir la sua. Chi non ha nulla vorrebbe chiapparvi il vostro. — Levati di lì, che mi ci metto io! — Chi non ha altro da fare viene a cercarvi le pulci in casa. I preti vorrebbero ridurli a sagrestani, dir messa e scopare la chiesa. La volontà di Dio non vogliono farla più, ecco cos’è! — Cos’è il Re Compare Cosimo il lettighiere aveva governato le sue mule, allungate un po’ le cavezze per la notte, steso un po’ di strame sotto i piedi della baia, la quale era sdrucciolata due volte sui ciottoli umidi delle viottole di Grammichele, dal gran piovere che aveva fatto, e poi era andato a mettersi sulla porta dello stallatico, colle mani in tasca, a sbadigliare in faccia alla gente che era venuta per vedere il Re, e c’era tal via vai quella volta per le strade di Caltagirone che pareva la festa di San Giacomo; però stava coll’orecchio teso, e non perdeva d’occhio le sue bestie, le quali si rosicavano l’orzo adagio adagio, perché non glielo rubassero. Giusto in quel momento vennero a dirgli che il Re voleva parlargli. Veramente non era il Re che voleva parlargli, perché il Re non parla con nessuno, ma uno di coloro per bocca dei quali parla il Re, quando ha da dire qualche cosa; e gli disse che Sua Maestà desiderava la sua lettiga, l’indomani all’alba, per andare a Catania, e non voleva restare obbligato né al vescovo, né al sottointendente, ma preferiva pagar di sua tasca, come uno qualunque. Compare Cosimo avrebbe dovuto esserne contento, perché il suo mestiere era di fare il lettighiere, e proprio allora stava aspettando che venisse qualcuno a noleggiare la sua lettiga, e il Re non è di quelli che stanno a lesinare per un tarì dippiù o di meno, come tanti altri. Ma avrebbe preferito tornarsene a Grammichele colla lettiga vuota, tanto gli faceva specie di dovervi portare il Re nella lettiga, che la festa gli si cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci, e non si godette più la luminaria, né la banda che suonava in piazza, né il carro trionfale che girava per le vie, col ritratto del Re e della Regina, né la chiesa di San Giacomo tutta illuminata, che sputava fiamme, e ove c’era il Santissimo esposto, e si suonavano le campane pel Re. Anzi più grande era la festa e più gli cresceva in corpo la paura di doverci avere il Re proprio nella sua lettiga, e tutti quei razzi, quella folla, quella luminaria e quello scampanìo se li sentiva sullo stomaco, e non gli fecero chiudere occhio tutta la notte, che la passò a visitare i ferri della baia, a strigliar le mule e a rimpinzarle d’orzo sino alla gola, per metterle in vigore, come se il Re pesasse il doppio di tutti gli altri. Lo stallatico era pieno di soldati di cavalleria, con tanto di speroni ai piedi, che non se li levavano neppure per buttarsi a dormire sulle panchette, e a tutti i chiodi dei pilastri erano appese sciabole e pistole che il povero zio Cosimo pareva gli dovessero tagliare la testa con quelle, se per disgrazia una mula avesse a scivolare sui ciottoli umidi della viottola mentre portava il Re; e giusto era venuta tanta acqua dal cielo in quei giorni che la gente doveva avere addosso la rabbia di vedere il Re per mettersi in viaggio sino a Caltagirone con quel tempaccio. Per conto suo, com’è vero Dio, in quel momento avrebbe preferito trovarsi nella sua casuccia, dove le mule ci stavano strette nella stalla, ma si sentivano a rosicar l’orzo dal capezzale del letto, e avrebbe pagato quelle due onze che doveva buscarsi dal Re per trovarsi nel suo letto, coll’uscio chiuso, e stare a vedere col naso sotto le coperte, sua moglie affaccendarsi col lume in mano, a rassettare ogni cosa per la notte. All’alba lo fece saltar su da quel dormiveglia la tromba dei soldati che suonava come un gallo che sappia le ore, e metteva in rivoluzione tutto lo stallatico. I carrettieri rizzavano la testa dal basto messo per guanciale, i cani abbaiavano, e l’ostessa si affacciava dal fienile tutta sonnacchiosa, grattandosi la testa. Ancora era buio come a mezzanotte, ma la gente andava e veniva per le strade quasi fosse la notte di Natale, e i trecconi accanto al fuoco, coi lampioncini di carta dinanzi, battevano coltellacci sulle panchette per vendere il torrone. Ah, come doveva godersi la festa tutta quella gente che comprava il torrone, e si strascinava stanca e sonnacchiosa per le vie ad aspettare il Re, e come vedeva passare la lettiga colle sonagliere e le nappine di lana, spalancava gli occhi, e invidiava compare Cosimo, il quale avrebbe visto il Re sul mostaccio, mentre sino allora nessuno aveva potuto avere quella sorte, da quarantott`ore che la folla stava nelle strade notte e giorno, coll’acqua che veniva giù come Dio la mandava. La chiesa di San Giacomo sputava ancora fuoco e fiamme, in cima alla scalinata che non finiva più, aspettando il Re, per dargli il buon viaggio, e suonava con tutte le sue campane per dirgli che era ora di andarsene. Che non li spegnevano mai quei lumi? e che aveva il braccio di ferro quel sagrestano per suonare a distesa notte e giorno? Intanto nel piano di San Giacomo spuntava appena l`alba cenerognola, e la valle era tutta un mare di nebbia; eppure la folla era fitta come le mosche, col naso nel cappotto, e appena vide arrivare la lettiga voleva soffocare compare Cosimo e le sue mule, che credeva ci fosse dentro il Re. Ma il Re si fece aspettare un bel pezzo; a quell’ora forse si infilava i calzoni, o beveva il suo bicchierino d’acquavite, per risciacquarsi la gola, che compare Cosimo non ci aveva pensato nemmeno quella mattina, tanto si sentiva la gola stretta. Un’ora dopo arrivò la cavalleria, colle sciabole sfoderate, e fece far largo. Dietro la cavalleria si rovesciò un’altra ondata di gente, e poi la banda, e poi ancora dei galantuomini, e delle signore col cappellino, e il naso rosso dal freddo; e accorrevano persino i trecconi, colle panchette in testa, a piantar bottega per cercar di vendere un altro po’ di torrone; tanto che nella gran piazza non ci sarebbe entrato più uno spillo, e le mule non avrebbero nemmeno potuto scacciarsi le mosche, se non fosse stata la cavalleria a far fare largo, e per giunta la cavalleria portava un nugolo di mosche cavalline, di quelle che fanno imbizzarrire le mule di una lettiga, talché compare Cosimo si raccomandava a Dio e alle anime del Purgatorio ad ognuna che ne acchiappava sotto la pancia delle sue bestie. Finalmente si udì raddoppiare lo scampanìo, quasi le campane fossero impazzate, e i mortaletti che sparavano al Re, e arrivò correndo un’altra fiumana di gente, e si vide spuntare la carrozza del Re, la quale in mezzo la folla pareva galleggiasse sulle teste. Allora suonarono le trombe e i tamburi, e ricominciarono a sparare i mortaletti, che le mule, Dio liberi, volevano romper i finimenti e ogni cosa sparando calci; i soldati tirarono fuori le sciabole, giacché le avevano messe nel fodero un’altra volta, e la folla gridava: — La regina, la regina! È quella piccolina lì, accanto a suo marito che non par vero! — Il Re invece era un bel pezzo d’uomo, grande e grosso, coi calzoni rossi e la sciabola appesa alla pancia; e si tirava dietro il vescovo, il sindaco, il sottointendente, e un altro sciame di galantuomini coi guanti e il fazzoletto da collo bianco, e vestiti di nero che dovevano averci la tarantola nelle ossa con quel po’ di tramontana che spazzava la nebbia dal piano di San Giacomo. Il Re stavolta, prima di montare a cavallo, mentre sua moglie entrava nella lettiga, parlava con questo e con quello come se non fosse stato fatto suo, e accostandosi a compare Cosimo gli batté anche colla mano sulla spalla, e gli disse tale e quale, col suo parlare napoletano: — Bada che porti la tua regina! — che compare Cosimo si sentì rientrare le gambe nel ventre, tanto più che in quel momento si udì un grido da disperati, la folla ondeggiò come un mare di spighe, e si vide una giovinetta, vestita ancora da monaca, e pallida pallida, buttarsi ai piedi del Re, e gridare: — Grazia! — Chiedeva la grazia per suo padre, il quale si era dato le mani attorno per buttare il Re giù di sella, ed era stato condannato ad aver tagliata la testa. Il Re disse una parola ad uno che gli era vicino, e bastò perché non tagliassero la testa al padre della ragazza. Così ella se ne andò tutta contenta, che dovettero portarla via svenuta dalla consolazione. Vuol dire che il Re con una sua parola poteva far tagliare la testa a chi gli fosse piaciuto, anche a compare Cosimo se una mula della lettiga metteva un piede in fallo, e gli buttava giù la moglie, così piccina com’era. Il povero compare Cosimo aveva tutto ciò davanti agli occhi, mentre andava accanto alla baia colla mano sulla stanga, e l’abito della Madonna fra le labbra, che si raccomandava a Dio, come fosse in punto di morte, mentre tutta la carovana, col Re, la Regina e i soldati, si era messa in viaggio in mezzo alle grida e allo scampanìo, e allo sparare dei mortaletti che si udivano ancora dalla pianura; talché quando furono arrivati giù nella valle, in cima al monte si vedeva ancora la folla nera brulicare al sole come se ci fosse stata la fiera del bestiame nel piano di San Giacomo. A che gli giovava il sole e la bella giornata a compare Cosimo? se ci aveva il cuore più nero del nuvolo, e non si arrischiava di levare gli occhi dai ciottoli su cui le mule posavano le zampe come se camminassero sulle uova; né stava a guardare come venissero i seminati, né a rallegrarsi nel veder pendere i grappoli delle ulive, lungo le siepi, né pensava al gran bene che avea fatto tutta quella pioggia della settimana, ché gli batteva il cuore come un martello soltanto al pensare che il torrente poteva essere ingrossato, e dovevano passarlo a guado! Non si arrischiava a mettersi a cavalcioni sulle stanghe, come soleva fare quando non portava la sua regina, e lasciarsi cadere la testa sul petto a schiacciare un sonnellino, sotto quel bel sole e colla strada piana che le mule l’avrebbero fatta ad occhi chiusi; mentre le mule che non avevano giudizio, e non sapevano quel che portassero, si godevano la strada piana ed asciutta, il sole tiepido e la campagna verde, scondizolavano e scuotevano allegramente le sonagliere, che per poco non si mettevano a trottare, e compare Cosimo si sentiva saltare lo stomaco alla gola dalla paura soltanto al vedere mettere in brio le sue bestie, senza un pensiero al mondo né della Regina, né di nulla. La Regina, lei, badava a chiacchierare con un’altra signora che le avevano messo in lettiga per ingannare il tempo, in un linguaggio che nessuno ci capiva una maledetta; guardava la campagna cogli occhi azzurri come il fiore del lino e appoggiava allo sportello una mano così piccina che pareva fatta apposta per non aver nulla da fare; che non valeva la pena di riempire d’orzo le mule per portare quella miseria, regina tal quale era! Ma ella poteva far tagliare il collo alla gente con una sola parola, così piccola com’era, e le mule che non avevano giudizio con quel carico leggiero, e tutto quell’orzo che avevano nella pancia, provavano una gran tentazione di mettersi a saltare e ballare per la strada, e di far tagliare la testa a compare Cosimo. Sicché il poveraccio per tutta la strada non fece che recitare fra i denti paternostri e avemarie, e raccomandarsi ai suoi morti, quelli che conosceva e quelli che non conosceva, fin quando arrivarono alla Zia Lisa, che era accorsa una gran folla a vedere il Re, e davanti ad ogni bettola c’era il suo pezzo di maiale appeso e scuoiato per la festa. Come arrivò a casa sua, dopo aver consegnata la regina sana e salva, non gli pareva vero, e baciò la sponda della mangiatoia legandovi le mule; poi si mise in letto senza mangiare e senza bere, ché non voleva vedere nemmeno i danari della regina, e li avrebbe lasciati nella tasca del giubbone chissà quanto tempo, se non fosse stato per sua moglie che andò a metterli in fondo alla calza sotto il pagliericcio. Gli amici e i conoscenti, che erano curiosi di sapere come erano fatti il Re e la Regina, venivano a domandargli del viaggio, col pretesto d’informarsi se aveva acchiappato la malaria. Egli non voleva dir nulla, che gli tornava la febbre soltanto a parlarne, e il medico veniva mattina e sera, e si prese circa la metà di quei danari della regina. Solamente molti anni dopo, quando vennero a pignorargli le mule in nome del Re, perché non aveva potuto pagare il debito, compare Cosimo non si dava pace pensando che pure quelle erano le mule che gli avevano portato la moglie sana e salva, al Re, povere bestie; e allora non c’erano le strade carrozzabili, ché la Regina si sarebbe rotto il collo, se non fosse stato per la sua lettiga, e la gente diceva che il Re e la Regina erano venuti apposta in Sicilia per fare le strade, che non ce n’erano ancora, ed era una porcheria. Ma allora campavano i lettighieri, e compare Cosimo avrebbe potuto pagare il debito, e non gli avrebbero pignorato le mule, se non veniva il Re e la Regina a far le strade carrozzabili. E più tardi, quando gli presero il suo Orazio, che lo chiamavano Turco, tanto era nero e forte, per farlo artigliere, e quella povera vecchia di sua moglie piangeva come una fontana, gli tornò in mente quella ragazza ch’era venuta a buttarsi a’ piedi del Re gridando — grazia! — e il Re con una parola l’aveva mandata via contenta. Né voleva capire che il Re d’adesso era un altro, e quello vecchio l’avevano buttato giù di sella. Diceva che se fosse stato lì il Re, li avrebbe mandati via contenti, lui e sua moglie, proprio sul mostaccio, coi calzoni rossi, e la sciabola appesa alla pancia, e con una parola poteva far tagliare il collo alla gente, e mandare puranco a pignorare le mule, se uno non pagava il debito, e pigliarsi i figliuoli per soldati, come gli piaceva. Don Licciu Papa Le comari filavano al sole, e le galline razzolavano nel pattume, davanti agli usci, allorché successe un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola, che si vide comparire da lontano lo zio Masi, l’acchiappaporci, col laccio in mano; e il pollame scappava schiamazzando, come se lo conoscesse. Lo zio Masi si buscava dal municipio 50 centesimi per le galline, e 3 lire per ogni maiale che sorprendeva in contravvenzione. Egli preferiva i maiali. E come vide la porcellina di comare Santa, stesa tranquillamente col muso nel brago, di contro all’uscio, gli gittò al collo il nodo scorsoio. — Ah! Madonna santissima! Cosa fate, zio Masi! — gridava la zia Santa, pallida come una morta. Per carità, zio Masi, non mi acchiappate la multa, che mi rovinate! — Lo zio Masi, il traditore, per pigliarsi il tempo di caricarsi la maialina sulle spalle, le sballava di belle parole: — Sorella mia, che posso farvi? Questo è l’ordine del sindaco. Maiali per le strade non ne vuole più. Se vi lascio la porcellina perdo il pane —. La zia Santa gli correva dietro come una pazza, colle mani nei capelli, strillando sempre: — Ah! zio Masi! non lo sapete che mi è costata 14 tarì a San Giovanni, e la tengo come la pupilla degli occhi miei! Lasciatemi la maialina, zio Masi, per l’anima dei vostri morti! Che all’anno nuovo, coll’aiuto di Dio, vale due onze! — Lo zio Masi, zitto, a capo chino, col cuore più duro di un sasso, badava solo dove metteva i piedi, per non isdrucciolare nella mota, colla maialina di traverso sulle spalle, che grugniva rivolta al cielo. Allora la zia Santa, disperata, per salvare la porcellina, gli assestò un solenne calcio nella schiena, e lo fece andare ruzzoloni. Le comari, appena videro l’acchiappaporci in mezzo al fango, gli furono addosso colle rocche e colle ciabatte, e volevano fargli la festa per tutti i porci e le galline che aveva sulla coscienza. Ma in questa accorse don Licciu Papa, colla tracolla dello sciabolotto attraverso la pancia, gridando da lontano come un ossesso, fuori tiro delle rocche: — largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! — La Giustizia condannò comare Santa alla multa ed alle spese, e per ischivare la prigione dovettero anche ricorrere alla protezione del barone, il quale aveva la finestra di cucina lì di faccia nella stradicciuola, e la salvò per miracolo, facendo vedere alla Giustizia che non era il caso di ribellione, perché l’acchiappaporci quel giorno non aveva il berretto col gallone del municipio. Vedete! — esclamarono in coro le donne. — Ci vogliono i santi per entrare in Paradiso! Questa del berretto nessuno la sapeva! — Però il barone aggiunse il predicozzo: — Quei porci e quelle galline bisognava spazzarli via dal vicinato; il sindaco aveva ragione, ché sembrava un porcile —. D’allora in poi, ogni volta che il servo del barone buttava la spazzatura sul capo alle vicine, nessuna mormorava. Soltanto si dolevano che le galline chiuse in casa, per scansare la multa, non fossero più buone chiocce, e i maiali, legati per un piede accanto al letto, parevano tante anime del purgatorio. — Almeno prima la spazzavano loro la stradicciuola. — Tutto quel concime sarebbe tant’oro per la chiusa dei Grilli! — sospirava massaro Vito. — Se avessi ancora la mula baia, spazzerei la strada colle mie mani —. Anche qui c’entrava don Licciu Papa. Egli era venuto a pignorare la mula coll’usciere, che dall’usciere solo massaro Vito non se la sarebbe lasciata portar via dalla stalla, nemmen se l’ammazzavano, e gli avrebbe piuttosto mangiato il naso come il pane. Lì, davanti al giudice, seduto al tavolino, che pareva Ponzio Pilato, quando massaro Venerando l’aveva citato per riscuotere il credito della mezzeria, non seppe che rispondere. La chiusa dei Grilli era buona soltanto per far grilli; il minchione era lui, se era tornato dalla mèsse a mani vuote, e massaro Venerando aveva ragione di voler esser pagato, senza tante chiacchiere e tante dilazioni, perciò aveva portato l’avvocato, che parlava per lui. Ma com’ebbe finito, e massaro Venerando se ne andava lieto, dondolandosi dentro gli stivaloni come un’anitra ingrassata, non poté stare di domandare al cancelliere se era vero che gli vendevano la mula. — Silenzio! — interruppe il giudice che si soffiava il naso, prima di passare a un altro affare. Don Licciu Papa si sveglò di soprassalto sulla panchetta, e gridò: — Silenzio! — Se foste venuto coll’avvocato, vi lasciavano parlare ancora, — gli disse compare Orazio per confortarlo. Sulla piazza, dinanzi agli scalini del municipio, il banditore gli vendeva la mula. — Quindici onze la mula dicompare Vito Gnirri! Quindici onze una bella mula baia! Quindici onze! — Compare Vito, seduto sugli scalini, col mento fra le mani, non voleva dir nulla che la mula era vecchia, ed era più di 16 anni che gli lavorava. Essa stava lì contenta come una sposa, colla cavezza nuova. Ma appena gliela portaron via davvero, ei perse la testa, pensando che quell’usuraio di massaro Venerando gli acchiappava 15 onze per una sola annata di mezzeria, che tanto non ci valeva la chiusa dei Grilli, e senza la mula ormai non poteva più lavorare la chiusa, e all’anno nuovo si sarebbe trovato di nuovo col debito sulle spalle. Ei si mise a gridare come un disperato sul naso a massaro Venerando. — Cosa mi farete pignorare, quando non avrò più nulla? anticristo che siete! — E voleva levargli il battesimo dalla testa, se non fosse stato per don Licciu Papa lì presente, collo sciabolotto e il berretto gallonato, il quale si mise a gridare tirandosi indietro: — Fermo alla Giustizia! — Fermo alla Giustizia! — Che Giustizia! — strillava compare Vito tornando a casa colla cavezza in mano. — La Giustizia è fatta per quelli che hanno da spendere —. Questo lo sapeva anche curatolo Arcangelo, che quando era stato in causa col Reverendo per via della casuccia, perché il Reverendo voleva comprargliela per forza, tutti gli dicevano: — Che siete matto a pigliarvela col Reverendo? È la storia della brocca contro il sasso! Il Reverendo coi suoi denari si affitta la meglio lingua d’avvocato, e vi riduce povero e pazzo —. Il Reverendo, dacché s’era fatto ricco, aveva ingrandito la casuccia paterna, di qua e di là, come fa il porcospino che si gonfia per scacciare i vicini dalla tana. Ora aveva slargata la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra in uscio. — Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare! Bisogna che siate ragionevole —. Compare Arcangelo non lo era punto, e si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato. Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo conoscevano, e se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti che sotto forma di quell’usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri. — Va bene, va bene, — rispondeva fra di sé il Reverendo. — Teste di villani! Bisogna farci entrare la ragione per forza —. E dalla finestra del Reverendo piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci di stoviglie, sassi, acqua sporca; e riducevano il cantuccio dov’era il letto peggio di un porcile. Se curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più forte di lui. — Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale? Non era padrone d’inaffiare i suoi fiori? Curatolo Arcangelo aveva la testa dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla Giustizia. Vennero il giudice, il cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo era padrone d’inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e il Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la Giustizia, e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle. Il giudice stesso non poteva passare il tempo a far la guardia al tetto di curatolo Arcangelo, o ad andare e venire dalla straduccia; ogni sua visita costava cara. Restava la quistione di sapere se la finestra del Reverendo doveva essere coll’inferriata o senza inferriata, e il giudice, e il cancelliere, e tutti, guardavano cogli occhiali sul naso, e pigliavano misure che pareva un tetto di barone, quel tettuccio piatto e ammuffato. E il Reverendo tirò pure fuori certi diritti vecchi per la finestra senza inferriata, e per alcune tegole che sporgevano sul tetto, che non ci si capiva più nulla, e il povero curatolo Arcangelo guardava in aria anche lui, per capacitarsi che colpa avesse il suo tetto. Ei ci perse il sonno della notte e il riso della bocca; si dissanguava a spese, e doveva lasciare la mandra in custodia del ragazzo per correre dietro al giudice e all’usciere. Per giunta le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi dell’inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava colla Chiesa, dicevano. — E voi pigliatevi la casa, — disse infine al Reverendo, che dopo tante liti e tante spese non gliene avanzava il danaro da comprarsi la corda per impiccarsi a un travicello. Voleva mettersi in collo la sua bisaccia e andarsene colla figliola a stare colle pecore, ché quella maledetta casa non voleva vederla più, finché era al mondo. Ma allora uscì in campo il barone, l’altro vicino, il quale ci aveva anche lui delle finestre e delle tegole sul tetto di curatolo Arcangelo, e giacché il Reverendo voleva fabbricarsi la cucina, egli aveva pure bisogno di allargare la dispensa, sicché il povero capraio non sapeva più di chi fosse la sua casa. Ma il Reverendo trovò il modo di aggiustare la lite col barone, dividendosi da buoni amici fra di loro la casa di curatolo Arcangelo, e poiché costui ci aveva anche quest’altra servitù, gli ridusse il prezzo di un buon quarto. Nina, la figlia di curatolo Arcangelo, come dovevano lasciare la casa e andarsene via dal paese, non finiva di piangere, quasi ci avesse avuto il cuore attaccato a quei muri e a quei chiodi delle pareti. Suo padre, poveraccio, tentava di consolarla come meglio poteva, dicendole che laggiù, nelle grotte del Carramone, ci si stava da principi, senza vicini e senza acchiappaporci. Ma le comari, che sapevano tutta la storia, si strizzavano l’occhio fra di loro borbottando: — Al Carramone il signorino non potrà più andarla a trovare, di sera, quando compare Arcangelo è colle sue pecore. Per questo la Nina piange come una fontana —. Come lo seppe compare Arcangelo cominciò a bestemmiare e a gridare: — Scellerata! adesso con chi vuoi che ti mariti? — Ma la Nina non pensava a maritarsi. Voleva soltanto continuare a stare dov’era il signorino, che lo vedeva tutti i giorni alla finestra, appena si alzava, e gli faceva segno se poteva andare a trovarla la sera. In tal modo la Nina c’era cascata, col veder tutti i giorni alla finestra il signorino, che dapprincipio le rideva, e le mandava i baci e il fumo della pipa, e le vicine schiattavano d’invidia. Poscia a poco a poco era venuto l’amore, talché adesso la ragazza non ci vedeva più dagli occhi, e aveva detto chiaro e tondo a suo padre: — Voi andatevene dove volete, che io me ne sto qui dove sono —. E il signorino le aveva promesso che la campava lui. Curatolo Arcangelo di quel pane non ne mangiava, e voleva chiamare don Licciu Papa per condur via a forza la figliuola. — Almeno quando saremo via di qui, nessuno saprà le nostre disgrazie, — diceva. Ma il giudice gli rispose che la Nina aveva già gli anni del giudizio, ed era padrona di fare quel che gli pareva e piaceva. — Ah! È padrona? — borbottava curatolo Arcangelo. — Anch’io son padrone! — E appena incontrò il signorino, che gli fumava sul naso, gli spaccò la testa come una noce con una legnata. Dopo che l’ebbero legato ben bene, accorse don Licciu Papa, gridando: — Largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! — Davanti alla Giustizia gli diedero anche un avvocato, per difendersi. — Almeno stavolta la Giustizia non mi costa nulla; — diceva compare Arcangelo. E fu meglio per lui. L’avvocato riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che curatolo Arcangelo non l’aveva fatto apposta, di cercare d’ammazzare il signorino, con un randello di pero selvatico, ch’era del suo mestiere, e se ne serviva per darlo sulle corna ai montoni quando non volevano intender ragione. Così fu condannato soltanto a 5 anni, la Nina rimase col signorino, il barone allargò la sua dispensa, e il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella vecchia di curatolo Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi. Il mistero Questa, ogni volta che tornava a contarla, gli venivano i lucciconi allo zio Giovanni, che non pareva vero, su quella faccia di sbirro. Il teatro l’avevano piantato nella piazzetta della chiesa: mortella, quercioli, ed anche rami interi d’ulivo, colla fronda, tal quale, ché nessuno si era rifiutato a lasciar pigliare la sua roba pel Sacro Mistero. Lo zio Memmu, al vedere nella sua chiusa il sagrestano a stroncare e scavezzare rami interi, si sentiva quei colpi di scure nello stomaco, e gli gridava da lontano: — Che non siete cristiano, compare Calogero? o non ve l’ha messo il prete l’olio santo, per dare così senza pietà su quell’ulivastro? — Ma sua moglie, pur colle lagrime agli acchi, andava calmandolo: — È pel Mistero; lascialo fare. Il Signore ci manderà la buon’annata. Non vedi quel seminato che muore di sete? — Tutto giallo, del verde—giallo che hanno i bambini malati, poveretto! sulla terra bianca e dura come una crosta, che se lo mangiava, e vi faceva venire l’arsura in gola al solo vederlo. — Questa è tutta opera di don Angelino, brontolava il marito, per farsi la provvista della legna, e chiapparsi i soldi della limosina —. Don Angelino, il pievano, aveva lavorato otto giorni come un facchino, col sagrestano, a scavar buche, rincalzar pali, appendere lampioncini di carta rossa, e sciorinare in fondo il cortinaggio nuovo di massaro Nunzio, che si era maritato allora allora, e faceva un ben vedere nel bosco e coi lampioni davanti. Il Mistero rappresentava la Fuga in Egitto, e la parte di Maria Santissima l’avevano data a compare Nanni, che era piccolo di statura, e si era fatta radere la barba apposta. Appena compariva, portando in collo Gesù Bambino, ch’era il figlio di comare Menica, e diceva ai ladri: «Ecco il mio sangue!» la gente si picchiava il petto coi sassi, e si mettevano a gridare tutti in una volta: — Miseremini mei, Vergine Santa! — Ma Janu e mastro Cola, che erano i ladri, colle barbe finte di pelle d’agnello, non davano retta, e volevano rapirle il Sacro Figlio per portarlo ad Erode. Quelli aveva saputo sceglierli il pievano, da fare i ladri! Veri cuori di sasso erano! ché il Pinto, nella lite che aveva con compare Janu pel fico dell’orto, gli rinfacciava d’allora in poi: — Voi siete il ladro della Fuga in Egitto! — Don Angelino, collo scartafaccio in mano, badava a ripetere dietro il tendone di massaro Nunzio: «Vano, o donna, è il pregar; pietà non sento! — Pietà non sento!» — Tocca a voi, compare Janu —; ché quei due furfanti avevano persino dimenticata la parte, tal razza di gente erano! Maria Vergine aveva un bel pregare e scongiurarli, ché nella folla borbottavano: — Compare Nanni fa il minchione perché è vestito da Maria Santissima. Se no li infilerebbe tutti e due col coltello a serramanico che ci ha in tasca —. Ma come entrò in scena San Giuseppe, con quella barba bianca di bambagia, il quale andava cercando la sua sposa in mezzo al bosco che gli arrivava al petto, la folla non sapeva più star ferma, perché ladri, Madonna, e San Giuseppe avrebbero potuto acchiapparsi colle mani, se il Mistero non fosse stato che dovevano corrersi dietro senza raggiungersi. Qui stava il miracolo — Se i malandrini arrivavano ad acchiappare la Madonna e San Giuseppe, tutti insieme, ne facevano tonnina, ed anche del bambino Gesù, Dio liberi! Comare Filippa, la quale ci aveva il marito in galera per avere ammazzato a colpi di zappa il vicino della vigna, quello che gli rubava i fichidindia, piangeva come una fontana, al vedere San Giuseppe inseguìto dai ladri peggio di un coniglio, e pensava a suo marito, quando gli era arrivato alla capannuccia della vigna tutto trafelato, coi gendarmi alle calcagna, e gli aveva detto: — Dammi un sorso d’acqua. Non ne posso più! — Poi l’avevano ammanettato come Gesù all’orto, e l’avevano chiuso nella stia di ferro, per fargli il processo, col berretto fra le mani, e i capelli divenuti per intero una boscaglia grigia in tanti mesi di prigione — l’aveva ancora negli occhi — che ascoltava i giudici e i testimoni con quella faccia gialla di carcerato. E quando se l’erano portato via per mare, che non ci era mai stato, il poveretto, colla sporta in spalla, e legato coi compagni di galera, a resta come le cipolle, egli si era voltato a guardarla per l’ultima volta con quella faccia, finché non la vide più, ché dal mare non torna nessuno, e non se ne seppe più nulla. — Voi lo sapete dove egli sia adesso, Madre Addolorata! — biascicava la vedova del vivo inginocchiata sulle calcagna, pregando pel poveretto, che gli pareva di vederlo, là, lontano, nel nero. Ella sola poteva sapere che razza di angoscia doveva esserci nel cuore della Madonna, in quel momento che i ladri erano lì lì per agguantare San Giuseppe pel mantello. — Ora state a vedere l’incontro del patriarca San Giuseppe coi malandrini! — diceva don Angelino asciugandosi il sudore col fazzoletto da naso. E Trippa, il macellaio, picchiava sulla grancassa — zum! zum! zum! — per far capire che i ladri si accapigliavano con San Giuseppe. Le comari si misero a strillare, e gli altri raccattavano dei sassi, per rompere il grugno a quei due birbanti di Janu e di compare Cola, gridando: — Lasciate stare il patriarca San Giuseppe! sbirri che siete! — E massaro Nunzio, per amore del cortinaggio, gridava anche lui che non glielo sfondassero. Don Angelino allora affacciò la testa dalla sua tana, colla barba lunga di otto giorni, affannandosi a calmarli colle mani e colle parole: — Lasciateli fare! lasciateli fare! Cosi è scritto nella parte —. Bella parte che aveva scritto! e diceva pure che era tutta roba di sua invenzione. Già lui avrebbe messo Cristo in croce colle sue mani per chiappargli i tre tarì della messa. O compare Rocco, un padre di cinque figli, non l’aveva fatto seppellire senza uno straccio di mortorio, perché non poteva spillargli nulla? — là, sotto la pietra della chiesa, di sera, al buio, che non ci si vedeva a calarlo giù nella sepoltura, per l’eternità. — E allo zio Menico non aveva espropriata la casuccia, perché era fabbricata sulla sciara della chiesa, e ci pesava addosso un censo di due tarì all’anno che lo zio Menico non era riescito a pagar mai? Allorché aveva fabbricato la casuccia, tutto contento, trasportando i sassi colle sue mani, non gli passava per la testa che un giorno o l’altro il pievano glie la avrebbe fatta vendere per quei due tarì del censo. Due tarì all’anno infine cosa sono? Il difficile era di metterli insieme tutti e due alla scadenza, e don Angelino gli rispondeva, stringendosi nelle spalle: — Cosa posso farci, fratel mio? Non è roba mia; è roba della Chiesa —. Tale e quale come mastro Calogero, il sagrestano, il quale ripeteva: — Altare servi, altare ti dà pane — diceva lui. Adesso s’era appeso alla fune del campanile e suonava a tutto andare, mentre Trippa batteva sulla gran cassa, e le donne vociferavano: — Miracolo! Miracolo! — Qui lo zio Giovanni sentivasi rizzare in capo i vecchi peli, al rammentare. Giusto un anno dopo, giorno per giorno, la vigilia del venerdì santo, Nanni e mastro Cola s’incontrarono in quello stesso luogo, di notte, che c’era la luna di Pasqua, e ci si vedeva chiaro come di giorno nella piazzetta. Nanni stava appiattato dietro il campanile, per sorprendere chi andasse da comare Venera, ché due o tre volte l’aveva sorpresa tutta sossopra e discinta, e aveva sentito qualcuno sgattaiolarsela dal cancello dell’orto. — Chi c’era qui con te? È meglio dirmelo. Se vuoi bene ad un altro, io me ne vado via, e buona notte ai suonatori. Ma sai, quelle cose in testa non voglio portarle! — Ella protestava che non era vero, giurava per l’anima di suo marito, e chiamava a testimoni il Signore e la Madonna appesi a capo del letto, e baciava colle mani in croce quella medesima sottana di cotonina celeste che aveva imprestato a compare Nanni per fare la Maria. — Pensaci! pensaci bene a quello che mi dici! — Egli non sapeva che la Venera s’era incapricciata di mastro Cola quando l’aveva visto a fare il ladro del Mistero colla barba di pelle d’agnello. — Or bene, — pensò allora — qui bisogna mettersi alla posta del coniglio come il cacciatore, per accertarsi della cosa cogli occhi propri —. La donna aveva detto all’altro: — Guardatevi di compare Nanni. Egli ci ha in testa qualche cosa, al modo che mi guarda, e come fruga per la casa ogni volta che arriva! — Cola aveva la madre sulle spalle, che campava del suo lavoro, e non s’arrischiava più di andare da comare Venera; — un giorno, due, tre, finché il diavolo lo tentò colla luna che trapelava sino al letto dalle fessure delle imposte, e gli metteva dinanzi agli occhi ad ogni momento la stradicciuola deserta, e l’uscio della vedova, allo svoltare della piazzetta di faccia al campanile. Nanni aspettava, nell’ombra, solo in mezzo alla piazza tutta bianca di luna, e in un silenzio che si udiva suonare ogni quarto d’ora l’orologio di Viagrande, e il trotterellare dei cani che andavano fiutando ad ogni cantuccio e frugavano col muso nella spazzatura. Infine si udì una pedata, rasente i muri, fermarsi all’uscio della Venera, e bussar piano, una, due volte, e poi più lieve ed in fretta, come uno che gli batte il cuore dal desiderio e dalla paura, e Nanni si sentiva picchiare anche lui dentro il petto quei colpi. Poi l’uscio si schiuse, adagio adagio, con uno spiraglio più nero dell’ombra, e si udì una schioppettata. Mastro Cola cadde gridando: — Mamma mia! m’ammazzarono! — Nessuno udì né vide nulla, per timore della giustizia; la stessa comare Venera disse che dormiva. Soltanto la madre, all’udir la schioppettata, si sentì colpita nelle viscere, e corse come si trovava, a raccattare Cola dall’uscio della vedova, gridando — Figlio mio! figlio mio! — I vicini si affacciarono coi lumi, e solo rimaneva chiuso quell’uscio contro il quale la madre disperata imprecava così: — Scellerata! scellerata! Mi hai assassinato il figliuolo! — La madre, ginocchioni accanto al letto del ferito, pregava Dio, giungendo le mani forte forte, cogli occhi asciutti che sembrava una pazza: — Signore! Signore! Mio figlio, Signore! — Ah! che mala Pasqua le aveva dato il Signore! Giusto il venerdì santo, mentre passava la processione, col tamburo e don Angelino incoronato di spine! Ah! che nero faceva in quella casa! e dall’uscio aperto si vedeva il sole, e i seminati belli, ché la gente quella volta non aveva avuto bisogno di pregare Dio per la buona annata, e lasciava solo don Angelino a battersi le spalle colla disciplina; anzi quando il sagrestano era andato a far legna col pretesto del Mistero, l’avevano minacciato di rompergli le gambe a sassate, se non andava via lesto. — Nella sua casa solo si piangeva! ora che tutti erano contenti! Nella sua casa sola! Buttata lì davanti a quel lettuccio come un sacco di cenci, disfatta, diventata decrepita tutta in una volta, coi capelli grigi, pendenti di qua e di là della faccia. E non udiva nessuno della gente che riempiva la stanza per curiosità. Non vedeva altro che quegli occhi appannati del figliuolo e quel naso affilato. Gli avevano chiamato il medico; ci avevano condotta comare Barbara, quella della buona ventura, e la povera madre s’era levati di bocca tre tarì per fargli dire una messa da don Angelino. Il medico scrollava il capo. — Qui ci vuol altro che la messa di don Angelino; — dicevano le comari — qui ci vorrebbe il cotone benedetto di fra’ Sanzio l’eremita, oppure la candela della Madonna di Valverde, che fa miracoli dappertutto —. Il ferito, col cotone benedetto sullo stomaco, e la candela davanti alla faccia gialla, spalancava gli occhi appannati, guardando i vicini ad uno ad uno, e cercava di sorridere alla mamma, colle labbra pallide, per farle intendere che si sentiva meglio davvero, con quel cotone miracoloso sullo stomaco. Egli accennava di sì col capo, con quel sorriso tanto triste dei moribondi che dicono di star meglio. Il medico invece diceva di no; che non avrebbe passato la notte. E don Angelino, per non screditare la mercanzia, ripeteva: — Ci vuole la fede per fare i miracoli. Se non c’è la fede è come lavare la testa all’asino. I santi, le reliquie, il cotone benedetto, tutte belle cose quando si ha la fede —. La povera madre ne aveva tanta della fede, che parlava a tu per tu coi Santi e la Madonna, e diceva alla candela benedetta, presto presto e coi denti stretti: — Signore! Signore! Voi me la farete la grazia! Voi mi lascerete il mio figliuolo. Signore! — E il figliuolo ascoltava, intento, cogli occhi fissi sulla candela, e cercava di sorridere, e dire di sì col capo anche lui. Tutto il villaggio impazzì a strologare i numeri di quel fatto: ma chi ci vinse l’ambo fu solo la gnà Venera. Anzi ci avrebbe preso il terno se ci metteva anche il sangue che si era trovato nella piazzetta, poiché mastro Cola annaspando e barcollando era andato a cascare giusto nel punto dove l’anno prima aveva fatto il ladro del Mistero. Però la gnà Venera dovette spatriare dal paese, perché nessuno gli comperava più il pane del panchetto, e la chiamavano «la scomunicata». Compare Nanni, anche lui durò un pezzo a scappare di qua e di là, per le sciare e le chiuse, ma alla prima fame dell’inverno lo avevano acchiappato di notte vicino alle prime case del paese, dove aspettava il ragazzo che soleva portargli il pane di nascosto. Gli fecero il processo e se lo portarono di là del mare, col marito di comare Filippa. Anche lui, se non avesse pensato di mettersi la gonnella della «scomunicata» per fare la Beata Vergine!


Malaria



E’ vi par di toccarla colle mani — come dalla terra grassa che fumi, là, dappertutto, torno torno alle montagne che la chiudono, da Agnone al Mongibello incappucciato di neve — stagnante nella pianura, a guisa dell’afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l’estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandra, nel gran silenzio, volan via le cutrettole, silenziose, e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all’ombra dei giunchi secchi. È che la malaria v’entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all’ambio, colla testa bassa. Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle. Laggiù, nella pianura, le case sono rare e di aspetto malinconico, lungo le strade mangiate dal sole, fra due mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie crollanti, dove aspettano coll’occhio spento, legati alla mangiatoia vuota, i cavalli di ricambio. — O sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell’osteria appesa all’uscio, le grandi stanzucce vuote, e l’oste che sonnecchia accoccolato sul limitare, colla testa stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna deserta, se arriva un passeggiero assetato. — Oppure come cassette di legno bianco, impennacchiate da quattro eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia che taglia in due la pianura come un colpo d’accetta, dove vola la macchina fischiando al pari di un vento d’autunno, e la notte corruscano scintille infuocate. — O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un pilastrino appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte sconquassate, dinanzi all’aia screpolata, all’ombra delle alte biche di paglia dove dormono le galline colla testa sotto l’ala, e l’asino lascia cascare il capo, colla bocca ancora piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e abbaia roco al sasso che si stacca dall’intonaco, alla lucertola che striscia, alla foglia che si muove nella campagna inerte. La sera, appena cade il sole, si affacciano sull’uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellaccio di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e stirandosi le braccia; e donne seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e disfatti, che non si sa come si faranno grandi e neri, e come ruzzeranno sull’erba quando tornerà l’inverno, e l’aia diverrà verde un’altra volta, e il cielo azzurro e tutt’intorno la campagna ridera al sole. E non si sa neppure dove stia e perché ci stia tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole solitarie, circondate dalle siepi dei fichidindia, a dieci miglia in giro, sin dove si ode squillare la campanella fessa nella pianura che non finisce mai. Però dov’è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il Signore ha detto: «Il pane che si mangia bisogna sudarlo». Come il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non c’è più bisogno di solfato né di decotto d’eucalipto, lo si carica sulla carretta del fieno, o attraverso il basto dell’asino, o su di una scala, come si può, con un sacco sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria, sotto i fichidindia spinosi di cui nessuno perciò mangia i frutti. Le donne piangono in crocchio, e gli uomini stanno a guardare, fumando. Così s’erano portato il camparo di Valsavoia, che si chiamava massaro Croce, ed erano trent’anni che inghiottiva solfato e decotto d’eucalipto. In primavera stava meglio, ma d’autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa, e non si faceva più vedere sull’uscio che ogni due giorni; tanto che si era ridotto pelle ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo chiamavano il Rospo anche pel suo fare rozzo e selvatico, e perché gli erano diventati gli occhi smorti e a fior di testa. Egli diceva sempre prima di morire: — Non temete, che pei miei figli il padrone ci penserà! — E con quegli occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno coloro che gli stavano attorno al letto, l’ultima sera, e gli mettevano la candela sotto il naso. Lo zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato duro come un sasso e pesante un rotolo e mezzo. Qualcuno aggiungeva pure: — Adesso se ne impipa! ché s’é ingrassato e fatto ricco a spese del padrone, e i suoi figli non hanno bisogno di nessuno! Credete che l’abbia preso soltanto pei begli occhi del padrone tutto quel solfato e tutta quella malaria per trent’anni? — Compare Carmine, l’oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt’e cinque, l’un dopo l’altro, tre maschi e due femmine. Pazienza le femmine! Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi, nell’età di guadagnarsi il pane. Oramai egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino e si metteva ad ammanire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare l’appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: — Tè! mangia! — Il resto lo pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in città. — Il lago vi dà e il lago vi piglia! — Gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine. — Che volete farci, fratel mio? — Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo che abbia fame e freddo. In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti. Ma a poco a poco andavano assottigliandosi così che la madre divenne curva come un gancio dai crepacuori, e il padre che era grosso e grasso, stava sempre sull’uscio, onde non vedere quelle stanzacce vuote, dove prima cantavano e lavoravano i suoi ragazzi. L’ultimo rimasto non voleva morire assolutamente, e piangeva e si disperava allorché lo coglieva la febbre, e persino andò a buttarsi nel lago dalla paura della morte. Ma il padre che sapeva nuotare lo ripescò, e lo sgridava che quel bagno freddo gli avrebbe fatto tornare la febbre peggio di prima. — Ah! — singhiozzava il giovanetto colle mani nei capelli, — per me non c’è più speranza! per me non c’è più speranza! — Tutto sua sorella Agata, che non voleva morire perché era sposa! — osservava compare Carmine di faccia a sua moglie, seduta accanto al letto; e lei, che non piangeva più da un pezzo, confermava col capo, curva al pari di un gancio. Lei, ridotta a quel modo, e suo marito grasso e grosso avevano il cuoio duro, e rimasero soli a guardar la casa. La malaria non ce l’ha contro di tutti. Alle volte uno vi campa cent’anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né arte né parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti lo conoscevano a quaranta miglia intorno, siccome andava da una fattoria all’altra, aiutando a governare i buoi, a trasportare il concime, a scorticare le bestie morte, a fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un tozzo di pane; dormiva nei fossati, sul ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto le tettoie degli stallazzi; e viveva di carità, errando come un cane senza padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande tenuti insieme da una funicella sulle gambe magre e nere; e andava cantando a squarciagola sotto il sole che gli martellava sulla testa nuda, giallo come lo zafferano. Egli non prendeva più né solfato, né medicine, né pigliava le febbri. Cento volte l’avevano raccolto disteso, quasi fosse morto, attraverso la strada; infine la malaria l’aveva lasciato, perché non sapeva più che farsene di lui. Dopo che gli aveva mangiato il cervello e la polpa delle gambe, e gli era entrata tutta nella pancia gonfia come un otre, l’aveva lasciato contento come una pasqua, a cantare al sole meglio di un grillo. Di preferenza lo scimunito soleva stare dinanzi lo stallatico di Valsavoia, perché ci passava della gente, ed egli correva loro dietro per delle miglia, gridando, uuh! uuh! finché gli buttavano due centesimi. L’oste gli prendeva i centesimi e lo teneva a dormire sotto la tettoria, sullo strame dei cavalli, che quando si tiravano dei calci, Cirino correva a svegliare il padrone gridando uuh! e la mattina li strigliava e li governava. Più tardi era stato attratto dalla ferrovia che costrussero lì vicino. I vetturali e i viandanti erano diventati più rari sulla strada, e lo scimunito non sapeva che pensare, guardando in aria delle ore le rondini che volavano, e batteva le palpebre al sole per capacitarsene. La prima volta, al vedere tutta quella gente insaccata nei carrozzoni che passavano dalla stazione, parve che indovinasse. E d’allora in poi ogni giorno aspettava il treno, senza sbagliare di un minuto, quasi avesse l’orologio in testa; e mentre gli fuggiva dinanzi, gettandogli contro la faccia il fumo e lo strepito, egli si dava a corrergli dietro, colle braccia in aria, urlando in tuono di collera e di minaccia: uuh! uuh!... L’oste, anche lui, ogni volta che da lontano vedeva passare il treno sbuffante nella malaria, non diceva nulla, ma gli sputava contro il fatto suo scrollando il capo, davanti alla tettoia deserta e ai boccali vuoti. Prima gli affari andavano così bene che egli aveva preso quattro mogli, l’una dopo l’altra, tanto che lo chiamavano «Ammazzamogli» e dicevano che ci aveva fatto il callo, e tirava a pigliarsi la quinta, se la figlia di massaro Turi Oricchiazza non gli faceva rispondere: — Dio ne liberi! nemmeno se fosse d’oro, quel cristiano! Ei si mangia il prossimo suo come un coccodrillo! — Ma non era vero che ci avesse fatto il callo, perché quando gli era morta comare Santa, ed era la terza, egli sino all’ora di colazione non ci aveva messo un boccone di pane in bocca, né un sorso d’acqua, e piangeva per davvero dietro il banco dell’osteria. — Stavolta voglio pigliarmi una che è avvezza alla malaria — aveva detto dopo quel fatto. — Non voglio più soffrirne di questi dispiaceri —. Le mogli gliele ammazzava la malaria, ad una ad una, ma lui lo lasciava tal quale, vecchio e grinzoso, che non avreste immaginato come quell’uomo lì ci avesse anche lui il suo bravo omicidio sulle spalle, quantunque tirasse a prendere la quarta moglie. Pure la moglie ogni volta la cercava giovane e appetitosa, ché senza moglie l’osteria non può andare, e per questo gli avventori s’erano diradati. Ora non restava altri che compare Mommu, il cantoniere della ferrovia lì vicino, un uomo che non parlava mai, e veniva a bere il suo bicchiere fra un treno e l’altro, mettendosi a sedere sulla panchetta accanto all’uscio, colle scarpe in mano, per lasciare riposare i piedi. — Questi qui non li coglie la malaria! — pensava «Ammazzamogli» senza aprir bocca nemmeno lui, ché se la malaria li avesse fatti cadere come le mosche non ci sarebbe stato chi facesse andare quella ferrovia là. Il poveraccio, dacché s’era levato dinanzi agli occhi il solo uomo che gli avvelenava l’esistenza, non ci aveva più che due nemici al mondo: la ferrovia che gli rubava gli avventori, e la malaria che gli portava via le mogli. Tutti gli altri nella pianura, sin dove arrivavano gli occhi, provavano un momento di contentezza, anche se nel lettuccio ci avevano qualcuno che se ne andava a poco a poco, o se la febbre li abbatteva sull’uscio, col fazzoletto in testa e il tabarro addosso. Si ricreavano guardando il seminato che veniva su prosperoso e verde come il velluto, o le biade che ondeggiavano al par di un mare, e ascoltavano la cantilena lunga dei mietitori, distesi come una fila di soldati, e in ogni viottolo si udiva la cornamusa, dietro la quale arrivavano dalla Calabria degli sciami di contadini per la messe, polverosi, curvi sotto la bisaccia pesante, gli uomini avanti e le donne in coda, zoppicanti e guardando la strada che si allungava con la faccia arsa e stanca. E sull’orlo di ogni fossato, dietro ogni macchia d’aloe, nell’ora in cui cala la sera come un velo grigio, fischiava lo zufolo del guardiano, in mezzo alle spighe mature che tacevano, immobili al cascare del vento, invase anch’esse dal silenzio della notte. — Ecco! — pensava «Ammazzamogli». — Tutta quella gente là se fa tanto di non lasciarci la pelle e di tornare a casa, ci torna con dei denari in tasca —. Ma lui no! lui non aspettava né la raccolta né altro, e non aveva animo di cantare. La sera calava tanto triste, nello stallazzo vuoto e nell’osteria buia. A quell’ora il treno passava da lontano fischiando, e compare Mommu stava accanto al suo casotto colla bandieruola in mano; ma fin lassù, dopo che il treno era svanito nelle tenebre, si udiva Cirino lo scimunito che gli correva dietro urlando, uuh!... E «Ammazzamogli» sulla porta dell’osteria buia e deserta pensava che per quelli lì la malaria non ci era. Infine quando non poté pagar più l’affitto dell’osteria e dello stallazzo, il padrone lo mandò via dopo 57 anni che c’era stato, e «Ammazzamogli» si ridusse a cercar impiego nella ferrovia anche lui, e a tenere in mano la bandieruola quando passava il treno. Allora stanco di correre tutto il giorno su e giù lungo le rotaie, rifinito dagli anni e dai malanni, vedeva passare due volte al giorno la lunga fila dei carrozzoni stipati di gente; le allegre brigate di cacciatori che si sparpagliavano per la pianura; alle volte un contadinello che suonava l’organetto a capo chino, rincantucciato su di una panchetta di terza classe; le belle signore che affacciavano allo sportello il capo avvolto nel velo; l’argento e l’acciaio brunito dei sacchi e delle borse da viaggio che luccicavano sotto i lampioni smerigliati; le alte spalliere imbottite e coperte di trina. Ah, come si doveva viaggiar bene lì dentro, schiacciando un sonnellino! Sembrava che un pezzo di città sfilasse lì davanti, colla luminaria delle strade, e le botteghe sfavillanti. Poi il treno si perdeva nella vasta nebbia della sera, e il poveraccio, cavandosi un momento le scarpe, seduto sulla panchina, borbottava: — Ah! per questi qui non c’è proprio la malaria! — Gli orfani La piccina si affacciò all’uscio, attorcigliando fra le dita la cocca del grembiale, e disse: — Sono qua —. Poi, come nessuno badava a lei, si mise a guardare peritosa ad una ad una le comari che impastavano il pane, e riprese: — M’hanno detto «vattene da comare Sidora». — Vien qua, vien qua, — gridò comare Sidora, rossa come un pomodoro, dal bugigattolo del forno. — Aspetta ché ti farò una bella focaccia. — Vuol dire che a comare Nunzia stanno per portarle il Viatico, se hanno mandato via la bambina —. Osservò la Licodiana. Una delle comari che aiutavano ad impastare il pane, volse il capo, seguitando a lavorare di pugni nella madia, colle braccia nude sino al gomito, e domandò alla bimba: — Come sta la tua madrigna? — La bambina che non conosceva la comare, la guardò coi grandi occhi spalancati, e poscia tornando a chinare il capo, e a lavorar in furia colle cocche del grembiale, biascicò sottovoce: — È a letto. — Non sentite che c’è il Signore? — rispose la Licodiana. — Ora le vicine si son messe a strillare sulla porta. — Quando avrò finito d’infornare il pane, — disse comare Sidora, — corro anch’io un momento a vedere se hanno bisogno di niente. Compare Meno perde il braccio destro, se gli muore quest’altra moglie. — Certuni non hanno fortuna colle mogli, come quelli che son disgraziati colle bestie. Tante ne pigliano, e tante ne perdono. Guardate comare Angela! — Ier sera, — aggiunse la Licodiana, — ho visto compare Meno sull`uscio, che era tornato dalla vigna prima dell’avemaria, e si soffiava il naso col fazzoletto. — Però, — aggiunse la comare che impastava il pane, — ei ci ha una santa mano ad ammazzare le mogli. In meno di tre anni sono adesso due figlie di curatolo Nino che si è mangiate, l’una dopo l’altra! Ancora un po’ e si mangia anche la terza, e si pappa tutta quanta la roba di curatolo Nino. — Ma cotesta bambina è figlia di comare Nunzia, oppure della prima moglie? — È figlia della prima. A quest’altra le voleva bene come fosse sua mamma davvero, perché l’orfanella era anche sua nipote —. La piccina, udendo che parlavano di lei, si mise a piangere cheta cheta in un cantuccio, per sfogarsi il cuor grosso, che aveva tenuto a bada giocherellando col grembiale. — Vien qua, vien qua, — riprese comare Sidora. — La focaccia è bell’e pronta. Via, non piangere, ché la mamma è in paradiso —. La bambina allora si asciugò gli occhi coi pugni chiusi, tanto più che comare Sidora dava mano a scoperchiare il forno. — Povera comare Nunzia! — venne a dire una vicina affacciandosi sull’uscio. — Adesso ci vanno i beccamorti. Sono passati di qua or ora. — Lontano sia! ché son figlia di Maria! — esclamarono le comari facendosi la croce. Comare Sidora levò dal forno la focaccia, la ripulì dalla cenere, e la porse calda calda alla bambina, che la prese nel grembiale, e se ne andava adagio adagio, soffiandovi sopra. — Dove vai? — Le gridò dietro comare Sidora. — Resta dove sei. A casa c’è il ba—bau colla faccia nera, che si porta via la gente —. L’orfanella ascoltò seria seria, sgranando gli occhi. Poi riprese colla stessa cantilena cocciuta: — Vo a portarla alla mamma. — La mamma non c’è più. Statti qua —. Ripeté una vicina. — Mangiala tu la focaccia —. Allora la piccina si accoccolò sullo scalino dell’uscio, tutta triste, colla focaccia nelle mani, senza toccarla. Ad un tratto vedendo arrivare il babbo, si alzò lieta, e gli corse incontro. Compare Meno entrò senza dir nulla, e sedette in un canto colle mani penzoloni fra le ginocchia, la faccia lunga, e le labbra bianche come la carta, ché dal giorno innanzi non ci aveva messo un pezzo di pane in bocca dal crepacuore. Guardava le comari come a dire: — Poveretto me! — Le donne, al vedergli il fazzoletto nero al collo, gli fecero cerchio intorno, colle mani intrise di farina, compassionandolo in coro. — Non me ne parlate, comare Sidora! — ripeteva lui, scuotendo il capo e colle spalle grosse. — Questa è spina che non mi si leva più dal cuore! Vera santa era quella donna! che, senza farvi torto, non me la meritavo. Fino ad ieri, che stava tanto male, s’era levata di letto per andare a governare il puledro slattato adesso. E non voleva che chiamassi il medico per non spendere e non comprare medicine. Un’altra moglie come quella non la trovo più. Ve lo dico io! Lasciatemi piangere, ché ho ragione! — E seguitava a scrollare il capo, e a gonfiare le spalle, quasi la sua disgrazia gli pesasse assai. — Quanto a trovarvi un’altra moglie — aggiunse la Licodiana per fargli animo — non ne avete che a cercarla. — No! no! — badava a ripetere compare Meno colla testa bassa come un mulo. — Un’altra moglie come questa non la trovo più. Stavolta resto vedovo! Ve io dico io! — Comare Sidora gli diede sulla voce: — Non dite spropositi, ché non sta bene! Un’altra moglie dovete cercarvela, se non altro per rispetto di questa orfanella, altrimenti chi baderà a lei, quando andrete in campagna! volete lasciarla in mezzo alle strade? — Trovatemela voi un’altra moglie come quella! Che non si lavava per non sporcar l’acqua; e in casa mi serviva meglio di un garzone, affezionata e fedele che non mi avrebbe rubato un pugno di fave dal graticcio, e non apriva mai bocca per dire «datemi!». Con tutto questo una bella dote, roba che valeva tant’oro! E mi tocca restituirla, perché non ci son figliuoli! Adesso me l’ha detto il sagrestano che veniva coll’acqua benedetta. E come le voleva bene a quella piccina, che le rammentava la sua povera sorella! Un’altra, che non fosse sua zia, me la guarda di malocchio, questa orfanella. — Se pigliaste la terza figlia di curatolo Nino s’aggiusterebbe ogni cosa, per l’orfana e per la dote —. Osservò la Licodiana. — Questo dico io. Ma non me ne parlate, ché ci ho tuttora la bocca amara come il fiele. — Non son discorsi da farsi adesso —. Appoggiò comare Sidora. — Mangiate un boccone piuttosto, compare Meno, che siete tutto contraffatto. — No! no! — andava ripetendo compare Meno. — Non mi parlate di mangiare, che mi sento un nodo alla gola —. Comare Sidora gli mise dinanzi, su di uno scanno, il pane caldo, colle olive nere, un pezzo di formaggio di pecora, e il fiasco del vino. E il poveraccio cominciò a mangiucchiare adagio adagio, seguitando a borbottare col viso lungo. — Il pane, — osservò intenerito, — come lo faceva la buon’anima, nessuno lo sa fare. Pareva di semola addirittura! E con una manata di finocchi selvatici vi preparava una minestra da leccarvene le dita. Ora mi toccherà comprare il pane a bottega, da quel ladro di mastro Puddo; e di minestre calde non ne troverò più, ogni volta che torno a casa bagnato come un pulcino. E bisognerà andarmene a letto collo stomaco freddo. Anche l’altra notte, mentre la vegliavo, che avevo zappato tutto il giorno a dissodare sulla costa, e mi sentivo russare io stesso, seduto accanto al letto, tanto ero stanco, la buona anima mi diceva: «Va a mangiarne due cucchiaiate. Ho lasciato apposta la minestra al caldo nel focolare». E pensava sempre a me, alla casa, al da fare che ci era, a questo e a quell’altro, che non finiva più di parlare, e di farmi le ultime raccomandazioni, come uno quando parte per un viaggio lungo, che la sentivo brontolare continuamente tra veglia e sonno. E se ne andava contenta all’altro mondo! col crocifisso sul petto, e le mani giunte di sopra. Non ha bisogno di messe e di rosari, quella santa! I denari pel prete sarebbero buttati via. — Mondo di guai! — Esclamò la vicina. — Anche a comare Angela, qui vicino, sta per morire l’asino, dalla doglia. — I guai miei son più grossi! — Finì compare Meno forbendosi la bocca col rovescio della mano. — No, non mi fate mangiare altro, ché i bocconi mi cascano dentro lo stomaco come fossero di piombo. Mangia tu piuttosto, povera innocente, che non capisci nulla. Ora non avrai più chi ti lavi e chi ti pettini. Ora non avrai più la mamma per tenerti sotto le ali come una chioccia, e sei rovinata come me. Quella te l’avevo trovata; ma un’altra matrigna come questa non l’avrai più, figlia mia! — La bimba, intenerita, sporgeva di nuovo il labbro, e si metteva i pugni sugli occhi. — No, non potete farne a meno — ripeteva comare Sidora. — Bisogna cercarvi un’altra moglie, per riguardo di questa povera orfanella che resta in mezzo a una strada. — Ed io, come rimango? e il mio puledro? e la mia casa? e alle galline chi ci baderà? Lasciatemi piangere, comare Sidora! Avrei fatto meglio a morir io stesso, in scambio della buon’anima. — State zitto, ché non sapete quello che dite! e non sapete cosa vuol dire una casa senza capo. — Questo è vero! — osservò compare Meno, riconfortato. — Guardate piuttosto la povera comare Angela! Prima le è morto il marito, poi il figliuolo grande, e adesso le muore anche l’asino! — L’asino andrebbe salassato dalla cinghiaia, se ha la doglia, — disse compare Meno. — Veniteci voi, che ve ne intendete — aggiunse la vicina. — Farete un’opera di carità per l’anima di vostra moglie —. Compare Meno si alzò per andare da comare Angela, e l’orfanella gli correva dietro come un pulcino, adesso che non aveva altri al mondo. Comare Sidora, buona massaia, gli rammentò: — E la casa? come la lasciate, ora che non ci è più nessuno? — Ho chiuso a chiave; e poi lì di faccia ci sta la cugina Alfia, per tenerla d’occhio —. L’asino della vicina Angela era disteso in mezzo al cortile col muso freddo e le orecchie pendenti, annaspando di tanto in tanto colle quattro zampe in aria, allorché la doglia gli contraeva i fianchi come un mantice. La vedova, seduta lì davanti, sui sassi, colle mani fra i capelli grigi, e gli occhi asciutti e disperati, stava a guardare, pallida come una morta. Compare Meno si diede a girare intorno alla bestia, toccandole le orecchie, guardandola negli occhi spenti, e come vide che il sangue gli colava ancora dalla cinghiaia, nero, a goccia a goccia, aggrumandosi in cima ai peli irsuti, domandò: — L’hanno anche salassato? — La vedova gli fissò in volto gli occhi foschi, senza parlare, e disse di sì col capo. — Allora non c’è più che fare, — conchiuse compare Meno; e stette a guardare l’asino che si allungava sui sassi, rigido, col pelo tutto arruffato al pari di un gatto morto. — È la volontà di Dio, sorella mia! — le disse per confortarla. — Siamo rovinati tutti e due —. Egli s’era messo a sedere sui sassi, accanto alla vedova, colla figliuoletta fra le ginocchia, e rimasero entrambi a guardare la povera bestia che batteva l’aria colle zampe, di tanto in tanto, tale e quale come un moribondo. Comare Sidora, quand’ebbe finito di sfornare il pane, venne nel cortile anche lei colla cugina Alfia, che si era messa la veste nuova, e il fazzoletto di seta in testa, per far quattro chiacchiere; e disse a compare Meno, tirandolo in disparte: — Curatolo Nino, non ve la darà più l’altra figliuola, ora che con voi gli muoiono come le mosche, e ci perde la dote. Poi la Santa è troppo giovane, e ci sarebbe il pericolo che vi riempisse la casa di figliuoli. — Se fossero maschi pazienza! Ma c’è anche a temere che vengano delle femmine. Sono tanto disgraziato! — Ci sarebbe la cugina Alfia. Quella non è più giovane, ed ha il fatto suo: la casa e un pezzo di vigna —. Compare Meno mise gli occhi sulla cugina Alfia, la quale fingeva di guardare l’asino, colle mani sul ventre, e conchiuse: — Se è così, se ne potrà parlare. Ma sono tanto disgraziato! — Comare Sidora gli diede sulla voce: — Pensate a coloro che sono più disgraziati di voi, pensate! — Non ce ne sono, ve lo dico io! Non la trovo un’altra moglie come quella! Non potrò scordarmela mai più, se torno a maritarmi dieci volte! E neppure questa povera orfanella se la scorderà. — Calmatevi, ché ve la scorderete. E anche la bambina se la scorderà. Non se l’è scordata la sua madre vera? Guardate invece la vicina Angela, ora che le muore l’asino! e non possiede altro! Quella sì che dovrà pensarci sempre! — La cugina Alfia vide che era tempo d’accostarsi anche lei, colla faccia lunga, e ricominciò le lodi della morta. Ella l’aveva acconciata colle sue mani nella bara, e le aveva messo sul viso un fazzoletto di tela fine. Di roba bianca, non faceva per dire, ne aveva molta. Allora compare Meno, intenerito, si volse alla vicina Angela, la quale non si muoveva, come fosse di sasso. — Ora che ci aspettate a fare scuoiare l’asino? Almeno pigliate i denari della pelle —.


La roba



Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. — Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. — Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillanle, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga — dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: — Curviamoci, ragazzi! — Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule — egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. — Costui vuol essere rubato per forza! — diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: — Chi è minchione se ne stia a casa, — la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare —. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: — Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te —. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. — Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! — diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava — per un pezzo di pane. — E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! — I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. — Lo vedete quel che mangio io? — rispondeva lui, — pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba —. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: — Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? — E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: — Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! — Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me! — Storia dell’asino di S. Giuseppe L’avevano comperato alla fiera di Buccheri ch’era ancor puledro, e appena vedeva una ciuca, andava a frugarle le poppe; per questo si buscava testate e botte da orbi sul groppone, e avevano un bel gridargli: — Arriccà! —. Compare Neli, come lo vide vispo e cocciuto a quel modo, che si leccava il muso alle legnate, mettendoci su una scrollatina d’orecchie, disse: — Questo è il fatto mio —. E andò diritto al padrone, tenendo nella tasca la mano colle trentacinque lire. — Il puledro è bello — diceva il padrone — e val più di trentacinque lire. Non ci badate se ha quel pelame bianco e nero come una gazza. Ora vi faccio vedere sua madre, che la teniamo lì nel boschetto perché il puledro ha sempre la testa alla poppa. Vedrete la bella bestia morella! che mi lavora meglio di una mula e mi ha fatti più figli che non abbia peli addosso. In coscienza mia! non so d’onde sia venuto quel mantello di gazza al puledro. Ma l’ossatura è buona, ve lo dico io! Già gli uomini non valgono pel mostaccio. Guardate che petto! e che pilastri di gambe! Guardate come tiene le orecchie! Un asino che tiene le orecchie ritte a quel modo lo potete mettere sotto il carro o sotto l’aratro come volete, e fargli portare quattro tumoli di farro meglio di un mulo, per la santa giornata che corre oggi! Sentite questa coda, che vi ci potete appendere voi con tutto il vostro parentado! — Compare Neli lo sapeva meglio di lui; ma non era minchione per dir di sì, e stava sulla sua colla mano in tasca, alzando le spalle e arricciando il naso, mentre il padrone gli faceva girare il puledro dinanzi. — Uhm! — borbottava compare Neli. — Con quel pelame lì, che par l’asino di san Giuseppe! Le bestie di quel colore sono tutte vigliacche, e quando passate a cavallo pel paese, la gente vi ride in faccia. Cosa devo regalarvi per l’asino di san Giuseppe? — Il padrone allora gli voltò le spalle infuriato, gridando che se non conoscevano le bestie, o se non avevano denari per comprare, era meglio non venire alla fiera, e non far perdere il tempo ai cristiani, nella santa giornata che era. Compare Neli lo lasciò a bestemmiare, e se ne andò con suo fratello, il quale lo tirava per la manica del giubbone, e gli diceva che se voleva buttare i denari per quella brutta bestia, l’avrebbe preso a pedate. Però di sottecchi non perdevano di vista l’asino di san Giuseppe, e il suo padrone che fingeva di sbucciare delle fave verdi, colla fune della cavezza fra le gambe, mentre compare Neli andava girandolando fra le groppe dei muli e dei cavalli, e si fermava a guardare, e contrattava ora questa ed ora quella delle bestie migliori, senza aprire il pugno che teneva in tasca colle trentacinque lire, come se ci avesse avuto da comprare mezza fiera. Ma suo fratello gli diceva all’orecchio, accennandogli l’asino di san Giuseppe: — Quello è il fatto nostro —. La padrona dell’asino di tanto in tanto correva a vedere cosa s’era fatto, e al trovare suo marito colla cavezza in mani, gli diceva: — Che non lo manda oggi la Madonna uno che compri il puledro? — E il marito rispondeva ogni volta: — Ancora niente! C’è stato uno a contrattare, e gli piaceva. Ma è ritirato allo spendere, e se n’è andato coi suoi denari. Vedi, quello là, colla berretta bianca, dietro il branco delle pecore. Però, sinora non ha comperato nulla, e vuol dire che tornerà —. La donna avrebbe voluto mettersi a sedere su due sassi, là vicino al suo asino, per vedere se si vendeva. Ma il marito le disse: — Vattene! Se vedono che aspetti, non conchiudono il negozio —. Il puledro intanto badava a frugare col muso fra le gambe delle somare che passavano, massime che aveva fame, tanto che il padrone, appena apriva bocca per ragliare, lo faceva tacere a bastonate, perché non l’avevano voluto. — È ancora là — diceva compare Neli all’orecchio del fratello, fingendo di tornare a passare per cercare quello dei ceci abbrustoliti. — Se aspettiamo sino all’avemaria, potremo averlo per cinque lire in meno del prezzo che abbiamo offerto —. Il sole di maggio era caldo, sicché di tratto in tratto, in mezzo al vocìo e al brulichio della fiera, succedeva per tutto il campo un gran silenzio, come non ci fosse più nessuno; e allora la padrona dell’asino tornava a dire a suo marito: — Non ti ostinare per cinque lire di più o di meno; che stasera non c’è da far la spesa; e poi sai che cinque lire il puledro se le mangia in un mese, se ci resta sulla pancia. — Se non te ne vai — rispondeva suo marito — ti assesto una pedata di quelle buone! — Così passavano le ore alla fiera; ma nessuno di coloro che passavano davanti all’asino di san Giuseppe si fermava a guardarlo; e sì che il padrone aveva scelto il posto più umile, accanto alle bestie di poco prezzo, onde non farlo sfigurare col suo pelame di gazza accanto alle belle mule baie ed ai cavalli lucenti! Ci voleva uno come compare Neli per andare a contrattare l’asino di san Giuseppe, che tutta la fiera si metteva a ridere al vederlo. Il puledro, dal tanto aspettare al sole, lasciava ciondolare il capo e le orecchie, e il suo padrone s’era messo a sedere tristamente sui sassi, colle mani penzoloni anch’esso fra le ginocchia e la cavezza nelle mani, guardando di qua e di là le ombre lunghe che cominciavano a fare nel piano, al sole che tramontava, le gambe di tutte quelle bestie che non avevano trovato un compratore. Compare Neli allora e suo fratello, e un altro amico che aveva raccattato per la circostanza, vennero a passare di là, guardando in aria, che il padrone dell’asino torse il capo anche lui per non far vedere di star lì ad aspettarli; e l’amico di compare Neli disse così, stralunato, come l’idea fosse venuta a lui: — O guarda l’asino di san Giuseppe! perché non comprate questo qui, compare Neli? — L’ho contrattato stamattina; ma è troppo caro. Poi farei ridere la gente con quell’asino bianco e nero. Vedete che nessuno l’ha voluto fino adesso! — È vero, ma il colore non fa nulla, per quello che vi serve —. E domandò al padrone: — Quanto vi dobbiamo regalare per l’asino di san Giuseppe? — La padrona dell’asino di san Giuseppe, vedendo che si ripigliava il negozio, andava riaccostandosi quatta quatta, colle mani giunte sotto la mantellina. — Non me ne parlate! — cominciò a gridare compare Neli, scappando per il piano. — Non me ne parlate che non ne voglio sentir parlare! — Se non lo vuole, lasciatelo stare — rispose il padrone. — Se non lo piglia lui, lo piglierà un altro «Tristo chi non ha più nulla da vendere dopo la fiera!» — Ed io voglio essere ascoltato, santo diavolone! — strillava l’amico. — Che non posso dire la mia bestialità anch’io! — E correva ad afferrare compare Neli pel giubbone; poi tornava a parlare all’orecchio del padrone dell’asino, il quale voleva tornarsene a casa per forza coll’asinello, e gli buttava le braccia al collo, susurrandogli: — Sentite! cinque lire più o meno, se non lo vendete oggi, un minchione come mio compare non lo trovate più da comprarvi la vostra bestia che non vale un sigaro —. Ed abbracciava anche la padrona dell’asino, le parlava all’orecchio, per tirarla dalla sua. Ma ella si stringeva nelle spalle, e rispondeva col viso torvo: — Sono affari del mio uomo. Io non c’entro. Ma se ve lo dà per meno di quaranta lire è un minchione, in coscienza! Ci costa di più a noi! — Stamattina era pazzo ad offrire trentacinque lire! — ripicchiava compare Neli. — Vedete se ha trovato un altro compratore per quel prezzo? In tutta la fiera non c’è più che quattro montoni rognosi e l’asino di san Giuseppe. Adesso trenta lire, se le vuole! — Pigliatele! — suggeriva piano al marito la padrona dell’asino colle lagrime agli occhi. — Stasera non abbiamo da fare la spesa, e a Turiddu gli è tornata la febbre; ci vuole il solfato. — Santo diavolone! — strillava suo marito. — Se non te ne vai, ti faccio assaggiare la cavezza! — Trentadue e mezzo, via! — gridò infine l’amico, scuotendoli forte per il colletto. — Né voi, né io! Stavolta deve valere la mia parola, per i santi del paradiso! e non voglio neppure un bicchiere di vino! Vedete che il sole è tramontato? Cosa aspettate ancora tutt’e due? — E strappò di mano al padrone la cavezza, mentre compare Neli, bestemmiando, tirava fuori dalla tasca il pugno colle trentacinque lire, e gliele dava senza guardarle, come gli strappassero il fegato. L’amico si tirò in disparte colla padrona dell’asino, a contare i denari su di un sasso, mentre il padrone dell’asino scappava per la fiera come un puledro, bestemmiando e dandosi dei pugni. Ma poi si lasciò raggiungere dalla moglie, la quale adagio adagio andava contando di nuovo i denari nel fazzoletto, e domandò: — Ci sono? — Sì, ci son tutti; sia lodato san Gaetano! Ora vado dallo speziale. — Li ho minchionati! Io glieli avrei dato anche per venti lire; gli asini di quel colore lì sono vigliacchi —. E compare Neli, tirandosi dietro il ciuco per la scesa, diceva: — Com’è vero Dio, glie l’ho rubato il puledro! Il colore non fa niente. Vedete che pilastri di gambe, compare? Questo vale quaranta lire ad occhi chiusi. — Se non c’ero io — rispose l’amico — non ne facevate nulla. Qui ci ho ancora due lire e mezzo di vostro. E se volete, andremo a berle alla salute dell’asino —. Adesso al puledro gli toccava di aver la salute per guadagnarsi le trentadue lire e cinquanta che era costato, e la paglia che si mangiava. Intanto badava a saltellare dietro a compare Neli, cercando di addentargli il giubbone per giuoco, quasi sapesse che era il giubbone del padrone nuovo, e non gliene importasse di lasciare per sempre la stalla dov’era stato al caldo, accanto alla madre, a fregarsi il muso sulla sponda della mangiatoia, o a fare a testate e a capriole col montone, e andare a stuzzicare il maiale nel suo cantuccio. E la padrona, che contava di nuovo i denari nel fazzoletto davanti al bancone dello speziale, non pensava nemmen lei che aveva visto nascere il puledro, tutto bianco e nero colla pelle lucida come seta, che non si reggeva ancora sulle gambe, e stava accovacciato al sole nel cortile, e tutta l’erba con cui s’era fatto grande e grosso le era passata per le mani. La sola che si rammentasse del puledro era la ciuca, che allungava il collo ragliando verso l’uscio della stalla; ma quando non ebbe più le poppe gonfie di latte, si scordò del puledro anch’essa. — Ora questo qui — diceva compare Neli — vedrete che mi porta quattro tumoli di farro meglio di un mulo. E alla messe lo metto a trebbiare —. Alla trebbiatura il puledro, legato in fila per il collo colle altre bestie, muli vecchi e cavalli sciancati, trotterellava sui covoni da mattina a sera, tanto che si riduceva stanco e senza voglia di abboccare nel mucchio della paglia, dove lo mettevano a riposare all’ombra, come si levava il venticello, mentre i contadini spagliavano, gridando: — Viva Maria! — Allora lasciava cascare il muso e le orecchie ciondoloni, come un asino fatto, coll’occhio spento, quasi fosse stanco di guardare quella vasta campagna bianca la quale fumava qua e là della polvere delle aie, e pareva non fosse fatta per altro che per lasciar morire di sete e far trottare sui covoni. Alla sera tornava al villaggio colle bisacce piene, e il ragazzo del padrone seguitava a pungerlo nel garrese, lungo le siepi del sentiero che parevano vive dal cinguettìo delle cingallegre e dall’odor di nepitella e di ramerino, e l’asino avrebbe voluto darci una boccata, se non l’avessero fatto trottare sempre, tanto che gli calò il sangue alle gambe, e dovettero portarlo dal maniscalco; ma il padrone non gliene importava nulla, perché la raccolta era stata buona, e il puledro si era buscate le sue trentadue lire e cinquanta. Il padrone diceva: — Ora il lavoro l’ha fatto, e se lo vendo anche per venti lire, ci ho sempre il mio guadagno —. Il solo che volesse bene al puledro era il ragazzo che lo faceva trotterellare pel sentiero, quando tornavano dall’aia; e piangeva mentre il maniscalco gli bruciava le gambe coi ferri roventi, che il puledro si contorceva, colla coda in aria, e le orecchie ritte come quando scorazzava pel campo della fiera, e tentava divincolarsi dalla fune attorcigliata che gli stringeva il labbro, e stralunava gli occhi dallo spasimo quasi avesse il giudizio, quando il garzone del maniscalco veniva a cambiare i ferri rossi qual fuoco, e la pelle fumava e friggeva come il pesce nella padella. Ma compare Neli gridava al suo ragazzo: — Bestia! perché piangi? Ora il suo lavoro l’ha fatto, e giacché la raccolta è andata bene lo venderemo e compreremo un mulo, che è meglio —. I ragazzi certe cose non le capiscono, e dopo che vendettero il puledro a massaro Cirino il Licodiano, il figlio di compare Neli andava a fargli visita nella stalla e ad accarezzarlo nel muso e sul collo, ché l’asino si voltava a fiutarlo come se gli fosse rimasto attaccato il cuore a lui, mentre gli asini son fatti per essere legati dove vuole il padrone, e mutano di sorte come cambiano di stalla. Massaro Cirino il Licodiano aveva comprato l’asino di san Giuseppe per poco, giacché aveva ancora la cicatrice al pasturale, che la moglie di compare Neli, quando vedeva passare l’asino col padrone nuovo, diceva: — Quello era la nostra sorte; quel pelame bianco e nero porta allegria nell’aia; e adesso le annate vanno di male in peggio, talché abbiamo venduto anche il mulo —. Massaro Cirino aveva aggiogato l’asino all’aratro, colla cavalla vecchia che ci andava come una pietra d’anello, e tirava via il suo bravo solco tutto il giorno per miglia e miglia, dacché le lodole cominciano a trillare nel cielo bianco dell’alba, sino a quando i pettirossi correvano a rannicchiarsi dietro gli sterpi nudi che tremavano di freddo, col volo breve e il sibilo malinconico, nella nebbia che montava come un mare. Soltanto, siccome l’asino era più piccolo della cavalla, ci avevano messo un cuscinetto di strame sul basto, sotto il giogo, e stentava di più a strappare le zolle indurite dal gelo, a furia di spallate: — Questo mi risparmia la cavalla che è vecchia, — diceva massaro Cirino. — Ha il cuore grande come la Piana di Catania, quell’asino di san Giuseppe! e non si direbbe —. E diceva pure a sua moglie, la quale veniva dietro raggomitolata nella mantellina, a spargere la semente con parsimonia: — Se gli accadesse una disgrazia, mai sia! siamo rovinati, coll’annata che si prepara —. La donna guardava l’annata che si preparava, nel campicello sassoso e desolato, dove la terra era bianca e screpolata, da tanto che non ci pioveva, e l’acqua veniva tutta in nebbia, di quella che si mangia la semente; e quando fu l’ora di zappare il seminato pareva la barba del diavolo, tanto era rado e giallo, come se l’avessero bruciato coi fiammiferi. — Malgrado quel maggese che ci avevo preparato! piagnucolava massaro Cirino strappandosi di dosso il giubbone. — Che quell’asino ci ha rimesso la pelle come un mulo! Quello è l’asino della malannata! — La sua donna aveva un gruppo alla gola dinanzi al seminato arso, e rispondeva coi goccioloni che le venivano giù dagli occhi: — L’asino non fa nulla. A compare Neli ha portato la buon’annata. Ma noi siamo sfortunati —. Così l’asino di san Giuseppe cambiò di padrone un’altra volta, come massaro Cirino se ne tornò colla falce in spalla dal seminato, che non ci fu bisogno di mieterlo quell’anno, malgrado ci avessero messo le immagini dei santi infilate alle cannucce, e avessero speso due tarì per farlo benedire dal prete. — Il diavolo ci vuole! — andava bestemmiando massaro Cirino di faccia a quelle spighe tutte ritte come pennacchi, che non ne voleva neppur l’asino; e sputava in aria verso quel cielo turchino senza una goccia d’acqua. Allora compare Luciano il carrettiere, incontrando massaro Cirino il quale si tirava dietro l’asino colle bisacce vuote, gli chiese: — Cosa volete che vi regali per l’asino di san Giuseppe? — Datemi quel che volete. Maledetto sia lui e il santo che l’ha fatto! — rispose massaro Cirino. — Ora non abbiamo più pane da mangiare, né orzo da dare alle bestie. — Io vi do quindici lire perché siete rovinato; ma l’asino non val tanto, che non tira avanti ancora più di sei mesi. Vedete com’è ridotto? — Avreste potuto chieder di più! — si mise a brontolare la moglie di massaro Cirino dopo che il negozio fu conchiuso. — A compare Luciano gli è morta la mula, e non ha denari da comprarne un’altra. Adesso se non comprava quell’asino di san Giuseppe, non sapeva che farne del suo carro e degli arnesi; e vedrete che quell’asino sarà la sua ricchezza! — L’asino imparò anche a tirare il carro, che era troppo alto di stanghe per lui, e gli pesava tutto sulle spalle, sicché non avrebbe durato nemmeno sei mesi, arrancando per le salite, che ci volevano le legnate di compare Luciano per mettergli un po’ di fiato in corpo; e quando andava per la discesa era peggio, perché tutto il carico gli cascava addosso, e lo spingeva in modo che doveva far forza colla schiena in arco, e con quelle povere gambe rose dal fuoco, che la gente vedendolo si metteva a ridere, e quando cascava ci volevano tutti gli angeli del paradiso a farlo rialzare. Ma compare Luciano sapeva che gli portava tre quintali di roba meglio di un mulo, e il carico glielo pagavano a cinque tarì il quintale. — Ogni giorno che campa l’asino di san Giuseppe son quindici tarì guadagnati, — diceva, — e quanto a mangiare mi costa meno d’un mulo —. Alle volte la gente che saliva a piedi lemme lemme dietro il carro, vedendo quella povera bestia che puntava le zampe senza forza, e inarcava la schiena, col fiato spesso e l’occhio scoraggiato, suggeriva: — Metteteci un sasso sotto le ruote, e lasciategli ripigliar lena a quella povera bestia —. Ma compare Luciano rispondeva: — Se lo lascio fare, quindici tarì al giorno non li guadagno. Col suo cuoio devo rifare il mio. Quando non ne potrà più del tutto lo venderò a quello del gesso, che la bestia è buona e fa per lui; e non è mica vero che gli asini di san Giuseppe sieno vigliacchi. Gliel’ho preso per un pezzo di pane a massaro Cirino, ora che è impoverito —. In tal modo l’asino di san Giuseppe capitò in mano di quello del gesso, il quale ne aveva una ventina di asini, tutti macilenti e moribondi, che gli portavano i suoi saccarelli di gesso, e campavano di quelle boccate di erbacce che potevano strappare lungo il cammino. Quello del gesso non lo voleva perché era tutto coperto di cicatrici peggio delle altre sue bestie, colle gambe solcate dal fuoco, e le spalle logorate dal pettorale, e il garrese roso dal basto dell’aratro, e i ginocchi rotti dalle cadute, e poi quel pelame bianco e nero gli pareva che non dicesse in mezzo alle altre sue bestie morelle: — Questo non fa niente, — rispose compare Luciano. — Anzi servirà a riconoscere i vostri asini da lontano —. E ribassò ancora due tarì sulle sette lire che aveva domandato, per conchiudere il negozio. Ma l’asino di san Giuseppe non l’avrebbe riconosciuto più nemmeno la padrona che l’aveva visto nascere, tanto era mutato, quando andava col muso a terra e le orecchie a paracqua sotto i saccarelli del gesso, torcendo il groppone alle legnate del ragazzo che guidava il branco. Pure anche la padrona stessa era mutata a quell’ora, colla malannata che c’era stata, e la fame che aveva avuta, e le febbri che avevano preso tutti alla pianura, lei, suo marito e il suo Turiddu, senza danari per comprare il solfato, ché gli asini di san Giuseppe non se ne hanno da vendere tutti i giorni, nemmeno per trentacinque lire. L’inverno, che il lavoro era più scarso, e la legna da far cuocere il gesso più rara e lontana, e i sentieri gelati non avevano una foglia nelle siepi, o una boccata di stoppia lungo il fossatello gelato, la vita era più dura per quelle povere bestie; e il padrone lo sapeva che l’inverno se ne mangiava la metà; sicché soleva comperarne una buona provvista in primavera. La notte il branco restava allo scoperto, accanto alla fornace, e le bestie si facevano schermo stringendosi fra di loro. Ma quelle stelle che luccicavano come spade li passavano da parte a parte, malgrado il loro cuoio duro, e tutti quei guidaleschi rabbrividivano e tremavano al freddo come avessero la parola. Pure c’è tanti cristiani che non stanno meglio, e non hanno nemmeno quel cencio di tabarro nel quale il ragazzo che custodiva il branco dormiva raggomitolato davanti la fornace. Lì vicino abitava una povera vedova, in un casolare più sgangherato della fornace del gesso, dove le stelle penetravano dal tetto come spade, quasi fosse all’aperto, e il vento faceva svolazzare quei quattro cenci di coperta. Prima faceva la lavandaia, ma quello era un magro mestiere, ché la gente i suoi stracci se li lava da sé, quando li lava, ed ora che gli era cresciuto il suo ragazzo campava andando a vendere della legna al villaggio. Ma nessuno aveva conosciuto suo marito, e nessuno sapeva d’onde prendesse la legna che vendeva; lo sapeva il suo ragazzo che andava a racimolarla di qua e di là, a rischio di buscarsi una schioppettata dai campieri. — Se aveste un asino — gli diceva quello del gesso per vendere l’asino di san Giuseppe che non ne poteva più — potreste portare al villaggio dei fasci più grossi, ora che il vostro ragazzo è cresciuto —. La povera donna aveva qualche lira in un nodo del fazzoletto, e se la lasciò beccare da quello del gesso, perché si dice che «la roba vecchia muore in casa del pazzo». Almeno così il povero asino di san Giuseppe visse meglio gli ultimi giorni; giacché la vedova lo teneva come un tesoro, in grazia di quei soldi che gli era costato, e gli andava a buscare della paglia e del fieno di notte, e lo teneva nel casolare accanto al letto, che scaldava come un focherello anche lui, e a questo mondo una mano lava l’altra. La donna spingendosi innanzi l’asino carico di legna come una montagna, che non gli si vedevano le orecchie, andava facendo dei castelli in aria; e il ragazzo sforacchiava le siepi e si avventurava nel limite del bosco per ammassare il carico, che madre e figlio credevano farsi ricchi a quel mestiere, tanto che finalmente il campiere del barone colse il ragazzo sul fatto a rubar frasche, e lo conciò per le feste dalle legnate. Il medico per curare il ragazzo si mangiò i soldi del fazzoletto, la provvista di legna, e tutto quello che c’era da vendere, e non era molto; sicché la madre una notte che il suo ragazzo farneticava dalla febbre, col viso acceso contro il muro, e non c’era un boccone di pane in casa, uscì fuori smaniando e parlando da sola come avesse la febbre anche lei, e andò a scavezzare un mandorlo lì vicino, che non pareva vero come ci fosse arrivata, e all’alba lo caricò sull’asino per andare a venderlo. Ma l’asino, dal peso, nella salita s’inginocchiò tale e quale l’asino di san Giuseppe davanti al Bambino Gesù, e non volle più alzarsi. — Anime sante! — borbottava la donna — portatemelo voialtre quel carico di legna! — E i passanti tiravano l’asino per la coda e gli mordevano gli orecchi per farlo rialzare. — Non vedete che sta per morire? — disse infine un carrettiere; e così gli altri lo lasciarono in pace, ché l’asino aveva l’occhio di pesce morto, il muso freddo, e per la pelle gli correva un brivido. La donna intanto pensava al suo ragazzo che farneticava, col viso rosso dalla febbre, e balbettava: — Ora che faremo? Ora che faremo? — Se volete venderlo con tutta la legna ve ne do cinque tarì — disse il carrettiere il quale aveva il carro scarico. E come la donna lo guardava cogli occhi stralunati, soggiunse: — Compro soltanto la legna, perché l’asino ecco cosa vale! — E diede una pedata sul carcame, che suonò come un tamburo sfondato.


Pane nero



Appena chiuse gli occhi compare Nanni, e ci era ancora il prete colla stola, scoppiò subito la guerra tra i figliuoli, a chi toccasse pagare la spesa del mortorio, ché il reverendo lo mandarono via coll’aspersorio sotto l’ascella. Perché la malattia di compare Nanni era stata lunga, di quelle che vi mangiano la carne addosso, e la roba della casa. Ogni volta che il medico spingeva il foglio di carta sul ginocchio, per scrivere la ricetta, compare Nanni gli guardava le mani con aria pietosa, e biascicava: — Almeno, vossignoria, scrivetela corta, per carità! — Il medico faceva il suo mestiere. Tutti a questo mondo fanno il loro mestiere. Massaro Nanni nel fare il proprio, aveva acchiappato quelle febbri lì, alla Lamia, terre benedette da Dio, che producevano seminati alti come un uomo. I vicini avevano un bel dirgli: — Compare Nanni, in quella mezzeria della Lamia voi ci lascierete la pelle! — Quasi fossi un barone — rispondeva lui — che può fare quello che gli pare e piace! — I fratelli, che erano come le dita della stessa mano finché viveva il padre, ora dovevano pensare ciascuno ai casi propri. Santo aveva moglie e figliuoli sulle braccia; Lucia rimaneva senza dote, su di una strada; e Carmenio, se voleva mangiar del pane, bisognava che andasse a buscarselo fuori di casa, e trovarsi un padrone. La mamma poi, vecchia e malaticcia, non si sapeva a chi toccasse mantenerla, di tutti e tre che non avevano niente. L’è che è una bella cosa quando si può piangere i morti, senza pensare ad altro! I buoi, le pecore, la provvista del granaio, se n’erano andati col padrone. Restava la casa nera, col letto vuoto, e le facce degli orfani scure anch’esse. Santo vi trasportò le sue robe, colla Rossa, e disse che pigliava con sé la mamma. — Così non pagava più la pigione della casa — dicevano gli altri. Carmenio fece il suo fagotto, e andò pastore da curatolo Vito, che aveva un pezzetto di pascolo al Carmemi; e Lucia, per non stare insieme alla cognata, minacciava che sarebbe andata a servizio piuttosto. — No! — diceva Santo. — Non si dirà che mia sorella abbia a far la serva agli altri. — Ei vorrebbe che la facessi alla Rossa! — brontolava Lucia. La quistione grossa era per questa cognata che s’era ficcata nella parentela come un chiodo. — Cosa posso farci, adesso che ce l’ho? — sospirava Santo stringendosi nelle spalle. — E’ bisognava dar retta alla buona anima di mio padre, quand’era tempo! — La buon’anima glielo aveva predicato: — Lascia star la Nena, che non ha dote, né tetto, né terra —. Ma la Nena gli era sempre alle costole, al Castelluccio, se zappava, se mieteva, a raccogliergli le spighe, o a levargli colle mani i sassi di sotto ai piedi; e quando si riposava, alla porta del casamento, colle spalle al muro, nell’ora che sui campi moriva il sole, e taceva ogni cosa: — Compare Santo, se Dio vuole, quest’anno non le avrete perse le vostre fatiche! — Compare Santo, se il raccolto vi va bene, dovete prendere la chiusa grande, quella del piano; che ci son state le pecore, e riposa da due anni. — Compare Santo, quest’inverno, se avrò tempo, voglio farvi un par di calzeroni che vi terranno caldo —. Santo aveva conosciuta la Nena quando lavorava al Castelluccio, una ragazza dai capelli rossi, ch’era figlia del camparo, e nessuno la voleva. Essa, poveretta, per questo motivo faceva festa a ogni cane che passasse, e si levava il pan di bocca per ragalare a compare Santo la berretta di seta nera, ogni anno a santa Agrippina, e per fargli trovare un fiasco di vino, o un pezzo di formaggio, allorché arrivava al Castelluccio. — Pigliate questo, per amor mio, compare Santo. È di quel che beve il padrone —. Oppure: — Ho pensato che l’altra settimana vi mancava il companatico —. Egli non sapeva dir di no, e intascava ogni cosa. Tutt’al più per gentilezza rispondeva: — Così non va bene, comare Nena, levarvelo di bocca voi, per darlo a me. — Io son più contenta se l’avete voi —. Poi, ogni sabato sera, come Santo andava a casa, la buon’anima tornava a ripetere al figliuolo: — Lascia star la Nena, che non ha questo; lascia star la Nena, che non ha quest’altro. — Io lo so che non ho nulla — diceva la Nena, seduta sul muricciuolo verso il sole che tramontava. — Io non ho né terra, né case; e quel po’ di roba bianca ho dovuto levarmela di bocca col pane che mi mangio. Mio padre è un povero camparo, che vive alle spalle del padrone; e nessuno vorrà togliersi addosso il peso della moglie senza dote —. Ella aveva però la nuca bianca, come l’hanno le rosse; e mentre teneva il capo chino, con tutti quei pensieri dentro, il sole le indorava dietro alle orecchie i capelli color d’oro, e le guance che ci avevano la peluria fine come le pesche; e Santo le guardava gli occhi celesti come il fiore del lino, e il petto che gli riempiva il busto, e faceva l’onda al par del seminato. — Non vi angustiate, comare Nena — gli diceva. — Mariti non ve ne mancheranno —. Ella scrollava il capo per dir di no; e gli orecchini rossi che sembravano di corallo, gli accarezzavano le guance. — No, no, compare Santo. Lo so che non son bella, e che non mi vuol nessuno. — Guardate! — disse lui a un tratto, ché gli veniva quell’idea. — Guardate come sono i pareri!... E’ dicono che i capelli rossi sieno brutti, e invece ora che li avete voi non mi fanno specie —. La buon’anima di suo padre, quando aveva visto Santo incapricciato della Nena che voleva sposarla, gli aveva detto una domenica: — Tu la vuoi per forza, la Rossa? Di’, la vuoi per forza? — Santo, colle spalle al muro e le mani dietro la schiena, non osava levare il capo; ma accennava di sì, di sì, che senza la Rossa non sapeva come fare, e la volontà di Dio era quella. — Ci hai a pensar tu, se ti senti di campare la moglie. Già sai che non posso darti nulla. Una cosa sola abbiamo a dirti, io e tua madre qui presente: pensaci prima di maritarti, che il pane è scarso, e i figliuoli vengono presto —. La mamma, accoccolata sulla scranna, lo tirava pel giubbone, e gli diceva sottovoce colla faccia lunga: — Cerca d’innamorarti della vedova di massaro Mariano, che è ricca, e non avrà molte pretese, perché è accidentata. — Sì! — brontolava Santo. — Sì, che la vedova di massaro Mariano si contenterà di un pezzente come me!... — Compare Nanni confermò anche lui che la vedova di massaro Mariano cercava un marito ricco al par di lei, tuttoché fosse sciancata. E poi ci sarebbe stato l’altro guaio, di vedersi nascere i nipoti zoppi. — Tu ci hai a pensare — ripeteva al suo ragazzo. — Pensa che il pane è scarso, e che i figliuoli vengono presto —. Poi, il giorno di Santa Brigida, verso sera, Santo aveva incontrato a caso la Rossa, la quale coglieva asparagi lungo il sentiero, e arrossì al vederlo, quasi non lo sapesse che doveva passare di là nel tornare al paese, mentre lasciava ricadere il lembo della sottana che teneva rimboccata alla cintura per andar carponi in mezzo ai fichidindia. Il giovane la guardava, rosso in viso anche lui, e senza dir nulla. Infine si mise a ciarlare che aveva terminata la settimana, e se ne andava a casa. — Non avete a dirmi nulla pel paese, comare Nena? Comandate. — Se andassi a vendere gli asparagi verrei con voi, e si farebbe la strada insieme — disse la Rossa. E come egli, ingrullito, rispondeva di sì col capo, di sì: ella aggiunse, col mento sul petto che faceva l’onda: — Ma voi non mi vorreste, ché le donne sono impicci. — Io vi porterei sulle braccia, comare Nena, vi porterei —. Allora comare Nena si mise a masticare la cocca del fazzoletto rosso che aveva in testa. E compare Santo non sapeva che dire nemmen lui; e la guardava, e si passava le bisacce da una spalla all’altra, quasi non trovasse il verso. La nepitella e il ramerino facevano festa, e la costa del monte, lassù fra i fichidindia, era tutta rossa del tramonto. — Ora andatevene, — gli diceva Nena, — andatevene, che è tardi —. E poi si metteva ad ascoltare le cinciallegre che facevano gazzara. Ma Santo non si muoveva. — Andatevene, ché possono vederci, qui soli —. Compare Santo, che stava per andarsene infine, tornò all’idea di prima, con un’altra spallata per assestare le bisacce, che egli l’avrebbe portata sulle braccia, l’avrebbe portata, se si faceva la strada insieme. E guardava comare Nena negli occhi che lo fuggivano e cercavano gli asparagi in mezzo ai sassi, e nel viso che era infuocato come se il tramonto vi battesse sopra. — No, compare Santo, andatevene solo, che io sono una povera ragazza senza dote. — Lasciamo fare alla Provvidenza, lasciamo fare... — Ella diceva sempre di no, che non era per lui, stavolta col viso scuro ed imbronciato. Allora compare Santo scoraggiato si assettò la bisaccia sulle spalle e si mosse per andarsene a capo chino. La Rossa almeno voleva dargli gli asparagi che aveva colti per lui. Facevano una bella pietanza, se accettava di mangiarli per amor suo. E gli stendeva le due cocche del grembiale colmo. Santo le passò un braccio alla cintola, e la baciò sulla guancia, col cuore che gli squagliava. In quella arrivò il babbo, e la ragazza scappò via spaventata. Il camparo aveva il fucile ad armacollo, e non sapeva che lo tenesse di far la festa a compare Santo, che gli giuocava quel tradimento. — No! non ne faccio di queste cose! — rispondeva Santo colle mani in croce. — Vostra figlia voglio sposarla per davvero. Non per la paura del fucile; ma son figlio di un uomo dabbene, e la Provvidenza ci aiuterà perché non facciamo il male —. Così la domenica appresso s’erano fatti gli sponsali, colla sposa vestita da festa, e suo padre il camparo cogli stivali nuovi, che ci si dondolava dentro come un’anitra domestica. Il vino e le fave tostate misero in allegria anche compare Nanni, sebbene avesse già addosso la malaria; e la mamma tirò fuori dalla cassapanca un rotolo di filato che teneva da parte per la dote di Lucia, la quale aveva già diciott’anni, e prima d’andare alla messa ogni domenica, si strigliava per mezz’ora, specchiandosi nell’acqua del catino. Santo, colla punta delle dieci dita ficcate nelle tasche del giubbone, gongolava, guardando i capelli rossi della sposa, il filato, e tutta l’allegria che ci era per lui quella domenica. Il camparo, col naso rosso, saltellava dentro gli stivaloni, e voleva baciare tutti quanti ad uno ad uno. — A me no! — diceva Lucia, imbronciata pel filato che le portavano via. — Questa non è acqua per la mia bocca —. Essa restava in un cantuccio, con tanto di muso, quasi sapesse già quel che le toccava quando avrebbe chiuso gli occhi il genitore. Ora infatti le toccava cuocere il pane e scopar le stanze per la cognata, la quale come Dio faceva giorno andava al podere col marito, tuttoché fosse gravida un’altra volta, ché per riempir la casa di figliuoli era peggio di una gatta. Adesso ci volevano altro che i regalucci di Pasqua e di santa Agrippina, e le belle paroline che si scambiavano con compare Santo quando si vedevano al Castelluccio. Quel mariuolo del camparo aveva fatto il suo interesse a maritare la figliuola senza dote, e doveva pensarci compare Santo a mantenerla. Dacché aveva la Nena vedeva che gli mancava il pane per tutti e due, e dovevano tirarlo fuori dalla terra di Licciardo, col sudore della loro fronte. Mentre andavano a Licciardo, colle bisacce in ispalla, asciugandosi il sudore colla manica della camicia, avevano sempre nella testa e dinanzi agli occhi il seminato, ché non vedevano altro fra i sassi della viottola. Gli era come il pensiero di un malato che vi sta sempre grave in cuore, quel seminato; prima giallo, ammelmato dal gran piovere; poi, quando ricominciava a pigliar fiato, le erbacce, che Nena ci si era ridotte le due mani una pietà per strapparle ad una ad una, bocconi, con tanto di pancia, tirando la gonnella sui ginocchi, onde non far danno. E non sentiva il peso della gravidanza, né il dolore delle reni, come se ad ogni filo verde che liberava dalle erbacce, facesse un figliuolo. E quando si accoccolava infine sul ciglione, col fiato ai denti, cacciandosi colle due mani i capelli dietro le orecchie, le sembrava di vedere le spighe alte nel giugno, curvandosi ad onda pel venticello l’una sull’altra; e facevano i conti col marito, nel tempo che egli slacciava i calzeroni fradici, e netteva la zappa sull’erba del ciglione. — Tanta era stata la semente; tanto avrebbe dato se la spiga veniva a 12, o a 10, od anche a 7; il gambo non era robusto ma il seminato era fitto. Bastava che il marzo non fosse troppo asciutto, e che piovesse soltanto quando bisognava. Santa Agrippina benedetta doveva pensarci lei! — Il cielo era netto, e il sole indugiava, color d’oro, sui prati verdi, dal ponente tutto in fuoco, d’onde le lodole calavano cantando sulle zolle, come punti neri. La primavera cominciava a spuntare dappertutto, nelle siepi di fichidindia, nelle macchie della viottola, fra i sassi, sul tetto dei casolari, verde come la speranza; e Santo, camminando pesantemente dietro la sua compagna, curva sotto il sacco dello strame per le bestie, e con tanto di pancia, sentivasi il cuore gonfio di tenerezza per la poveretta, e le andava chiacchierando, colla voce rotta dalla salita, di quel che si avrebbe fatto, se il Signore benediceva i seminati fino all’ultimo. Ora non avevano più a discorrere dei capelli rossi, s’erano belli o brutti, e di altre sciocchezze. E quando il maggio traditore venne a rubare tutte le fatiche e le speranze dell’annata, colle sue nebbie, marito e moglie, seduti un’altra volta sul ciglione a guardare il campo che ingialliva a vista d’occhio, come un malato che se ne va all’altro mondo, non dicevano una parola sola, coi gomiti sui ginocchi, e gli occhi impietriti nella faccia pallida. — Questo è il castigo di Dio! — borbottava Santo. — La buon’anima di mio padre me l’aveva detto! — E nella casuccia del povero penetrava il malumore della stradicciuola nera e fangosa. Marito e moglie si voltavano le spalle ingrugnati, litigavano ogni volta che la Rossa domandava i danari per la spesa, e se il marito tornava a casa tardi, o se non c’era legna per l’inverno, o se la moglie diventava lenta e pigra per la gravidanza: musi lunghi, parolacce ed anche busse. Santo agguantava la Nena pei capelli rossi, e lei gli piantava le unghie sulla faccia; accorrevano i vicini, e la Rossa strillava che quello scomunicato voleva farla abortire, e non si curava di mandare un’anima al limbo. Poi, quando Nena partorì, fecero la pace, e compare Santo andava portando sulle braccia la bambina, come se avesse fatto una principessa, e correva a mostrarla ai parenti e agli amici, dalla contentezza. Alla moglie, sinché rimase in letto, le preparava il brodo, le scopava la casa, le mondava il riso, e le si piantava anche ritto dinanzi, acciò non le mancasse nulla. Poi si affacciava sulla porta colla bimba in collo, come una balia; e chi gli domandava, nel passare, rispondeva: — Femmina! compare mio. La disgrazia mi perseguita sin qui, e mi è nata una femmina. Mia moglie non sa far altro —. La Rossa quando si pigliava le busse dal marito, sfogavasi colla cognata, che non faceva nulla per aiutare in casa; e Lucia rimbeccava che senza aver marito gli erano toccati i guai dei figliuoli altrui. La suocera, poveretta, cercava di metter pace in quei litigi, e ripeteva: — La colpa è mia che non son più buona a nulla. Io vi mangio il pane a tradimento —. Ella non era più buona che a sentire tutti quei guai, e a covarseli dentro di sé: le angustie di Santo, i piagnistei di sua moglie, il pensiero dell’altro figlio lontano, che le stava fitto in cuore come un chiodo, il malumore di Lucia, la quale non aveva uno straccio di vestito per la festa, e non vedeva passare un cane sotto la sua finestra. La domenica, se la chiamavano nel crocchio delle comari che chiacchieravano all’ombra, rispondeva, alzando le spalle: — Cosa volete che ci venga a fare! Per far vedere il vestito di seta che non ho? — Nel crocchio delle vicine ci veniva pure qualche volte Pino il Tomo, quello delle rane, che non apriva bocca e stava ad ascoltare colle spalle al muro e le mani in tasca, sputacchiando di qua e di là. Nessuno sapeva cosa ci stesse a fare; ma quando s’affacciava all’uscio comare Lucia, Pino la guardava di soppiatto, fingendo di voltarsi per sputacchiare. La sera poi, come gli usci erano tutti chiusi, s’arrischiava sino a cantarle le canzonette dietro la porta, facendosi il basso da sé — huum! huum! huum! — Alle volte i giovinastri che tornavano a casa tardi, lo conoscevano alla voce, e gli rifacevano il verso della rana, per canzonarlo. Lucia intanto fingeva di darsi da fare per la casa, colla testa bassa e lontana dal lume, onde non la vedessero in faccia. Ma se la cognata brontolava: — Ora comincia la musica! — si voltava come una vipera a rimbeccare: — Anche la musica vi dà noia? Già in questa galera non ce ne deve essere né per gli occhi né per le orecchie! — La mamma che vedeva tutto, e ascoltava anch’essa, guardando la figliuola, diceva che a lei invece quella musica gli metteva allegria dentro. Lucia fingeva di non saper nulla. Però ogni giorno nell’ora in cui passava quello delle rane, non mancava mai di affacciarsi all’uscio, col fuso in mano. Il Tomo appena tornava dal fiume, gira e rigira pel paese, era sempre in volta per quelle parti, colla sua cesta di rane in mano, strillando: — Pesci—cantanti! pesci—cantanti! — come se i poveretti di quelle straducce potessero comperare dei pesci—cantanti! — E’ devono essere buoni pei malati! — diceva la Lucia che si struggeva di mettersi a contrattare col Tomo. Ma la mamma non voleva che spendessero per lei. Il Tomo, vedendo che Lucia lo guardava di soppiatto, col mento sul seno, rallentava il passo dinanzi all’uscio, e la domenica si faceva animo ad accostarsi un poco più, sino a mettersi a sedere sullo scalino del ballatoio accanto, colle mani penzoloni fra le cosce; e raccontava nel crocchio come si facesse a pescare le rane, che ci voleva una malizia del diavolo. Egli era malizioso peggio di un asino rosso, Pino il Tomo, e aspettava che le comari se ne andassero per dire alla gnà Lucia: — E’ ci vuol la pioggia pei seminati! — oppure: — Le olive saranno scarse quest’anno. — A voi cosa ve ne importa? che campate sulle rane — gli diceva Lucia. — Sentite, sorella mia; siamo tutti come le dita della mano; e come gli embrici, che uno dà acqua all’altro. Se non si raccoglie né grano, né olio, non entrano denari in paese, e nessuno mi compra le mie rane. Vi capacita? — Alla ragazza quel «sorella mia» le scendeva al cuore dolce come il miele, e ci ripensava tutta la sera, mentre filava zitta accanto al lume; e ci mulinava, ci mulinava sopra, come il fuso che frullava. La mamma, sembrava che glielo leggesse nel fuso, e come da un par di settimane non si udivano più ariette alla sera, né si vedeva passare quello che vendeva le rane, diceva colla nuora: — Com’è tristo l’inverno! Ora non si sente più un’anima pel vicinato —. Adesso bisognava tener l’uscio chiuso, pel freddo, e dallo sportello non si vedeva altro che la finestra di rimpetto, nera dalla pioggia, o qualche vicino che tornava a casa, sotto il cappotto fradicio. Ma Pino il Tomo non si faceva più vivo, che se un povero malato aveva bisogno di un po’ di brodo di rane, diceva la Lucia, non sapeva come fare. — Sarà andato a buscarsi il pane in qualche altro modo — rispondeva la cognata. — Quello è un mestiere povero, di chi non sa far altro —. Santo, che un sabato sera aveva inteso la chiacchiera, per amor della sorella, le faceva il predicozzo: — A me non mi piace questa storia del Tomo. Bel partito che sarebbe per mia sorella! Uno che campa delle rane, e sta colle gambe in molle tutto il giorno! Tu devi cercarti un campagnuolo, ché se non ha roba, almeno è fatto della stessa pasta tua —. Lucia stava zitta, a capo basso e colle ciglia aggrottate, e alle volte si mordeva le labbra per non spiattellare: — Dove lo trovo il campagnuolo? — Come se stesse a lei a trovare! Quello solo che aveva trovato, ora non si faceva più vivo, forse perché la Rossa gli aveva fatto qualche partaccia, invidiosa e pettegola com’era. Già Santo parlava sempre per dettato di sua moglie, la quale andava dicendo che quello delle rane era un fannullone, e certo era arrivata all’orecchio di compare Pino. Perciò ad ogni momento scoppiava la guerra tra le due cognate: — Qui la padrona, non son io! — brontolava Lucia. — In questa casa padrona è quella che ha saputo abbindolare mio fratello, e chiapparlo per marito. — Se sapevo quel che veniva dopo, non l’abbindolavo, no, vostro fratello; ché se prima avevo bisogno di un pane, adesso ce ne vogliono cinque. — A voi che ve ne importa se quello delle rane ha un mestiere o no? Quando fosse mio marito, ci avrebbe a pensar lui a mantenermi —. La mamma, poveretta, si metteva di mezzo, colle buone; ma era donna di poche parole, e non sapeva far altro che correre dall’una all’altra, colle mani nei capelli, balbettando: — Per carità! per carità! — Ma le donne non le davano retta nemmeno, piantandosi le unghie sulla faccia, dopo che la Rossa si lasciò scappare una parolaccia «Arrabbiata!» — Arrabbiata tu! che m’hai rubato il fratello! — Allora sopravveniva Santo, e le picchiava tutte e due per metter pace, e la Rossa, piangendo, brontolava: — Io dicevo per suo bene! ché quando una si marita senza roba, poi i guai vengono presto —. E alla sorella che strillava e si strappava i capelli, Santo per rabbonirla tornava a dire: — Cosa vuoi che ci faccia, ora ch’è mia moglie? Ma ti vuol bene e parla pel tuo meglio. Lo vedi che bel guadagno ci abbiamo fatto noi due a maritarci? — Lucia si lagnava colla mamma. — Io voglio farci il guadagno che ci han fatto loro! Piuttosto voglio andare a servire! Qui se si fa vedere un cristiano, ve lo scacciano via —. E pensava a quello delle rane che non si lasciava più vedere. Dopo si venne a conoscere che era andato a stare colla vedova di massaro Mariano; anzi volevano maritarsi: perché è vero che non aveva un mestiere, ma era un pezzo di giovanotto fatto senza risparmio, e bello come San Vito in carne e in ossa addirittura; e la sciancata aveva roba da pigliarsi il marito che gli pareva e piaceva. — Guardate qua, compare Pino — gli diceva: — questa è tutta roba bianca, questi son tutti orecchini e collane d’oro; in questa giara ci son 12 cafisi d’olio; e quel graticcio è pieno di fave. Se voi siete contento, potete vivere colle mani sulla pancia, e non avrete più bisogno di stare a mezza gamba nel pantano per acchiappar le rane. — Per me sarei contento — diceva il Tomo. Ma pensava agli occhi neri di Lucia, che lo cercavano di sotto all’impannata della finestra, e ai fianchi della sciancata, che si dimenavano come quelli delle rane, mentre andava di qua e di là per la casa, a fargli vedere tutta quella roba. Però una volta che non aveva potuto buscarsi un grano da tre giorni, e gli era toccato stare in casa della vedova, a mangiare e bere, e a veder piovere dall’uscio, si persuase a dir di sì, per amor del pane. — È stato per amor del pane, vi giuro! — diceva egli colle mani in croce, quando tornò a cercare comare Lucia dinanzi all’uscio. — Se non fosse stato per la malannata non sposavo la sciancata, comare Lucia! — Andate a contarglielo alla sciancata! gli rispondeva la ragazza, verde dalla bile. — Questo solo voglio dirvi: che qui non ci avete a metter più piede —. E la sciancata gli diceva anche lei che non ci mettesse più piede, se no lo scacciava di casa sua, nudo e affamato come l’aveva preso. — Non sai che, prima a Dio, mi hai obbligo del pane che ti mangi? A suo marito non gli mancava nulla: lui ben vestito, ben pasciuto, colle scarpe ai piedi, senza aver altro da fare che bighellonare in piazza tutto il giorno, dall’ortolano, dal beccaio, dal pescatore, colle mani dietro la schiena, e il ventre pieno, a vedere contrattare la roba. — Quello è il suo mestiere, di fare il vagabondo! — diceva la Rossa. E Lucia rimbeccava che non faceva nulla perché aveva la moglie ricca che lo campava. — Se sposava me avrebbe lavorato per campar la moglie —. Santo, colla testa sulle mani, rifletteva che sua madre glielo aveva consigliato, di pigliarsela lui la sciancata, e la colpa era sua di essersi lasciato sfuggire il pan di bocca. — Quando siamo giovani — predicava alla sorella — ci abbiamo in capo gli stessi grilli che hai tu adesso, e cerchiamo soltanto quel che ci piace, senza pensare al poi. Domandalo ora alla Rossa se si dovesse tornare a fare quel che abbiamo fatto!... — La Rossa, accoccolata sulla soglia, approvava col capo, mentre i suoi marmocchi le strillavano intorno, tirandola per le vesti e pei capelli. — Almeno il Signore Iddio non dovrebbe mandarci la croce dei figliuoli! — piagnucolava. Dei figliuoli quelli che poteva se li tirava dietro nel campo, ogni mattina, come una giumenta i suoi puledri; la piccina dentro le bisacce, sulla schiena, e la più grandicella per mano. Ma gli altri tre però era costretta lasciarli a casa, a far disperare la cognata. Quella della bisaccia, e quella che le trotterellava dietro zoppicando, strillavano in concerto per la viottola, al freddo dell’alba bianca, e la mamma di tanto in tanto doveva fermarsi, grattandosi la testa e sospirando: — Oh, Signore Iddio! — e scaldava col fiato le manine pavonazze della piccina, o tirava fuori dal sacco la lattante per darle la poppa, seguitando a camminare. Suo marito andava innanzi, curvo sotto il carico, e si voltava appena per darle il tempo di raggiungerlo tutta affannata, tirandosi dietro la bambina per la mano, e col petto nudo — non era per guardare i capelli della Rossa, oppure il petto che facesse l’onda dentro il busto, come al Castelluccio. Adesso la Rossa lo buttava fuori al sole e al gelo, come roba la quale non serve ad altro che a dar latte, tale e quale come una giumenta. — Una vera bestia da lavoro — quanto a ciò non poteva lagnarsi suo marito — a zappare, a mietere e a seminare, meglio di un uomo, quando tirava su le gonnelle, colle gambe nere sino a metà, nel seminato. Ora ella aveva ventisette anni, e tutt’altro da fare che badare alle scarpette e alle calze turchine. — Siamo vecchi, — diceva suo marito, — e bisogna pensare ai figliuoli —. Almeno si aiutavano l’un l’altro come due buoi dello stesso aratro. Questo era adesso il matrimonio. — Pur troppo lo so anch’io! — brontolava Lucia — che ho i guai dei figli, senza aver marito. Quando chiude gli occhi quella vecchierella, se vogliono darmi ancora un pezzo di pane me lo danno. Ma se no, mi mettono in mezzo a una strada —. La mamma, poveretta, non sapeva che rispondere, e stava a sentirla, seduta accanto al letto, col fazzoletto in testa, e la faccia gialla dalla malattia. Di giorno s’affacciava sull’uscio, al sole, e ci stava quieta e zitta sino all’ora in cui il tramonto impallidiva sui tetti nerastri dirimpetto, e le comari chiamavano a raccolta le galline. Soltanto, quando veniva il dottore a visitarla, e la figliuola le accostava alla faccia la candela, domandava al medico, con un sorriso timido: — Per carità, vossignoria... È cosa lunga? — Santo, che aveva un cuor d’oro, rispondeva: — Non me ne importa di spendere in medicine, finché quella povera vecchierella resta qui, e so di trovarla nel suo cantuccio tornando a casa. Poi ha lavorato anch’essa la sua parte, quand’era tempo; e allorché saremo vecchi, i nostri figli faranno altrettanto per noi —. E accadde pure che Carmenio al Camemi aveva acchiappato le febbri. Se il padrone fosse stato ricco gli avrebbe comprato le medicine; ma curatolo Vito era un povero diavolo che campava su di quel po’ di mandra, e il ragazzo lo teneva proprio per carità, ché quelle quattro pecore avrebbe potuto guardarsele lui, se non fosse stata la paura della malaria. Poi voleva fare anche l’opera buona di dar pane all’orfanello di compare Nanni, per ingraziarsi la Provvidenza che doveva aiutarlo, doveva, se c’era giustizia in cielo. Che poteva farci se possedeva soltanto quel pezzetto di pascolo al Camemi, dove la malaria quagliava come la neve, e Carmenio aveva presa la terzana? Un dì che il ragazzo si sentiva le ossa rotte dalla febbre, e si lasciò vincere dal sonno a ridosso di un pietrone che stampava l’ombra nera sulla viottola polverosa, mentre i mosconi ronzavano nell’afa di maggio, le pecore irruppero nei seminati del vicino — un povero maggese grande quanto un fazzoletto da naso, che l’arsura s’era mezzo mangiato. Nonostante zio Cheli, rincantucciato sotto un tettuccio di frasche, lo guardava come la pupilla degli occhi suoi, quel seminato che gli costava tanti sudori, ed era la speranza dell’annata. Al vedere le pecore che scorazzavano. — Ah! che non ne mangiano pane, quei cristiani? — E Carmenio si svegliò alle busse ed ai calci dello zio Cheli, il quale si mise a correre come un pazzo dietro le pecore sbandate, piangendo ed urlando. Ci volevano proprio quelle legnate per Carmenio, colle ossa che gli aveva già rotte la terzana! Ma gli pagava forse il danno al vicino cogli strilli e cogli ahimè? — Un’annata persa, ed i miei figli senza pane quest’inverno! Ecco il danno che hai fatto, assassino! Se ti levassi la pelle non basterebbe! — Zio Cheli si cercò i testimoni per citarli dinanzi al giudice colle pecore di curatolo Vito. Questi, al giungergli della citazione, fu come un colpo d’accidente per lui e sua moglie. — Ah! quel birbante di Carmenio ci ha rovinati del tutto! Andate a far del bene, che ve lo rendono in tal maniera! Potevo forse stare nella malaria a guardare le pecore? Ora lo zio Cheli finisce di farci impoverire a spese! — Il poveretto corse al Camemi nell’ora di mezzogiorno, che non ci vedeva dagli occhi dalla disperazione, per tutte le disgrazie che gli piovevano addosso, e ad ogni pedata e ad ogni sorgozzone che assestava a Carmenio, balbettava ansante: — Tu ci hai ridotti sulla paglia! Tu ci hai rovinato, brigante! — Non vedete come son ridotto? — cercava di rispondere Carmenio parando le busse. — Che colpa ci ho se non potevo stare in piedi dalla febbre? Mi colse a tradimento, là, sotto il pietrone! — Ma tant’è dovette far fagotto su due piedi, dir addio al credito di due onze che ci aveva con curatolo Vito, e lasciar la mandra. Che curatolo Vito si contentava di pigliar lui le febbri un’altra volta, tante erano le sue disgrazie. A casa Carmenio non disse niente, tornando nudo e crudo, col fagotto in spalla infilato al bastone. Solo La mamma si rammaricava di vederlo così pallido e sparuto, e non sapeva che pensare. Lo seppe più tardi da don Venerando, che stava di casa lì vicino, e aveva pure della terra al Camemi, al limite del maggese dello zio Cheli. — Non dire il motivo per cui lo zio Vito ti ha mandato via! — suggeriva la mamma al ragazzo — se no, nessuno ti piglia per garzone —. E Santo aggiungeva pure: — Non dir nulla che hai la terzana, se no nessuno ti vuole, sapendo che sei malato —. Però don Venerando lo prese per la sua mandra di Santa Margherita, dove il curatolo lo rubava a man salva; e gli faceva più danno delle pecore nel seminato. — Ti darò io le medicine; così non avrai il pretesto di metterti a dormire, e di lasciarmi scorazzare le pecore dove vogliono —. Don Venerando aveva preso a benvolere tutta la famiglia per amor della Lucia, che la vedeva dal terrazzino quando pigliava il fresco al dopopranzo. — Se volete darmi anche la ragazza gli dò sei tarì al mese —. E diceva pure che Carmenio avrebbe potuto andarsene colla madre a Santa Margherita, perché la vecchia perdeva terreno di giorno in giorno, e almeno alla mandra non le sarebbero mancate le ova, il latte e il brodo di carne di pecora, quando ne moriva qualcuna. La Rossa si spogliò del meglio e del buono per metterle insieme un fagottino di roba bianca. Ora veniva il tempo della semina, loro non potevano andare e venire tutti i giorni da Licciardo, e la scarsezza d’ogni cosa arrivava coll’inverno. Lucia stavolta diceva davvero che voleva andarsene a servire in casa di don Venerando. Misero la vecchierella sul somaro, Santo da un lato e Carmenio dall’altro, colla roba in groppa; e la mamma, mentre si lasciava fare, diceva alla figliuola, guardandola cogli occhi grevi sulla faccia scialba: — Chissà se ci vedremo? chissà se ci vedremo? Hanno detto che tornerò in aprile. Tu statti col timor di Dio, in casa del padrone. Là almeno non ti mancherà nulla —. Lucia singhiozzava nel grembiale; ed anche la Rossa, poveretta. In quel momento avevano fatto la pace, e si tenevano abbracciate, piangendo insieme. — La Rossa ha il cuore buono — diceva suo marito. — Il guaio è che non siamo ricchi, per volerci sempre bene. Le galline quando non hanno nulla da beccare nella stia, si beccano fra di loro —. Lucia adesso era ben accollata, in casa di don Venerando, e diceva che voleva lasciarla soltanto dopo ch’era morta, come si suole, per dimostrare la gratitudine al padrone. Aveva pane e minestra quanta ne voleva, un bicchiere di vino al giorno, e il suo piatto di carne la domenica e le feste. Intanto la mesata le restava in tasca tale e quale, e la sera aveva tempo anche di filarsi la roba bianca della dote per suo conto. Il partito ce l’aveva già sotto gli occhi nella stessa casa: Brasi, lo sguattero che faceva la cucina, e aiutava anche nelle cose di campagna quando bisognava. Il padrone s’era arricchito allo stesso modo, stando al servizio del barone, ed ora aveva il don, e poderi e bestiami a bizzeffe. A Lucia, perché veniva da una famiglia benestante caduta in bassa fortuna, e si sapeva che era onesta, le avevano assegnate le faccende meno dure, lavare i piatti, scendere in cantina, e governare il pollaio; con un sottoscala per dormirvi che pareva uno stanzino, e il letto, il cassettone e ogni cosa; talché Lucia voleva lasciarli soltanto dopo che era morta. In quel mentre faceva l’occhietto a Brasi, e gli confidava che fra due o tre anni ci avrebbe avuto un gruzzoletto, e poteva «andare al mondo», se il Signore la chiamava. Brasi da quell’orecchio non ci sentiva. Ma gli piaceva la Lucia, coi suoi occhi di carbone, e la grazia di Dio che ci aveva addosso. A lei pure le piaceva Brasi, piccolo, ricciuto, col muso fino e malizioso di can volpino. Mentre lavavano i piatti o mettevano legna sotto il calderotto, egli inventava ogni monelleria per farla ridere, come se le facesse il solletico. Le spruzzava l’acqua sulla nuca e le ficcava delle foglie d’indivia fra le trecce. Lucia strillava sottovoce, perché non udissero i padroni; si rincantucciava nell’angolo del forno, rossa in viso al pari della bragia, e gli gettava in faccia gli strofinacci ed i sarmenti, mentre l’acqua gli sgocciolava nella schiena come una delizia. — E colla carne si fa le polpette — fate la vostra, ché la mia l’ho fatta. — Io no! — rispondeva Lucia. — A me non mi piacciono questi scherzi —. Brasi fingeva di restare mortificato. Raccattava la foglia d’indivia che gli aveva buttato in faccia, e se la ficcava in petto, dentro la camicia, brontolando: — Questa è roba mia. Io non vi tocco. È roba mia e ha da star qui. Se volete mettervi della roba mia allo stesso posto, a voi! — E faceva atto di strapparsi una manciata di capelli per offrirglieli, cacciando fuori tanto di lingua. Ella lo picchiava con certi pugni sodi da contadina che lo facevano aggobbire, e gli davano dei cattivi sogni la notte, diceva lui. Lo pigliava pei capelli, come un cagnuolo, e sentiva un certo piacere a ficcare le dita in quella lana morbida e ricciuta. — Sfogatevi! sfogatevi! Io non sono permaloso come voi, e mi lascierei pestare come la salsiccia dalle vostre mani —. Una volta don Venerando li sorprese in quei giuochetti e fece una casa del diavolo. Tresche non ne voleva in casa sua; se no li scacciava fuori a pedate tutt’e due. Piuttosto quando trovava la ragazza sola in cucina, le pigliava il ganascino, e voleva accarezzarla con due dita. — No! no! — replicava Lucia. — A me questi scherzi non mi piacciono. Se no piglio la mia roba e me ne vado. — Di lui ti piacciono, di lui! E di me che sono il padrone, no? Cosa vuol dire questa storia? Non sai che posso regalarti degli anelli e dei pendenti di oro, e farti la dote, se ne ho voglia? — Davvero poteva fargliela, confermava Brasi, che il padrone aveva danari quanti ne voleva, e sua moglie portava il manto di seta come una signora, adesso che era magra e vecchia peggio di una mummia; per questo suo marito scendeva in cucina a dir le barzellette colle ragazze. Poi ci veniva per guardarsi i suoi interessi, quanta legna ardeva e quanta carne mettevano al fuoco. Era ricco, sì, ma sapeva quel che ci vuole a far la roba, e litigava tutto il giorno con sua moglie, la quale aveva dei fumi in testa, ora che faceva la signora, e si lagnava del fumo dei sarmenti e del cattivo odore delle cipolle. — La dote voglio farmela io colle mie mani — rimbeccava Lucia. — La figlia di mia madre vuol restare una ragazza onorata, se un cristiano la cerca in moglie. — E tu restaci! — rispondeva il padrone. — Vedrai che bella dote! e quanti verranno a cercartela la tua onestà! — Se i maccheroni erano troppo cotti, se Lucia portava in tavola due ova al tegame che sentivano l’arsiccio, don Venerando la strapazzava per bene, al cospetto della moglie, tutto un altro uomo, col ventre avanti e la voce alta. — Che credevano di far l’intruglio pel maiale? Con due persone di servizio che se lo mangiavano vivo! Un’altra volta le buttava la grazia di Dio sulla faccia! — La signora, benedetta, non voleva quegli schiamazzi, per via dei vicini, e rimandava la serva strillando in falsetto: — Vattene in cucina; levati di qua, sciamannona! paneperso! — Lucia andava a piangere nel cantuccio del forno, ma Brasi la consolava, con quella sua faccia da mariuolo: — Cosa ve ne importa? Lasciateli cantare! Se si desse retta ai padroni, poveri noi! Le ova sentivano l’arsiccio? Peggio per loro! Non potevo spaccar legna nel cortile, e rivoltar le ova nel tempo istesso. Mi fanno far da cuoco e da garzone, e vogliono essere serviti come il re! Che non si rammentavano più quando lui mangiava pane e cipolla sotto un olivo, e lei gli coglieva le spighe nel campo? —. Allora serva e cuoco si confidavano la loro «mala sorte» che nascevano di «gente rispettata» e i loro parenti erano stati più ricchi del padrone, già da tempo. Il padre di Brasi era carradore, nientemeno! e la colpa era del figliuolo che non aveva voluto attendere al mestiere, e si era incapricciato a vagabondare per le fiere, dietro il carretto del merciaiuolo: con lui aveva imparato a cucinare e a governar le bestie. Lucia ricominciava la litania dei suoi guai: — il babbo, il bestiame, la Rossa, le malannate: — tutt’e due gli stessi, lei e Brasi, in quella cucina; parevano fatti l’uno per l’altra. — La storia di vostro fratello colla Rossa? — rispodeva Brasi. — Grazie tante! — Però non voleva darle quell’affronto lì sul mostaccio. Non gliene importava nulla che ella fosse una contadina. Non ricusava per superbia. Erano poveri tutti e due e sarebbe stato meglio buttarsi nella cisterna con un sasso al collo. Lucia mandò giù tutto quell’amaro senza dir motto, e se voleva piangere andava a nascondersi nel sottoscala, o nel cantuccio del forno, quando non c’era Brasi. Ormai a quel cristiano gli voleva bene, collo stare insieme davanti al fuoco tutto il giorno. I rabbuffi, le sgridate del padrone, li pigliava per sé, e lasciava a lui il miglior piatto, il bicchier di vino più colmo, andava in corte a spaccar la legna per lui, e aveva imparato a rivoltare le ova e a scodellare i maccheroni in punto. Brasi, come la vedeva fare la croce, colla scodella sulle ginocchia, prima d’accingersi a mangiare, le diceva: — Che non avete visto mai grazia di Dio? — Egli si lamentava sempre e di ogni cosa: che era una galera, e che aveva soltanto tre ore alla sera da andare a spasso o all’osteria; e se Lucia qualche volta arrivava a dirgli, col capo basso, e facendosi rossa: — Perché ci andate all’osteria? Lasciatela stare l’osteria, che non fa per voi. — Si vede che siete una contadina! — rispondeva lui. — Voi altri credete che all’osteria ci sia il diavolo. Io son nato da maestri di bottega, mia cara. Non son mica un villano! — Lo dico per vostro bene. Vi spendete i soldi, e poi c’è sempre il caso d’attaccar lite con qualcheduno —. Brasi si sentì molle a quelle parole e a quegli occhi che evitavano di guardarlo. E si godeva il solluchero: — O a voi cosa ve ne importa? — Nulla me ne importa. Lo dico per voi. — O voi non vi seccate a star qui in casa tutto il giorno? — No, ringrazio Iddio del come sto, e vorrei che i miei parenti fossero come me, che non mi manca nulla —. Ella stava spillando il vino, accoccolata colla mezzina fra le gambe, e Brasi era sceso con lei in cantina a farle lume. Come la cantina era grande e scura al pari di una chiesa, e non si udiva una mosca in quel sotterraneo, soli tutti e due, Brasi e Lucia, egli le mise un braccio al collo e la baciò su quella bocca rossa al pari del corallo. La poveretta l’aspettava sgomenta, mentre stava china tenendo gli occhi sulla brocca, e tacevano entrambi, e udiva il fiato grosso di lui, e il gorgogliare del vino. Ma pure mise un grido soffocato, cacciandosi indietro tutta tremante, così che un po’ di spuma rossa si versò per terra. — O che è stato? — esclamò Brasi. — Come se v’avessi dato uno schiaffo! Dunque non è vero che mi volete bene? Ella non osava guardarlo in faccia, e si struggeva dalla voglia. Badava al vino versato, imbarazzata, balbettando: — O povera me! o povera me! che ho fatto? Il vino del padrone!... — Eh! lasciate correre; ché ne ha tanto il padrone. Date retta a me piuttosto. Che non mi volete bene? Ditelo, sì o no! — Ella stavolta si lascia prendere la mano, senza rispondere, e quando Brasi le chiese che gli restituisse il bacio, ella glielo diede, rossa di una cosa che non era vergogna soltanto. — Che non ne avete avuti mai? — domandava Brasi ridendo. — O bella! siete tutta tremante come se avessi detto di ammazzarvi. — Sì, vi voglio bene anch’io — rispose lei; — e mi struggevo di dirvelo. Se tremo ancora non ci badate. È stata per la paura del vino. — O guarda! anche voi? E da quando! Perché non me lo avete detto? — Da quando s’è parlato che eravamo fatti l’uno per l’altro. — Ah! — disse Brasi, grattandosi il capo. — Andiamo di sopra, che può venire il padrone —. Lucia era tutta contenta dopo quel bacio, e le sembrava che Brasi le avesse suggellato sulla bocca la promessa di sposarla. Ma lui non ne parlava neppure, e se la ragazza gli toccava quel tasto, rispondeva: — Che premura hai? Poi è inutile mettersi il giogo sul collo, quando possiamo stare insieme come se fossimo maritati. — No, non è lo stesso. Ora voi state per conto vostro ed io per conto mio; ma quando ci sposeremo, saremo una cosa sola. — Una bella cosa saremo! Poi non siamo fatti della stessa pasta. Pazienza, se tu avessi un po’ di dote! — Ah! che cuore nero avete voi! No! Voi non mi avete voluto bene mai! — Sì, che ve n’ho voluto. E son qui tutto per voi; ma senza parlar di quella cosa. — No! Non ne mangio di quel pane! lasciatemi stare, e non mi guardate più! — Ora lo sapeva com’erano fatti gli uomini. Tutti bugiardi e traditori. Non voleva sentirne più parlare. Voleva buttarsi nella cisterna piuttosto a capo in giù; voleva farsi Figlia di Maria; voleva prendere il suo buon nome e gettarlo dalla finestra! A che le serviva, senza dote? Voleva rompersi il collo con quel vecchiaccio del padrone, e procurarsi la dote colla sua vergogna. Ormai!... Ormai!... Don Venerando l’era sempre attorno, ora colle buone, ora colle cattive, per guardarsi i suoi interessi, se mettevano troppa legna al fuoco, quanto olio consumavano per la frittura, mandava via Brasi a comprargli un soldo di tabacco, e cercava di pigliare Lucia pel ganascino, correndole dietro per la cucina, in punta di piedi perché sua moglie non udisse, rimproverando la ragazza che gli mancava di rispetto, col farlo correre a quel modo! — No! no! — ella pareva una gatta inferocita. — Piuttosto pigliava la sua roba, e se ne andava via! — E che mangi? E dove lo trovi un marito senza dote? Guarda questi orecchini! Poi ti regalerei 20 onze per la tua dote. Brasi per 20 onze si fa cavare tutti e due gli occhi! — Ah! quel cuore nero di Brasi! La lasciava nelle manacce del padrone, che la brancicavano tremanti! La lasciava col pensiero della mamma che poco poteva campare, della casa saccheggiata e piena di guai, di Pino il Tomo che l’aveva piantata per andare a mangiare il pane della vedova! La lasciava colla tentazione degli orecchini e delle 20 onze nella testa! E un giorno entrò in cucina colla faccia tutta stravolta, e i pendenti d’oro che gli sbattevano sulle guance. Brasi sgranava gli occhi, e le diceva: — Come siete bella così, comare Lucia! — Ah! vi piaccio così? Va bene, va bene! — Brasi ora che vedeva gli orecchini e tutto il resto, si sbracciava a mostrarsi servizievole e premuroso quasi ella fosse diventata un’altra padrona. Le lasciava il piatto più colmo, e il posto migliore accanto al fuoco. Con lei si sfogava a cuore aperto, ché erano poverelli tutti e due, e faceva bene all’anima confidare i guai a una persona che si vuol bene. Se appena appena fosse arrivato a possedere 20 onze, egli metteva su una piccola bettola e prendeva moglie. Lui in cucina, e lei al banco. Così non si stava più al comando altrui. Il padrone se voleva far loro del bene, lo poteva fare senza scomodarsi, giacché 20 onze per lui erano come una presa di tabacco. E Brasi non sarebbe stato schizzinoso, no! Una mano lava l’altra a questo mondo. E non era sua colpa se cercava di guadagnarsi il pane come poteva. Povertà non è peccato. Ma Lucia si faceva rossa, o pallida, o le si gonfiavano gli occhi di pianto, e si nascondeva il volto nel grembiale. Dopo qualche tempo non si lasciò più vedere nemmeno fuori di casa, né a messa, né a confessare, né a Pasqua, né a Natale. In cucina si cacciava nell’angolo più scuro, col viso basso, infagottata nella veste nuova che le aveva regalato il padrone, larga di cintura. Brasi la consolava con buone parole. Le metteva un braccio al collo, le palpava la stoffa fine del vestito, e gliela lodava. Quegli orecchini d’oro parevano fatti per lei. Uno che è ben vestito e ha denari in tasca non ha motivo di vergognarsi e di tenere gli occhi bassi; massime poi quando gli occhi son belli come quelli di comare Lucia. La poveretta si faceva animo a fissarglieli in viso, ancora sbigottita, e balbettava: — Davvero, mastro Brasi? Mi volete ancora bene? — Sì, sì, ve ne vorrei! — rispondeva Brasi colla mano sulla coscienza. — Ma che colpa ci ho se non son ricco per sposarvi? Se aveste 20 onze di dote vi sposerei ad occhi chiusi —. Don Venerando adesso aveva preso a ben volere anche lui, e gli regalava i vestiti smessi e gli stivali rotti. Allorché scendeva in cantina gli dava un bel gotto di vino, dicendogli: — Tè! bevi alla mia salute —. E il pancione gli ballava dal tanto ridere, al vedere le smorfie che faceva Brasi, e al sentirlo barbugliare alla Lucia, pallido come un morto: — Il padrone è un galantuomo, comare Lucia! lasciate ciarlare i vicini, tutta gente invidiosa, che muore di fame, e vorrebbero essere al vostro posto —. Santo, il fratello, udì la cosa in piazza qualche mese dopo. E corse dalla moglie trafelato. Poveri erano sempre stati, ma onorati. La Rossa allibì anch’essa, e corse dalla cognata tutta sottosopra, che non poteva spiccicar parola. Ma quando tornò a casa da suo marito, era tutt’altra, serena e colle rose in volto. — Se tu vedessi! Un cassone alto così di roba bianca! anelli, pendenti e collane d’oro fine. Poi vi son anche 20 onze di danaro per la dote. Una vera provvidenza di Dio! — Non monta! — Tornava a dire di tanto in tanto il fratello, il quale non sapeva capacitarsene. — Almeno avesse aspettato che chiudeva gli occhi nostra madre!... — Questo poi accadde l’anno della neve, che crollarono buon numero di tetti, e nel territorio ci fu una gran mortalità di bestiame, Dio liberi! Alla Lamia e per la montagna di Santa Margherita, come vedevano scendere quella sera smorta, carica di nuvoloni di malaugurio, che i buoi si voltavano indietro sospettosi, e muggivano, la gente si affacciava dinanzi ai casolari, a guardar lontano verso il mare, colla mano sugli occhi, senza dir nulla. La campana del Monastero Vecchio, in cima al paese, suonava per scongiurare la malanotte, e sul poggio del Castello c’era un gran brulichìo di comari, nere sull’orizzonte pallido, a vedere in cielo la coda del drago, una striscia color di pece, che puzzava di zolfo, dicevano, e voleva essere una brutta notte. Le donne gli facevano gli scongiuri colle dita, al drago, gli mostravano l’abitino della Madonna sul petto nudo, e gli sputavano in faccia, tirando giù la croce sull’ombelico, e pregavano Dio e le anime del purgatorio, e Santa Lucia, che era la sua vigilia, di proteggere i campi, e le bestie, e i loro uomini anch’essi, chi ce li avea fuori del paese. Carmenio al principio dell’inverno era andato colla mandra a Santa Margherita. La mamma quella sera non istava bene, e si affannava pel lettuccio, cogli occhi spalancati, e non voleva star più quieta come prima, e voleva questo, e voleva quell’altro, e voleva alzarsi, e voleva che la voltassero dall’altra parte. Carmenio un po’ era corso di qua e di là, a darle retta, e cercare di fare qualche cosa. Poi si era piantato dinanzi al letto, sbigottito, colle mani nei capelli. Il casolare era dall’altra parte del torrente, in fondo alla valle, fra due grossi pietroni che gli si arrampicavano sul tetto. Di faccia, la costa, ritta in piedi, cominciava a scomparire nel buio che saliva dal vallone, brulla e nera di sassi, fra i quali si perdeva la striscia biancastra del viottolo. Al calar del sole erano venuti i vicini della mandra dei fichidindia, a vedere se occorreva nulla per l’inferma, che non si moveva più nel suo lettuccio, colla faccia in aria e la fuliggine al naso. — Cattivo segno! — aveva detto curatolo Decu. — Se non avessi lassù le pecore, con questo tempo che si prepara, non ti lascierei solo stanotte. Chiamami, se mai! — Carmenio rispondeva di sì, col capo appoggiato allo stipite; ma vedendolo allontanare passo passo, che si perdeva nella notte, aveva una gran voglia di corrergli dietro, di mettersi a gridare, di strapparsi i capelli — non sapeva che cosa. — Se mai — gli gridò curatolo Decu da lontano — corri fino alla mandra dei fichidindia, lassù, che c’è gente —. La mandra si vedeva tuttora sulla roccia, verso il cielo, per quel po’ di crepuscolo che si raccoglieva in cima ai monti, e straforava le macchie dei fichidindia. Lontan lontano, alla Lamia e verso la pianura, si udiva l’uggiolare dei cani auuuh!... auuuh!... auuuh!... che arrivava appena sin là, e metteva freddo nelle ossa. Le pecore allora si spingevano a scorazzare in frotta pel chiuso, prese da un terrore pazzo, quasi sentissero il lupo nelle vicinanze, e a quello squillare brusco di campanacci sembrava che le tenebre si accendessero di tanti occhi infuocati, tutto in giro. Poi le pecore si arrestavano immobili, strette fra di loro, col muso a terra, e il cane finiva d’abbaiare in un uggiolato lungo e lamentevole, seduto sulla coda. — Se sapevo! — pensava Carmenio — era meglio dire a curatolo Decu di non lasciarmi solo —. Di fuori, nelle tenebre, di tanto in tanto si udivano i campanacci della mandra che trasalivano. Dallo spiraglio si vedeva il quadro dell’uscio nero come la bocca di un forno; null’altro. E la costa dirimpetto, e la valle profonda, e la pianura della Lamia, tutto si sprofondava in quel nero senza fondo, che pareva si vedesse soltanto il rumore del torrente, laggiù, a montare verso il casolare, gonfio e minaccioso. Se sapeva, anche questa! prima che annottasse correva al paese a chiamare il fratello; e certo a quell’ora sarebbe qui con lui, ed anche Lucia e la cognata. Allora la mamma cominciò a parlare, ma non si capiva quello che dicesse, e brancolava pel letto colle mani scarne. — Mamma! mamma! cosa volete? — domandava Carmenio — ditelo a me che son qui con voi! — Ma la mamma non rispondeva. Dimenava il capo anzi, come volesse dir no! no! non voleva. Il ragazzo le mise la candela sotto il naso, e scoppiò a piangere dalla paura. — O mamma! mamma mia! — piagnucolava Carmenio —. O che sono solo e non posso darvi aiuto! — Aprì l’uscio per chiamare quelli della mandra dei fichidindia. Ma nessuno l’udiva. Dappertutto era un chiarore denso; sulla costa, nel vallone, laggiù al piano — come un silenzio fatto di bambagia. Ad un tratto arrivò soffocato il suono di una campana che veniva da lontano, ’nton! ’nton! ’nton! e pareva quagliasse nella neve. — Oh, Madonna santissima! — singhiozzava Carmenio —. Che sarà mai quella campana? O della mandra dei fichidindia, aiuto! O santi cristiani, aiuto! Aiuto, santi cristiani! — si mise a gridare. Infine lassù, in cima al monte dei fichidindia, si udì una voce lontana, come la campana di Francofonte. — Ooooh... cos’èeee? cos’èeee?... — Aiuto, santi cristiani! aiuto, qui da curatolo Decuuu!... — Ooooh... rincorrile le pecoreee!... rincorrileeee!... — No! no! non son le pecore... non sono! — In quella passò una civetta, e si mise a stridere sul casolare. — Ecco! — mormorò Carmenio facendosi la croce. — Ora la civetta ha sentito l’odore dei morti! Ora la mamma sta per morire! — A star solo nel casolare colla mamma, la quale non parlava più, gli veniva voglia di piangere. — Mamma, che avete? Mamma, rispondetemi? Mamma avete freddo? — Ella non fiatava, colla faccia scura. Accese il fuoco, fra i due sassi del focolare, e si mise a vedere come ardevano le frasche, che facevano una fiammata, e poi soffiavano come se ci dicessero su delle parole. Quando erano nelle mandre di Resecone, quello di Francofonte, a veglia, aveva narrato certe storie di streghe che montano a cavallo delle scope, e fanno degli scongiuri sulla fiamma del focolare. Carmenio si rammentava tuttora la gente della fattoria, raccolta ad ascoltare con tanto d’occhi, dinanzi al lumicino appeso al pilastro del gran palmento buio, che a nessuno gli bastava l’animo di andarsene a dormire nel suo cantuccio, quella sera. Giusto ci aveva l’abitino della Madonna sotto la camicia, e la fettuccia di santa Agrippina legata al polso, che s’era fatta nera dal tempo. Nella stessa tasca ci aveva il suo zufolo di canna, che gli rammentava le sere d’estate — Juh! juh! — quando si lasciano entrare le pecore nelle stoppie gialle come l’oro, dappertutto, e i grilli scoppiettano nell’ora di mezzogiorno, e le lodole calano trillando a rannicchiarsi dietro le zolle col tramonto, e si sveglia l’odore della nepitella e del ramerino. — Juh! juh! Bambino Gesù! — A Natale, quando era andato al paese, suonavano così per la novena, davanti all’altarino illuminato e colle frasche d’arancio, e in ogni casa, davanti all’uscio, i ragazzi giocavano alla fossetta, col bel sole di dicembre sulla schiena. Poi s’erano avviati per la messa di mezzanotte, in folla coi vicini, urtandosi e ridendo per le strade buie. Ah! perché adesso ci aveva quella spina in cuore? e la mamma che non diceva più nulla!! ancora per mezzanotte ci voleva un gran pezzo. Fra i sassi delle pareti senza intonaco pareva che ci fossero tanti occhi ad ogni buco, che guardavano dentro, nel focolare, gelati e neri. Sul suo stramazzo, in un angolo, era buttato un giubbone, lungo disteso, che pareva le maniche si gonfiassero; e il diavolo del San Michele Arcangelo, nella immagine appiccicata a capo del lettuccio, digrignava i denti bianchi, colle mani nei capelli, fra i zig—zag rossi dell’inferno. L’indomani, pallidi come tanti morti, arrivarono Santo, la Rossa coi bambini dietro, e Lucia che in quell’angustia non pensava a nascondere il suo stato. Attorno al lettuccio della morta si strappavano i capelli, e si davano dei pugni in testa, senza pensare ad altro. Poi come Santo si accorse della sorella con tanto di pancia, ch’era una vergogna, si mise a dire in mezzo al piagnisteo: — Almeno avesse lasciato chiudere gli occhi a quella vecchierella, almeno!... E Lucia dal canto suo: — L’avessi saputo, l’avessi! Non le facevo mancare il medico e lo speziale, ora che ho 20 onze. — Ella è in paradiso e prega Dio per noi peccatori; — conchiude la Rossa. — Sa che la dote ce l’avete, ed è tranquilla, poveretta. Mastro Brasi ora vi sposerà di certo —. I galantuomini Sanno scrivere — qui sta il guaio. La brinata dell’alba scura, e il sollione della messe, se li pigliano come tutti gli altri poveri diavoli, giacché son fatti di carne e d’ossa come il prossimo, per andare a sorvegliare che il prossimo non rubi loro il tempo e il denaro della giornata. Ma se avete a far con essi, vi uncinano nome e cognome, e chi vi ha fatto, col beccuccio di quella penna, e non ve ne districate più dai loro libracci, inchiodati nel debito. — Tu devi ancora due tumoli di grano dell’anno scorso. — Signore, la raccolta fu scarsa! — È colpa mia se non piovve? Dovevo forse abbeverare i seminati col bicchiere? — Signore, gli ho dato il sangue mio alla vostra terra! — Per questo ti pago, birbante! Ti pago a sangue d’uomo! Io mi dissanguo in spese di cultura, e poi se viene la malannata, mi piantate la mezzeria, e ve ne andate colla falce sotto l’ascella! — E dicono pure: — Val più un pezzente di un potente —; che non si può cavargli la pelle pel suo debito. Per ciò chi non ha nulla deve pagar la terra più cara degli altri, — il padrone ci arrischia di più — e se la raccolta viene magra, il mezzadro è certo di non perder nulla, e andarsene via con la falce sotto l’ascella. Ma l’andarsene in tal modo è anche una brutta cosa, dopo un anno di fatiche, e colla prospettiva dell’inverno lungo senza pane. È che la malannata caccia ad ognuno il diavolo in corpo. Una volta, alla messe, che pareva scomunicata da Dio, il frate della cerca arrivò verso mezzogiorno nel podere di don Piddu, spronando cogli zoccoli nella pancia della bella mula baia, e gridando da lontano: — Viva Gesù e Maria! — Don Piddu era seduto su di un cestone sfondato, guardando tristamente l’aia magra, in mezzo alle stoppie riarse, sotto quel cielo di fuoco che non lo sentiva nemmeno sul capo nudo, dalla disperazione. — Oh! la bella mula che avete, fra Giuseppe! La val meglio di quelle quattro rozze magre, che non hanno nulla da trebbiare né da mangiare! — È la mula della questua — rispose fra Giuseppe. — Sia lodata la carità del prossimo. Vengo per la cerca. — Beato voi che senza seminare raccogliete, e al tocco di campana scendete in refettorio, e vi mangiate la carità del prossimo! Io ho cinque figli, e devo pensare al pane per tutti loro. Guardate che bella raccolta! L’anno scorso mi avete acchiappato mezza salma di grano perché S. Francesco mi mandasse la buonannata, e in compenso da tre mesi non piovve dal cielo altro che fuoco —. Fra Giuseppe si asciugava il sudore anche lui col fazzoletto da naso. — Avete caldo, fra Giuseppe? Ora vi faccio dare un rinfresco! — E glielo fece dare per forza da quattro contadini arrabbiati come lui, che gli arrovesciarono il saio sul capo, e gli buttavano addosso a secchi l’acqua verdastra del guazzatoio. — Santo diavolone! — gridava don Piddu. — Poiché non giova nemmeno far la limosina a Cristo, voglio farla al diavolo un’altra volta! — E d’allora non volle più cappuccini per l’aia, e si contentò che per la questua venissero piuttosto quelli di San Francesco di Paola. Fra Giuseppe se la legò al dito. — Ah! avete voluto veder le mie mutande, don Piddu? Io vi ridurrò senza mutande e senza camicia! — Era un pezzo di fratacchione con tanto di barba, e la collottola nera e larga come un bue di Modica, perciò nei vicoli e in tutti i cortili era l’oracolo delle comari e dei contadini. — Con don Piddu non dovete averci che fare. Guardate che è scomunicato da Dio, e la sua terra ha la maledizione addosso! — Quando venivano i missionari, negli ultimi giorni di carnevale, per gli esercizi spirituali della quaresima, e se c’era un peccatore o una mala femmina, od anche gente allegra, andavano a predicargli dietro l’uscio, in processione e colla disciplina al collo pei peccati altrui, fra Giuseppe additava la casa di don Piddu, che non gliene andava bene più una: le malannate, la mortalità nel bestiame, la moglie inferma, le figliuole da maritare, tutte già belle e pronte. Donna Saridda, la maggiore, aveva quasi trent’anni, e si chiamava ancora donna Saridda perché non crescesse tanto presto. Al festino del sindaco, il martedì grasso, aveva acchiappato finalmente uno sposo, ché Pietro Macca dal tinello li aveva visti stringersi la mano con don Giovannino, mentre andavano annaspando nella contraddanza. Don Piddu s’era levato il pan di bocca per condurre la figliuola al festino colla veste di seta aperta a cuore sul petto. Chissà mai! In quella i missionari predicavano contro le tentazioni davanti il portone del sindaco, per tutti quei peccati che si facevano là dentro, e dal sindaco dovettero chiudere le finestre, se no la gente dalla strada rompeva a sassate tutti i vetri. Donna Saridda se ne tornò a casa tutta contenta, come se ci avesse in tasca il terno al lotto; e non dormì quella notte, pensando a don Giovannino, senza sapere che fra Giuseppe avesse a dirgli: — Siete pazzo, vossignoria, ad entrare nella casata di don Piddu, che fra poco ci fanno il pignoramento? — Don Giovannino non badava alla dote. Ma il disonore del pignoramento poi era un altro par di maniche! La gente si affollava dinanzi al portone di don Piddu, a vedergli portar via gli armadi e i cassettoni, che lasciavano il segno bianco nel muro dove erano stati tanto tempo, e le figliuole, pallide come cera, avevano un gran da fare per nascondere alla mamma, in fondo a un letto, quel che succedeva. Lei, poveretta, fingeva di non accorgersene. Prima era andata col marito a pregare, a scongiurare, dal notaio, dal giudice: — Pagheremo domani — pagheremo doman l’altro —. E tornavano a casa rasente al muro, lei colla faccia nascosta dentro il manto — ed era sangue di baroni! Il dì del pignoramento donna Saridda, colle lagrime agli occhi, era andata a chiudere tutte le finestre, perché quelli che son nati col don vanno soggetti anche alla vergogna. Don Piddu, quando per carità l’avevano preso sorvegliante alle chiuse del Fiumegrande, nel tempo delle messe, che la malaria si mangiava i cristiani, non gli rincresceva della malaria; gli doleva solo che i contadini, allorché questionavano con lui, mettevano da parte il don, e lo trattavano a tu per tu. Almeno un povero diavolo, sinché ha le braccia e la salute, trova da buscarsi il pane. — Quello che diceva don Marcantonio Malerba, quando cadde in povertà, carico di figliuoli, la moglie sempre gravida, che doveva fare il pane, preparare la minestra, la biancheria e scopar le stanze. I galantuomini hanno bisogno di tante altre cose, e sono avvezzi in altro modo. I ragazzi di don Marcantonio, quando stavano a ventre vuoto tutto un giorno, non dicevano nulla, ed il più grandicello, se il babbo lo mandava a comprare un pane a credenza, o un fascio di lattughe, ci andava di sera, a viso basso, nascondendolo sotto il mantello rattoppato. Il papà si dava le mani attorno per buscare qualche cosa, pigliando un pezzo di terra in affitto, o a mezzeria. Tornava a piedi dalla campagna, più tardi di ogni altro, con quello straccio di scialle di sua moglie che chiamava pled, e la sua brava giornata di zappare se la faceva anche lui, quando nella viottola non passava nessuno. Poi la domenica andava a fare il galantuomo insieme agli altri nel casino di conversazione, ciaramellando in crocchio fra di loro, colle mani in tasca e il naso dentro il bavero del cappotto; o giuocavano a tressette colla mazza fra le gambe e il cappello in testa. Al tocco di mezzogiorno sgattaiolavano in furia chi di qua chi di là, ed egli se ne andava a casa, come se ci avesse sempre pronto il desinare anche lui. — Che posso farci? — diceva. — A giornata non posso andarci coi miei figli! — Anche i ragazzi, allorché il padre li mandava a chiedere in prestito mezza salma di farro per la semina, o qualche tumulo di fave per la minestra, dallo zio Masi, o da massaro Pinu, si facevano rossi, e balbettavano come fossero già grandi. Quando venne il fuoco da Mongibello, e distrusse vigne e oliveti, chi aveva braccia da lavorare almeno non moriva di fame. Ma i galantuomini che possedevano le loro terre da quelle parti, sarebbe stato meglio che la lava li avesse seppelliti coi poderi, loro, i figliuoli e ogni cosa. La gente che non ci aveva interesse andava a vedere il fuoco fuori del paese, colle mani in tasca. — Oggi aveva preso la vigna del tale, domani sarebbe entrato nel campo del tal altro; ora minacciava il ponte della strada, più tardi circondava la casetta a mano destra. Chi non stava a guardare si affaccendava a levar tegole, imposte, mobili, a sgombrar le camere, e salvar quello che si poteva, perdendo la testa nella fretta e nella disperazione, come un formicaio in scompiglio. A don Marco gli portarono la notizia mentre era a tavola colla famiglia, dinanzi al piatto dei maccheroni. — Signor don Marco, la lava ha deviato dalla vostra parte, e più tardi avrete il fuoco nella vostra vigna —. Allo sventurato gli cadde di mano la forchetta. Il custode della vigna stava portando via gli attrezzi del palmento, le doghe delle botti, tutto quello che si poteva salvare, e sua moglie andava a piantare al limite della vigna le cannucce colle immagini dei santi che dovevano proteggerla, biascicando avemarie. Don Marco arrivò trafelato, cacciandosi innanzi l’asinello, in mezzo al nuvolone scuro che pioveva cenere. Dal cortiletto davanti al palmento si vedeva la montagna nera che si accatastava attorno alla vigna, fumando, franando qua e là, con un acciottolìo come se si fracassasse un monte di stoviglie, spaccandosi per lasciar vedere il fuoco rosso che bolliva dentro. Da lontano, prima ancora che fossero raggiunti, gli alberi più alti s’agitavano e stormivano nell’aria queta; poi fumavano e scricchiolavano; ad un tratto avvampavano e facevano una fiammata sola. Sembravano delle torce che s’accendessero ad una ad una nel tenebrore della campagna silenziosa, lungo il corso della lava. La moglie del custode della vigna andava sostituendo più in qua le cannucce colle immagini benedette, man mano che s’accendevano come fiammiferi; e piangeva, spaventata, davanti a quella rovina, pensando che il padrone non aveva più bisogno di custode, e li avrebbe licenziati. E il cane di guardia uggiolava anch’esso dinanzi alla vigna che bruciava. Il palmento, spalancato, senza tetto, con tutta quella roba buttata nel cortile, in mezzo alla campagna spaventata, sembrava tremasse di paura, mentre lo spogliavano prima di abbandonarlo. — Che cosa state facendo? — chiese don Marco al custode che voleva salvare le botti e gli attrezzi del palmento. — Lasciate stare. Ormai non ho più nulla, e non ho che metterci nelle botti —. Baciò il rastrello della vigna un’ultima volta prima di abbandonarla e se ne tornò indietro, tirandosi per la cavezza l’asinello. Al nome di Dio! Anche i galantuomini hanno i loro guai, e son fatti di carne e di ossa come il prossimo. Prova donna Marina, l’altra figlia di don Piddu che s’era buttata al ragazzo della stalla, dacché aveva persa la speranza di maritarsi, e stavano in campagna pel bisogno, fra i guai; i genitori la tenevano priva di uno straccio di veste nuova, senza un cane che gli abbaiasse dietro. Nel meriggio di una calda giornata di luglio, mentre i mosconi ronzavano nell’aia deserta, e i genitori cercavano di dormire col naso contro il muro, andò a trovare dietro il pagliaio il ragazzo, il quale si faceva rosso e balbettava ogni volta che ella gli ficcava gli occhi addosso, e l’afferrò pei capelli onde farsi dare un bacio. Don Piddu sarebbe morto di vergogna. Dopo il pignoramento, dopo la miseria, non avrebbe creduto di poter cascare più giù. La povera madre lo seppe nel comunicarsi a Pasqua. Una santa, colei! Don Piddu era chiuso, insieme a tutti gli altri galantuomini, nel convento dei cappuccini per fare gli esercizi spirituali. I galantuomini si riunivano coi loro contadini a confessarsi e sentir le prediche; anzi, faceva loro le spese del mantenimento, nella speranza che i garzoni si convertissero, se avevano rubato, e restituissero il mal tolto. Quegli otto giorni degli esercizi spirituali, galantuomini e villani tornavano fratelli come al tempo di Adamo ed Eva; e i padroni per umiltà servivano a tavola i garzoni colle loro mani, ché a costoro quella grazia di Dio andava giù di traverso per la soggezione; e nel refettorio, al rumore di tutte quelle mascelle in moto, sembrava che ci fosse una stalla di bestiame, mentre i missionari predicavano l’inferno e il purgatorio. Quell’anno don Piddu non avrebbe voluto andarci, perché non aveva di che pagare la sua parte, e poi non potevano rubargli più nulla i suoi garzoni. Ma lo fece chiamare il giudice, e lo mandò a farsi santo per forza, onde non desse il cattivo esempio. Quegli otto giorni erano una manna per chi ci avesse da fare nella casa di un povero diavolo, senza timore che il marito arrivasse improvviso di campagna a guastar la festa. La porta del convento era chiusa per tutti, ma i giovanotti che avevano da spendere, appena era notte, sgusciavano fuori e non tornavano prima dell’alba. Ora don Piddu, dopo che gli giunsero all’orecchio certe chiacchiere che s’era lasciato scappare fra Giuseppe, una notte sgattaiolò fuori di nascosto, come se avesse avuto vent’anni, o l’innamorata che l’aspettasse, e non si sa quel che andò a sorprendere a casa sua. Certo quando rincasò prima dell’alba era pallido come un morto, e sembrava invecchiato di cent’anni. Questa volta il contrabbando era stato sorpreso, e come i donnaiuoli tornavano in convento, trovavano il padre missionario inginocchiato dietro l’uscio, a pregare pei peccati che gli altri erano andati a fare. Don Piddu si buttò ginocchioni anche lui, per confessarsi all’orecchio del missionario, piangendo tutte le lagrime che ci aveva negli occhi. Ah! quel che aveva trovato! lì, a casa sua! in quel camerino di sua figlia che nemmeno c’entrava il sole!... Il ragazzo di stalla, che scappava dalla finestra; e Marina pallida come una morta che pure osava guardarlo in faccia, e si afferrava colle braccia disperate allo stipite dell’uscio per difendere l’amante. Allora gli passarono dinanzi agli occhi le altre figliuole, e la moglie inferma, e i giudici e i gendarmi, in un mare di sangue. — Tu! tu! — balbettava. Ella tremava tutta, la scellerata, ma non rispondeva. Poi cadde sui ginocchi, colle mani giunte come se gli leggesse in faccia il parricidio. Allora egli fuggì via colle mani nei capelli. Ma il confessore che gli consigliava di offrire a Dio quell’angustia, avrebbe dovuto dirgli: — Vedete, vossignoria, anche gli altri poveretti, quando gli succede la stessa disgrazia... stanno zitti perché son poveri, e non sanno di lettera, e non sanno sfogarsi altrimenti che coll’andare in galera! — Libertà Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: — Viva la libertà! — Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. — A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! — Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. — A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! — A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! — A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! — A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! — E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! — Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! — Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. — Perché? perché mi ammazzate? — Anche tu! al diavolo! — Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. — Abbasso i cappelli! Viva la libertà! — Te’! tu pure! — Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. — Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! — La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. — Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse — lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia — don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. — Paolo! Paolo! — Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: — Neddu! Neddu! — Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. — Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; — strappava il cuore! — Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni — e tremava come una foglia. — Un altro gridò: — Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! — Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! — Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. — Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! — Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! — Te’! Te’! — Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. — Viva la libertà! — E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. — I campieri dopo! — I campieri dopo! — Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata — e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: — Mamà! mamà! — Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo capestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. — Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! — Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. — Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! — Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! — Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! — E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? — Ladro tu e ladro io —. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! — Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo — ahi! — ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: — Sta tranquilla che non ne esce più —. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci. Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia — ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. — Voi come vi chiamate? — E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: — Sul mio onore e sulla mia coscienza!... Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la liberta!... — Di là del mare Ella ascoltava, avviluppata nella pelliccia, e colle spalle appoggiate alla cabina, fissando i grandi occhi pensosi nelle ombre vaganti del mare. Le stelle scintillavano sul loro capo, e attorno a loro non si udiva altro che il sordo rumore della macchina, e il muggito delle onde che si perdevano verso orizzonti sconfinati. A poppa, dietro le loro spalle, una voce che sembrava lontana, canticchiava sommessamente una canzone popolare, accompagnandosi coll’organetto. Ella pensava forse alle calde emozioni provate la sera innanzi alla rappresentazione del San Carlo; o alla riviera di Chiaia, sfolgorante di luce, che si erano lasciata dietro le loro spalle. Aveva preso il braccio di lui mollemente, coll’abbandono dell’isolamento in cui erano, e s’era appoggiata al parapetto, guardando la striscia fosforescente che segnava il battello, e in cui l’elica spalancava abissi inesplorati, quasi cercasse di indovinare il mistero di altre esistenze ignorate. Dal lato opposto, verso le terre su cui Orione inchinavasi, altre esistenze sconosciute e quasi misteriose palpitavano e sentivano, chissà? povere gioie e poveri dolori, simili a quelli da lui narrati. — La donna ci pensava vagamente colle labbra strette, gli occhi fissi nel buio dell’orizzonte. Prima di separarsi stettero un altro po’ sull’uscio della cabina, al chiarore vacillante della lampada che dondolava. Il cameriere, rifinito dalla fatica, dormiva accoccolato sulla scala, sognando forse la sua casetta di Genova. A poppa il lume della bussola rischiarava appena la figura membruta dell’uomo che era al timone, immobile, cogli occhi fissi sul quadrante, e la mente chissà dove. A prua si udiva sempre la mesta cantilena siciliana, che narrava a modo suo di gioie, di dolori, o di speranze umili, in mezzo al muggito uniforme del mare, e al va e vieni regolare e impassibile dello stantuffo. Sembrava che la donna non sapesse risolversi a lasciare la mano di lui. Infine alzò gli occhi e gli sorrise tristamente: — Domani! — sospirò. Egli chinò il capo senza rispondere. — Vi ricorderete sempre di questa ultima sera? — Egli non rispose. — Io sì! — aggiunse la donna. All’alba si rividero sul ponte. Il visetto delicato di lei sembrava abbattutto dall’insonnia. La brezza le scomponeva i morbidi capelli neri. Diggià la Sicilia sorgeva come una nuvola in fondo all’orizzonte. Poi l’Etna si accese tutt’a un tratto d’oro e di rubini, e la costa bianchiccia si squarciò qua e là in seni e promontori oscuri. A bordo cominciava l’affaccendarsi del primo servizio mattutino. I passeggieri salivano ad uno ad uno sul ponte, pallidi, stralunati, imbacuccati diversamente, masticando un sigaro e barcollando. La grù cominciava a stridere, e la canzone della notte taceva come sbigottita e disorientata in tutto quel movimento. Sul mare turchino e lucente, delle grandi vele spiegate passavano a poppa, dondolando i vasti scafi che sembravano vuoti, con pochi uomini a bordo che si mettevano la mano sugli occhi per vedere passare il vapore superbo. In fondo, delle altre barchette più piccole ancora, come punti neri, e le coste che si coronavano di spuma; a sinistra la Calabria, a destra la Punta del Faro sabbiosa, Cariddi che allungava le braccia bianche verso Scilla rocciosa e altera. All’improvviso, nella lunga linea della costa che sembrava unita, si aperse lo stretto come un fiume turchino, e al di là il mare che si allargava nuovamente, sterminato. La donna fece un’esclamazione di meraviglia. Poi voleva che egli le indicasse le montagne di Licodia e di Piana di Catania, o il Biviere di Lentini dalle sponde piatte. Egli le accennava da lontano, dietro le montagne azzurre, le linee larghe e melanconiche della pianura biancastra, le chine molli e grigie d’ulivi, le rupi aspre di fichidindia, le alpestri viottole erbose e profumate. Pareva che quei luoghi si animassero dei personaggi della leggenda, mentre egli li accennava ad uno ad uno. Colà la Malaria; su quel versante dell’Etna il paesetto dove la libertà irruppe come una vendetta; laggiù gli umili drammi del Mistero, e la giustizia ironica di don Licciu Papa. Ella ascoltando dimenticava persino il dramma palpitante in cui loro due si agitavano, mentre Messina si avanzava verso di loro col vasto semicerchio della sua Palazzata. Tutt’a un tratto si riscosse e mormorò: — Eccolo! — Dalla riva si staccava una barchetta, in cui un fazzoletto bianco si agitava per salutare come un alcione nella tempesta. — Addio! — mormorò il giovane. La donna non rispose e chinò il capo. Poi gli strinse forte la mano sotto la pelliccia e si scostò di un passo. — Non addio. Arrivederci! — Quando? — Non lo so. Ma non addio —. Ed egli la vide porgere le labbra all’uomo che era venuto ad incontrarla nella barchetta. E nella mente gli passavano delle larve sinistre, i fantasmi dei personaggi delle sue leggende, col cipiglio bieco e il coltellaccio in mano. Il velo azzurro di lei scompariva verso la riva, in mezzo alla folla delle barche e alle catene delle àncore. Passarono i mesi. Finalmente ella gli scrisse che poteva andarla a trovare. «In una casetta isolata, in mezzo alle vigne — ci sarà una croce segnata col gesso sull’uscio. Io verrò dal sentiero fra i campi. Aspettatemi. Non vi fate scorgere, o sono perduta». Era d’autunno ancora, ma pioveva e tirava vento come d’inverno. Egli nascosto dietro l’uscio, ansioso, col cuore che gli martellava, spiava avidamente se le righe di pioggia che solcavano lo spiraglio cominciassero a diradarsi. Le foglie secche turbinavano dietro la soglia come il fruscìo di una veste. Che faceva essa? Sarebbe venuta? L’orologio rispondeva sempre di no, di no, ad ogni quarto d’ora, dal paesetto vicino. Finalmente un raggio di sole penetrò da una tegola smossa. La campagna tutta s’irradiava. I carrubbi stormivano sul tetto, e in fondo, dietro i viali sgocciolanti, si apriva il sentieruolo fiorito di margherite gialle e bianche. Di là sarebbe comparso il suo ombrellino bianco, di là, o al disopra del muricciuolo a destra. Una vespa ronzava nel raggio dorato che penetrava dalle commessure, e urtava contro le imposte, dicendo: — Viene! viene! — Tutt’a un tratto qualcuno spinse bruscamente la porticina a sinistra. — Come un tuffo nel sangue! — Era lei! bianca, tutta bianca, dalla veste al viso pallido. Al primo vederlo gli cadde fra le braccia, colla bocca contro la bocca di lui. Quante ore passarono in quella povera stanzuccia affumicata? Quante cose si dissero? Il tarlo impassibile e monotono continuava a rodere i vecchi travicelli del tetto. L’orologio del paesetto vicino lasciava cadere le ore ad una ad una. Da un buco del muro potevano scorgersi i riflessi delle foglie che si agitavano, e alternavano ombre e luce verde come in fondo a un lago. Così la vita. — Ad un tratto ella siccome stralunata, passandosi le mani sugli occhi, aprì l’uscio per vedere il sole che tramontava. Poscia, risolutamente, gli buttò le braccia al collo, dicendogli: — Non ti lascio più —. A piedi, tenendosi a braccetto, andarono a raggiungere la piccola stazione vicina, perduta nella pianura deserta. Non lasciarsi più! Che gioia sterminata e trepida! Andavano stretti l’un contro l’altro, taciti, come sbigottiti, per la campagna silenziosa, nell’ora mesta della sera. Degli insetti ronzavano sul ciglione del sentiero. Dalla terra screpolata si levava una nebbia grave e mesta. Non una voce umana, non un abbaiare di cani. Lontano ammiccava nelle tenebre un lume solitario. Finalmente arrivò il treno sbuffante e impennacchiato. Partirono insieme; andarono lontano, lontano, in mezzo a quelle montagne misteriose di cui egli le aveva parlato, che a lei sembrava di conoscere.


Per sempre!



Per sempre. Essi si levavano col giorno, scorazzavano pei campi, nelle prime rugiade, sedevano al meriggio nel folto delle piante, all’ombra degli abeti, di cui le foglie bianche fremevano senza vento, felici di sentirsi soli, nel gran silenzio. Indugiavano a tarda sera, per veder morire il giorno sulle vette dei monti, quando i vetri si accendevano a un tratto e scoprivano casupole lontane. L’ombra saliva lungo le viottole della valle che assumevano un aspetto malinconico; poi il raggio color d’oro si fermava un istante su di un cespuglio in cima al muricciuolo. Anche quel cespuglio aveva la sua ora, e il suo raggio di sole. Degli insetti minuscoli vi ronzavano intorno, nella luce tiepida. Al tornare dell’inverno il cespuglio sarebbe scomparso e il sole e la notte si sarebbero alternati ancora sui sassi nudi e tristi, umidi di pioggia. Così erano scomparsi il casolare del gesso, e l’osteria di «Ammazzamogli» in cima al monticello deserto. Soltanto le rovine sbocconcellate si disegnavano nere nella porpora del tramonto. Il Biviere si stendeva sempre in fondo alla pianura come uno specchio appannato. Più in qua i vasti campi di Mazzarò, i folti oliveti grigi su cui il tramonto scendeva più fosco, le vigne verdi, i pascoli sconfinati che svanivano nella gloria dell’occidente, sul cocuzzolo dei monti; e dell’altra gente si affacciava ancora agli usci delle fattorie grandi come villaggi, per veder passare degli altri viandanti. Nessuno sapeva più di Cirino, di compare Carmine, o di altri. Le larve erano passate. Solo rimaneva solenne e immutabile il paesaggio, colle larghe linee orientali, dai toni caldi e robusti. Sfinge misteriosa, che rappresentava i fantasmi passeggieri, con un carattere di necessità fatale. Nel paesello i figli delle vittime avevano fatto pace cogli strumenti ciechi e sanguinari della libertà; curatolo Arcangelo strascinava la tarda vecchiaia a spese del signorino; una figlia di compare Santo era andata sposa nella casa di mastro Cola. All’osteria del Biviere un cane spelato e mezzo cieco, che i diversi padroni nel succedersi l’uno all’altro avevano dimenticato sulla porta, abbaiava tristamente ai rari viandanti che passavano. Poi il cespuglio si faceva smorto anch’esso a poco a poco, e l’assiolo si metteva a cantare nel bosco lontano. Addio, tramonti del paese lontano! Addio abeti solitari alla cui ombra ella aveva tante volte ascoltato le storie che egli le narrava, che stormivate al loro passaggio, e avete visto passare tanta gente, e sorgere e tramontare il sole tante volte laggiù! Addio! Anch’essa è lontana. Un giorno venne dalla città una cattiva notizia. Era bastata una parola, di un uomo lontano, di cui ella non poteva parlare senza impallidire e piegare il capo. Innamorati, giovani, ricchi tutti e due, tutti e due che s’erano detti di voler restare uniti per sempre, era bastata una parola di quell’uomo per separarli. Non era il bisogno del pane, com’era accaduto a Pino il Tomo, né il coltellaccio del geloso che li divideva. Era qualcosa di più sottile e di più forte che li separava. Era la vita in cui vivevano e di cui erano fatti. Gli amanti ammutolivano e chinavano il capo dinanzi alla volontà del marito. Ora ella sembrava che temesse e sfuggisse l’altro. Al momento di lasciarlo pianse tutte le sue lagrime che egli bevve avidamente; ma partì. Chissà quante volte si rammentavano ancora di quel tempo, in mezzo alle ebbrezze diverse, alle feste febbrili, al turbinoso avvicendarsi degli eventi, alle aspre bisogne della vita? Quante volte ella si sarà ricordata del paesetto lontano, del deserto in cui erano stati soli col loro amore, della ceppaia al cui rezzo ella aveva reclinato il capo sulla spalla di lui, e gli aveva detto sorridendo: — L’uggia per le camelie! —. Delle camelie ce n’erano tante e superbe, nella splendida serra in cui giungevano soffocati gli allegri rumori della festa, molto tempo dopo, quando un altro ne aveva spiccata per lei una purpurea come di sangue, e glie la aveva messa nei capelli. Addio, tramonti lontani del paese lontano! Anche lui, allorché levava il capo stanco a fissare nell’aureola della lampada solitaria le larve del passato, quante immagini e quanti ricordi! di qua e di là pel mondo, nella solitudine dei campi, e nel turbinìo delle grandi città! Quante cose erano trascorse! e quanto avevano vissuto quei due cuori lontano l’uno dall’altro! Infine si rivedevano nella vertigine del carnevale. Egli era andato alla festa per veder lei, coll’anima stanca e il cuore serrato d’angoscia. Ella era lì difatti, splendente, circondata e lusingata in cento modi. Pure aveva il viso stanco anch’essa, e il sorriso triste e distratto. I loro occhi s’incontrarono e scintillarono. Nulla più. Sul tardi si trovarono accanto come per caso, nell’ombra dei grandi palmizi immobili. — Domani! — gli disse. — Domani, alla tal’ora e nel tal luogo. Avvenga che può! voglio vedervi! — Il seno bianco e delicato le tempestava dentro il merletto trasparente, e il ventaglio le tremava fra le mani. Poi chinò il capo, cogli occhi fissi ed astratti; lievi e fugaci rossori le passavano sulla nuca del color della magnolia. Come batteva forte il cuore a lui! come era squisita e trepidante la gioia di quel momento! Ma allorché si rividero l’indomani non era più la stessa cosa. Chissà perché?... Essi avevano assaporato il frutto velenoso della scienza mondana; il piacere raffinato dello sguardo e della parola scambiati di nascosto in mezzo a duecento persone, di una promessa che val più della realtà, perché è mormorata dietro il ventaglio e in mezzo al profumo dei fiori, allo scintillìo delle gemme e all’eccitamento della musica. Allorché si buttarono nelle braccia l’uno dell’altro, quando si dissero che si amavano nella bocca, entrambi pensavano con desiderio molle ed acuto al rapido momento della sera innanzi, in cui sottovoce, senza guardarsi, quasi senza parole, si erano detto che il cuore turbinava loro in petto ad entrambi nel trovarsi accanto. Quando si lasciarono, e si strinsero la mano, sulla soglia, erano tristi tutti e due, e non tristi soltanto perché dovevano dirsi addio — quasi mancasse loro qualche cosa. Pure si tenevano sempre per mano, ad entrambi veniva per istinto la domanda. — Ti rammenti? — E non osavano. Ella aveva detto che partiva l’indomani col primo treno, ed egli la lasciava partire. L’aveva vista allontanarsi pel viale deserto, e rimaneva là, colla fronte contro le stecche di quella persiana. La sera calava. Un organino suonava in lontananza alla porta di un’osteria. Ella partiva l’indomani col primo treno. Gli aveva detto: — Bisogna che vada con lui! — Anch’egli aveva ricevuto un telegramma che lo chiamava lontano. Su quel foglio ella aveva scritto Per sempre, e una data. La vita li ripigliava entrambi, l’una di qua e l’altro di là, inesorabilmente. La sera dopo anch’esso era alla stazione, triste e solo. Della gente si abbracciava e diceva addio; degli sposi partivano sorridenti; una mamma, povera vecchierella del contado, si strascinava lagrimosa dietro il suo ragazzo, robusto giovanotto in uniforme da bersagliere, col sacco in spalla, che cercava l’uscita di porta in porta. Il treno si mosse. Prima scomparve la città, le vie formicolanti di lumi, il sobborgo festante di brigatelle allegre. Poi cominciò a passare come un lampo la campagna solitaria, i prati aperti, i fiumicelli che luccicavano nell’ombra. Di tanto in tanto un casolare che fumava, della gente raccolta dinanzi a un uscio. Sul muricciuolo di una piccola stazione, dove il convoglio si era arrestato un momento sbuffante, due innamorati avevano lasciato scritto a gran lettere di carbone i loro nomi oscuri. Egli pensava che anch’essa era passata di là il mattino, e aveva visto quei nomi. Lontano lontano, molto tempo dopo, nella immensa città nebbiosa e triste, egli si ricordava ancora qualche volta di quei due nomi umili e sconosciuti, in mezzo al via vai affollato e frettoloso, al frastuono incessante, alla febbre dell’immensa attività generale, affannosa e inesorabile, ai cocchi sfarzosi, agli uomini che passavano nel fango, fra due assi coperte d’affissi, dinanzi alle splendide vetrine scintillanti di gemme, accanto alle stamberghe che schieravano in fila teschi umani e scarpe vecchie. Di tratto in tratto si udiva il sibilo di un treno che passava sotterra o per aria, e si perdeva in lontananza, verso gli orizzonti pallidi, quasi con un desiderio dei paesi del sole. Allora gli tornava in mente il nome di quei due sconosciuti che avevano scritto la storia delle loro umili gioie sul muro di una casa davanti alla quale tanta gente passava. Due giovanetti biondi e calmi passeggiavano lentamente pei larghi viali del giardino tenendosi per mano; il giovane aveva regalato alla ragazza un mazzolino di rose purpuree che aveva mercanteggiato ansiosamente un quarto d’ora da una vecchierella cenciosa e triste; la giovinetta, colle sue rose in seno, come una regina, dileguavasi seco lui lontano dalla folla delle amazzoni e dei cocchi superbi. Quando furono soli sotto i grandi alberi della riviera, sedettero accanto, parlandosi sottovoce colla calma espansione del loro affetto. Il sole tramontava nell’occidente smorto; e anche là, nei viali solitari, giungeva il suono di un organino, con cui un mendicante dei paesi lontani andava cercando il pane in una lingua sconosciuta. Addio, dolce melanconia del tramonto, ombre discrete e larghi orizzonti solitari del noto paese. Addio, viottole profumate dove era così bello passeggiare tenendosi abbracciati. Addio, povera gente ignota che sgranavate gli occhi al veder passare i due felici. Alle volte, quando lo assaliva la dolce mestizia di quelle memorie, egli ripensava agli umili attori degli umili drammi con un’aspirazione vaga e incosciente di pace e d’obblio, a quella data e a quelle due parole — per sempre — che ella gli aveva lasciato in un momento d’angoscia, rimasto vivo più d’ogni gioia febbrile nella sua memoria e nel suo cuore. — E allora avrebbe voluto mettere il nome di lei su di una pagina o su di un sasso, al pari di quei due sconosciuti che avevano scritto il ricordo del loro amore sul muro di una stazione lontana.


Il Bastione di Monforte



Nel vano della finestra s’incorniciano i castagni d’India del viale, verdi sotto l’azzurro immenso — con tutte le tinte verdi della vasta campagna — il verde fresco dei pascoli prima, dove il sole bacia le frondi; più in là l’ombrìa misteriosa dei boschi. Fra i rami che agita il venticello s’intravvede ondeggiante un lembo di cielo, quasi visione di patria lontana. Al muoversi delle foglie le ombre e la luce scorrono e s`inseguono in tutta la distesa frastagliata di verde e di sole come una brezza che vi giunga da orizzonti sconosciuti. E nel folto, invisibili, i passeri garriscono la loro allegra giornata con un fruscìo d’ale fresco e carezzevole anch’esso. Sotto, nel largo viale, la città arriva ancora col passo affaccendato di qualche viandante, col lento vagabondaggio di una coppia furtiva. Ella va a capo chino, segnando i passi coll’appoggiare cadenzato dell’ombrellino, e l’ondeggiamento carezzevole del vestito attillato, che il sole ricama di bizzarri disegni, mentre l’ombre mobili delle frondi giuocano sul biondo dei capelli e sulla nuca bianca come rapidi baci che la sfiorino tutta. Ed egli le parla gesticolando, acceso della sua parola istessa che gli suona innamorata. A un tratto levano il capo entrambi al sopraggiungere di un legno che va adagio, dondolando come una culla, colle tendine chiuse; e la giovinetta si fa rossa, pensando alla penombra azzurra di quelle tende che addormentò le sue prime ritrosie. Un vecchio che va curvo per la sua strada alza il capo soltanto per vedere se la giornata gli darà il sole. E passa il rumore di un carro di cui si vedono le sole ruote polverose girare al di sotto dei rami bassi, e ciondolare addormentati del pari il muso del cavallo e le gambe del carrettiere penzoloni, rigate di sole. Poscia il trotto rapido di un cavallo, col lampo del morso lucente; o la fuggevole visione di una vittoria bruna, nella quale si adagia mollemente fra le piume e il velluto una forma bianca e vaporosa. Così si dileguano in alto le nuvole viaggiando per lidi ignoti, e la dama bianca vi cerca cogli occhi i sogni o i ricordi dell’ultimo ballo che vagano lontano, mollemente del pari. E le foglioline si agitano fra di loro, con un tremolìo fresco d’ombre e di luce; a un tratto, nell’ebbrezza di sentirsi vivere al sole, stormiscono insieme, e cantano al limite della città romorosa la vita quieta dei boschi. Le coppie innamorate tacciono, quasi comprese di un sentimento più vasto del loro; e colla mano nella mano, vanno, sognando. Più in là, li desta il trotto stracco del carrozzino postale che passa barcollando, portando svogliatamente la noia quotidiana di tutte le faccenduole umane che va a raccogliere dalle cassette, e strascina sempre per la stessa via, al suono fesso della sonagliera, addormentato sotto il gran mantice tentennante. Dall’altro lato risponde il fischio del convoglio che corre laggiù, verso il sole, tirandosi dietro il pensiero, lontano, lontano, verso altri luoghi, verso il passato. Ecco, fra i rami degli ippocastani c’è una linea d’ombra che sprofonda nel vuoto, come un viale tagliato nel dosso di un monticello, sotto un gran pennacchio di carrubbi. Le belle passeggiate d’allora nel meriggio caldo e silenzioso, quando le cicale stridevano nella valletta addormentata al sole! Accanto serpeggia verso l’alto la linea bruna di un tronco, rendendo immagine del sentiero che ascendeva fra i pascoli ed il sommacco di un noto poggio; e in cima, dove l’azzurro scappa infine libero, sembra di scorgere quella vetta che vedeva tanta campagna intorno. Un dì che voci allegre fra i sommacchi di quel poggio e le vigne di quel monticello! e tutta la comitiva che s’arrampicava festante per l’erta in quel dolce tramonto d’ottobre! E il chiaro di luna della sera in cui si aspettavano da quella vetta i fuochi della festa al paesetto lontano, e che bagna ancora l’anima di luce malinconica al tornare di queste memorie! Quanto tempo è trascorso? Quanto è lontano ormai quel paesetto? Ora il carrozzino postale vi porta la sola cosa viva che rimanga di tanta festa, sotto un francobollo da venti centesimi. E una farfalletta bianca s’affatica a svolazzare su pel viale immaginario, fra i rami dei castagni d’India, aspirando forse alle cime troppo alte per le sue alucce. Così quella donna che viene ogni giorno a passeggiare pel viale, e aspetta, e torna a rileggere un foglio spiegazzato che trae di tasca, e guarda ansiosa di qua e di là ad ogni passo che faccia scricchiolare la sabbia, rizzando il capo con tal moto che sembra vederle brillare tutta l’anima negli occhi. Ogni tanto si ferma sotto un albero colle braccia penzoloni e l’atteggiamento stanco. Anch’essa andò a chiedere trepidante quella lettera al postino che ne scorreva un fascio sbadigliando. Ora legge e rilegge la parola luminosa che ci dev’essere per rischiarare l’ombra uggiosa di quel viale, per ravvivare il verde di quegli alberi che le sono passati dinanzi agli occhi con mille gradazioni di tinte nelle desolate ore d’attesa. L’organetto che suonava il mattino gaio, in qualche osteria del sobborgo, e le cantava in cuore tutte le liete promesse della speranza, torna a passare collo stesso motivo già velato dalla mestizia della sera. Gli amanti che si tengono per mano in mezzo a quella festa d’azzurro e di verde, si voltano ridendo al vederla aspettare ancora, sola, vestita di nero. La sera giunge, e l’ombra s’allunga malinconica. A quell’ora, ogni giorno, suol passare uno sconosciuto alto e pallido, coll’andatura svogliata e l’occhio vagabondo di chi voglia ingannare l’ora del pranzo. Allorché incontrò la donna vestita di nero egli volse a fissarla il volto magro e austero in cui la percezione acuta della vita ha scavato come dei solchi. E chinò il capo quasi indovinasse, stanco della stanchezza di quella derelitta. Ma fu un lampo, e seguitò ad andare diritto e fiero per la sua via, portando negli occhi la visione di tutte le camerette nude e fredde in cui si sono strascinati i suoi sogni di giovinezza e i suoi bauli sconquassati, pieni solo di scartafacci, nel vagabondare dietro un sogno. Quanti dolori ha incontrato per quella via, e quante grida d’amore o di fame ha sentito attraverso le pareti sottili di quelle camerette? Più tardi forse andrà a pranzare con una tazza di caffè e latte fra gli specchi e le dorature del Biffi, pensando a quella donna che aspettava colla stanchezza dell’anima negli occhi, mentre l’orchestra suona la mazurca dell’Excelsior. Ora l’operaio che gli passa allato, strascinando un carretto, non gli bada neppure. La città è troppo vasta, e ce ne son tanti. E il tramonto in alto si spegne, tranquillo, in un cinguettìo confuso, con mille rumori indistinti che dileguano insieme all’azzurro che svanisce lontano, lontano, verso il paese dei sogni e delle memorie; e vi trasporta ai giorni in cui sentiste le prime mestizie della sera, e la prima canzone d’amore vi si gonfiò melodiosa nell’anima. Ora la canzone passa vagabonda e avvinazzata pel viale, al casto lume della luna che stampa in terra le larghe orme nere dei castagni addormentati — la canzone in cui suonano le note rauche della rissa d’osteria e la noia delle querimonie che aspettano a casa colla donna — o la gaiezza dolorosa di chi non vuol pensare al domani senza pane — oppure la brutale galanteria che si lascia alle spalle l’ospedale e la prigione, o il richiamo caldo che cerca l’ora molle d’amore dopo la dura giornata dell’operaio. Solo il bisbiglìo di due voci sommesse che si nascondono nell’ombra canta la primavera innamorata e pudibonda. E a un tratto, nella tarda ora silenziosa, in mezzo alla gran luce d’argento che piove sui rami, da una macchia nell’oscurità si leva una nota d’argento anch’essa, e canta la festa dei nidi alle ragazze che ascoltano alla finestra. In fondo, fra i rami s’intravvede lontano un lumicino, in una stanzuccia solitaria. A quest’ora pure la cascatella mormora laggiù nel paese lontano, tutta sola in quell’angolo della rupe paurosa, sotto i grappoli di capelvenere, dinanzi la valletta che si stende bianca di luna. O i molli pleniluni estivi in cui la giovinezza canta e sogna per le strade, e le memorie sorgono dolci e candide del passato ad una ad una! — E le fredde lune d’acciaio del Natale, quando i grandi scheletri dei castagni d’India segnano di nero l’azzurro profondo e cupo, e il turbine strappa le foglie dimenticate dall’autunno con un mugolìo che viene da lungi, dalle notti remote in cui passava dietro l’uscio chiuso sulla famigliuola raccolta intorno al ceppo, e spazzava via tutto! — E l’albe livide, i meriggi foschi sui rami inargentati di neve, i gemiti lunghi che vengono col vento dalle notti remote, e i giorni che scorrono silenziosi e deserti sul viale bianco di neve! Ora di tanto in tanto passa il carro funebre senza far rumore, come una macchia nera, ricamato di neve anch’esso, quasi recasse la fioritura della morte; e il doganiere che inganna la lunga guardia facendo quattro ciarle colla servotta dietro il muro, sbircia sospettoso se mai il drappo funebre dei morti non nasconda il contrabbando dei vivi.


in piazza della Scala



Pazienza l’estate! Le notti sono corte; non è freddo; fin dopo il tocco c’è ancora della gente che si fa scarrozzare a prendere il fresco sui Bastioni, e se calan le tendine, c’è da buscarsi una buona mancia. Si fanno quattro chiacchiere coi compagni per iscacciare il sonno, e i cavalli dormono col muso sulle zampe. Quello è il vero carnevale! Ma quando arriva l’altro, l’è duro da rosicare per i poveri diavoli che stanno a cassetta ad aspettare una corsa di un franco, colle redini gelate in mano, bianchi di neve come la statua del barbone, che sta lì a guardare, in mezzo ai lampioni, coi suoi quattro figliuoletti d’attorno. E’ dicono che mette allegria la neve, quelli che escono dal Cova, col naso rosso, e quelle altre che vanno a scaldarsi al veglione della Scala, colle gambe nude. Accidenti! Almeno s’avesse il robone di marmo, come la statua! e i figliuoli di marmo anch’essi, che non mangiano! Ma quelli di carne e d’ossa, se mangiano! e il cavallo, e il padrone di casa, e questo, e quest’altro! che al 31 dicembre, quando la gente va ad aspettare l’anno nuovo coi piedi sotto la tavola nelle trattorie, il Bigio tornava a imprecare: — Mostro di un anno! Vattene in malora! Cinque lire sole non ho potuto metterle da parte —. Prima i denari si spendevano allegramente all’osteria, dal liquorista lì vicino; e che belle scampagnate cogli amici, a Loreto e alla Cagnola; senza moglie, né figli, né pensieri. Ah! se non fosse stato per la Ghita che tirava su le gonnelle sugli zoccoletti, per far vedere le calze rosse, trottando lesta lesta in piazza della Scala! Delle calze che vi mangiavano gli occhi. E certa grazietta nel muovere i fianchi, che il Bigio ammiccava ogni volta, e le gridava dietro: — Vettura? — Lei da prima si faceva rossa: ma poi ci tirava su un sorrisetto, e finì col prenderla davvero la vettura; e scarrozzando, il Bigio, voltato verso i cristalli, le spiattellava tante chiacchiere, tante, che una domenica la condusse al municipio, e pregò un camerata di tenergli d’occhio il cavallo, intanto che andava a sposare la Ghitina. Adesso che la Ghitina si era fatta bolsa come il cavallo, lui vedeva trottare allo stesso modo la figliuola, cogli stivaletti alti e il cappellino a sghimbescio, sotto pretesto che imparava a far la modista, e sempre nelle ore in cui il caffè lì di faccia era pieno di fannulloni, che le dicevano cogli occhi tante cose sfacciate. Bisognava aver pazienza, perché quello era il mestiere dell’Adelina; e la Ghita, ogni volta che il Bigio cercava di metterci il naso, gli spifferava il fatto suo, che le ragazze bisogna si cerchino fortuna; e se ella avesse avuto giudizio come l’Adelina, a quest’ora forse andrebbe in carrozza per conto suo, invece di tenerci il marito a buscarsi da vivere. Tant’è, suo marito, quando vedeva passare l’Adele, dondolandosi come la mamma nel vestitino nero, sotto quelle occhiate che gridavano anch’esse: — Vettura? — non poteva frenarsi di far schioccare la frusta, a rischio di tirarsi addosso il cappellone di guardia lì vicino. Ma là! Bisognava masticare la briglia, che non s’era più puledri scapoli, e adattarsi al finimento che s’erano messi addosso, lui e la Ghita, la quale continuava a far figliuoli, che non pareva vero, e non si sapeva più come impiegarli. Il maggiore, nel treno militare, I reggimento, e sarebbe stato un bel pezzo di cocchiere. L’altro, stalliere della società degli omnibus. L’ultimo aveva voluto fare lo stampatore, perché aveva visto i ragazzi della tipografia, lì nella contrada, comprar le mele cotte a colazione, col berrettino di carta in testa. E infine una manata di ragazzine cenciose, che l’Adelina non permetteva le andassero dietro, e si vergognava se le incontrava per la strada. Voleva andar sola, lei, per le strade; tanto che un bel giorno spiccò il volo, e non tornò più in via della Stella. Al Bigio che si disperava e voleva correre col suo legno chissà dove, la Ghita ripeteva: — Che pretendi? L’Adelina era fatta per esser signora, cagna d’una miseria! — Lei si consolava colla portinaia lì sotto, scaldandosi al braciere, o dal liquorista, dove andava a comprare di soppiatto un bicchierino sotto il grembiule. Ma il Bigio aveva un bel fermarsi a tutte le osterie, ché quando era acceso vedeva la figliuola in ogni coppia misteriosa che gli faceva segno di fermarsi, e ordinava soltanto — Gira! — lei voltandosi dall’altra parte, e tenendo il manicotto sul viso, — e quando incontrava un legno sui Bastioni, lemme lemme, colle tendine calate, e quando al veglione smontava una ragazza, che di nascosto non aveva altro che il viso, egli brontolava, qualunque fosse la mancia, e si guastava cogli avventori. Cagna miseria! come diceva la Ghita. Denari! tutto sta nei denari a questo mondo! Quelli che scarrozzavano colle tendine chiuse, quelli che facevano la posta alle ragazze dinanzi al caffè, quelli che si fregavan le mani, col naso rosso, uscendo dal Cova! c’era gente che spendeva cento lire, e più, al veglione, o al teatro; e delle signore che per coprirsi le spalle nude avevano bisogno di una pelliccia di mille lire, gli era stato detto; e quella fila di carrozze scintillanti che aspettavano, lì contro il Marino, col tintinnio superbo dei morsi e dei freni d’acciaio, e gli staffieri accanto che vi guardavano dall’alto in basso, quasi ci avessero avuto il freno anch’essi. Il suo ragazzo medesimo, quello dell’Anonima, allorché gli facevano fare il servizio delle vetture di rimessa, dopo che si era insaccate le mani sudice nei guanti di cotone, se le teneva sulle cosce al pari della statua dal robone, e non avrebbe guardato in faccia suo padre che l’aveva fatto. Piuttosto preferiva l’altro suo figliuolo, quello che aiutava a stampare il giornale. Il Bigio spendeva un soldo per leggere a cassetta, fra una corsa e l’altra, tutte le ingiustizie e le birbonate che ci sono al mondo, e sfogarsi colle stampate. Aveva ragione il giornale. Bisognava finirla colle ingiustizie e le birbonate di questo mondo! Tutti eguali come Dio ci ha fatti. Non mantelli da mille lire, né ragazze che scappano per cercar fortuna, né denari per comperarle, né carrozze che costano tante migliaia di lire, né omnibus, né tramvai, che levano il pane di bocca alla povera gente. Se ci hanno a essere delle vetture devono lasciarsi soltanto quelle che fanno il mestiere, in piazza della Scala, e levar di mezzo anche quella del n. 26, che trova sempre il modo di mettersi in capofila. Il Bigio la sapeva lunga, a furia di leggere il giornale. In piazza della Scala teneva cattedra, e chiacchierava come un predicatore in mezzo ai camerati, tutta notte, l’estate, vociando e rincorrendosi fra le ruote delle vetture per passare il tempo, e di tanto in tanto davano una capatina dal liquorista che aveva tutta la sua bottega lì nella cesta, sulla panca della piazza. L’è un divertimento a stare in crocchio a quell’ora, al fresco, e di tanto in tanto vi pigliano anche per qualche corsa. Il posto è buono, c’è lì vicino la Galleria, due teatri, sette caffè, e se fanno una dimostrazione a Milano, non può mancare di passare di là, colla banda in testa. Ma in inverno e’ s’ha tutt’altra voglia! Le ore non iscorrono mai, in quella piazza bianca che sembra un camposanto, con quei lumi solitari attorno a statue fredde anch’esse. Allora vengono altri pensieri in mente — e le scuderie dei signori dove non c’è freddo, e l’Adele che ha trovato da stare al caldo. — Anche colui che predica di giorno l’eguaglianza nel giornale, a quell’ora dorme tranquillamente, o se ne torna dal teatro, col naso dentro la pelliccia. Il caffè Martini sta aperto sin tardi, illuminato a giorno che par si debba scaldarsi soltanto a passar vicino ai vetri delle porte, tutti appannati dal gran freddo che è di fuori; così quelli che ci fanno tardi bevendo non son visti da nessuno, e se un povero diavolo invece piglia una sbornia per le strade, tutti gli corrono dietro a dargli la baia. Di facciata le finestre del club sono aperte anch’esse sino all’alba. Lì c’è dei signori che non sanno cosa fare del loro tempo e del loro denaro. E allorché sono stanchi di giuocare fanno suonare il fischietto, e se ne vanno a casa in legno, spendendo solo una lira. Ah! se fosse a cassetta quella povera donna che sta l’intera notte sotto l’arco della galleria, per vendere del caffè a due soldi la tazza, e sapesse che porta delle migliaia di lire, vinte al giuoco in due ore, nel paletò di un signore mezzo addormentato, passando lungo il Naviglio, di notte, al buio!... O quegli altri poveri diavoli che fingono di spassarsi andando su e giù per la galleria deserta, col vento che vi soffia gelato da ogni parte, aspettando che il custode vòlti il capo, o finga di chiudere gli occhi, per sdraiarsi nel vano di una porta, raggomitolati in un soprabito cencioso. Questi qui non isbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni. Le dimostrazioni gli altri, alla fin fine, le fanno a piedi, senza spendere un soldo di carrozza.


Al veglione



C’era andato a portare un paniere di bottiglie, di quelle col collo inargentato, nel palco della contessa, e s’era fermato col pretesto di aspettare che le vuotassero; tanto, in cinque com’erano nel palchetto, non potevano asciugarle tutte, e qualcosa sarebbe rimasta anche in fondo ai piatti. Sicché alle sue donne aveva detto: — Aspettatemi alla porta del teatro, in mezzo alla gente che sta a veder passare i signori —. Lì, sull’uscio del palchetto, i servitori lo guardavano in cagnesco, coi loro faccioni da prete, ché i padroni stessi, là dentro il palco, come li aveva visti da una sbirciatina attraverso il cristallo, non stavano così impalati e superbiosi come quei servitori nelle loro livree nuove fiammanti. Nel palco era un va e vieni di signori colla cravatta bianca, e il fiore alla bottoniera, come i lacchè delle carrozze di gala, che pareva un porto di mare. E ogni volta che l’uscio si apriva arrivava come uno sbuffo di musica e d’allegria, una luminaria di tutti i palchetti di faccia, e una folla di colori rossi, bianchi, turchini, di spalle e di braccia nude, e di petti di camicia bianchi. Anche la contessa aveva le spalle nude e le voltava al teatro, per far vedere che non gliene importava nulla. Un signore che le stava dietro, col naso proprio sulle spalle, le parlava serio serio, e non si muoveva più di lì, che doveva sentir di buono quel posto. L’altra amica, una bella bionda, badava invece a rosicarsi il ventaglio, guardando di qua e di là fuori del palco, come se cercasse un terno al lotto, e si voltava ogni momento verso l’uscio del corridoio, con quei suoi occhi celesti e quel bel musino color di rosa, tanto che il povero Pinella si faceva rosso in viso, come c’entrasse per qualcosa anche lui. Ah, la Luisina che era lì fuori, nella folla, non gli era sembrata fatta di quella pasta nemmeno quando l’aspettava alla porta dei padroni, via S. Antonio, la domenica, che s’erano picchiati col servitore del pian di sotto, il quale pretendeva che la Luisina desse retta a lui, perché ci aveva il soprabitone coi bottoni inargentati. Quest’altro, quel faccione da prete, impalato dietro l’uscio, gli disse: — E lei? Cosa sta ad aspettare qui? — Aspetto le bottiglie, — rispose Pinella. — Le bottiglie? Gliele daremo poi, le bottiglie; dopo cena. C’è tempo, c’è tempo. — Fossi matto! — pensava Pinella sgattaiolando pel corridoio. — Di qui non mi muovo! — Egli aveva visto che il suo padrone di casa per entrare in teatro aveva pagato 10 lire, sbuffando, ansimando pel grasso, rosso come un tacchino dentro il suo zimarrone di pelliccia, tastando i biglietti nel portafogli colle dita corte. Fortuna che non aveva scorto Pinella, se no gli chiedeva lì stesso i denari della pigione. Egli era già salito due volte sino al quinto piano, soffiando, per riscuoterli. Ma la Luisina aveva acchiappato un reuma alla gamba, collo star di notte a vendere il caffè sotto l’arco della Galleria, e quei pochi soldi che buscava la Carlotta vendendo paralumi per le strade e nei caffè, se n’erano andati tutti in quel mese che la mamma era stata in letto. Per le scale, e nei corridoi, c’era folla anche là. Mascherine che strillavano e si rincorrevano; signore incappucciate, giovanotti col cappello sotto il braccio che le appostavano a chiacchierare sottovoce in un cantuccio all’oscuro. Pinella riuscì a ficcarsi in un andito, fra le assi del palcoscenico, dietro una gran tela dipinta, dove c’erano degli strappi che parevano fatti apposta per mettervi un occhio. Là si stava da papa. Sembrava una lanterna magica. Vedevasi tutto il teatro, pieno zeppo, dappertutto fin sulle pareti, per cinque piani. Lumi, pietre preziose, cravatte bianche, vesti di seta, ricami d’oro, braccia nude, gambe nude, gente tutta nera, strilli, colpi di gran cassa, squilli di tromba, stappare di bottiglie, un brulichio, una baraonda. — Bello! eh? — gli soffiò dietro le orecchie un ragazzone che era entrato di straforo come lui. — Eccome! — esclamò Pinella — E’ si divertono per 10 lire! — Lì davanti, su di una panca a ridosso della scena, erano sedute due mascherine, e cercavano di esser sole anche loro, perché avevano un mondo di cose da dirsi. Lui, il giovanotto, gliele lasciava cascare sul collo, che la ragazza aveva bianco e delicato, così che quei ricciolini sulla nuca tremavano come avessero freddo, e le spalle pure trasalivano, e si facevano rosse mentre ella chinava il capo, non ricordandosi neppure che ci aveva la maschera sul viso. — La ci casca! La casca! — gongolava il vicino di Pinella. Ma il povero Pinella in quel momento osservava che la ragazza era magrolina e aveva i capelli castagni come la Carlotta. E l’altro insisteva, insisteva, col fiato caldo sul collo di lei, che avvampava quasi ci si scaldasse, e ritirava pian piano gli stivalini di raso sotto la panca, come per nascondere le gambe nude, nella maglia color di rosa, che luccicava qua e là, e sembrava arrossire anch’essa. Ah, la Carlotta aspettava di fuori, al freddo, è vero; ma Pinella era più contento così. — La ci va! La ci va! — continuava il suo vicino. La ragazza s’era levata, per forza, col mento sul petto, e il seno che si contraeva come un mantice, sotto i ricami d’oro falso. L’altro le aveva preso il braccio, e la tirava, la tirava. Ella si lasciava tirare, passo passo, colle gambe nude che esitavano l’una dietro l’altra. — Tombola! — urlò loro dietro il ragazzaccio. E sparvero nella folla. Pinella se ne andò anche lui col cuore grosso, pensando che una volta aveva sorpreso la Carlotta in piazza della Rosa, a chiacchierare con un giovanotto, proprio come quest’altro, colle guance rosse e il mento sul petto. Ella aveva trovato il pretesto che il giovanotto era un avventore il quale aveva bisogno di una dozzina di paralumi, a casa sua. A cavalcioni sul parapetto di un palco in prima fila si vedeva una ragazza, vestita all’incirca tal quale l’aveva messa al mondo sua madre, e a viso scoperto, che era bello come il sole, e non aveva bisogno di nasconder nulla. Colle gambe che lasciava spenzolare fuori del palco, minacciava tutti quelli che le venivano a tiro, giovani, vecchi, signori, quel che fossero, e se uno non chinava il capo nel passare dinanzi a lei, glielo faceva chinare per forza. Né ci era da aversela a male, tanto era bella e allegra col bicchiere in mano e le braccia bianche levate in alto; e conosceva tutti, e li chiamava col tu per nome a uno ad uno. Ad un bel giovane che le sorrideva sotto il palco, ritto e fiero ella gli vuotò sul capo il bicchiere di sciampagna. — Questo qui, — disse uno nella folla, — s’è maritato che non è un mese, e la sposa è lì che guarda, in seconda fila —. La sposa in seconda fila, tutta bianca e col viso di ragazza, stava a vedere, seria seria, e con grand’occhi intenti. — Adesso, — pensò Pinella, l’è ora di andare dalla contessa, per le bottiglie —. Nel palco colle cortine rosse calate, dopo l’allegria di prima, s’erano fatti tutti seri e taciturni, che non vedevano l’ora di andarsene, e posavano i gomiti sulla tavola, carica di lumi e d’argenterie, coi mazzi di fiori da cento lire buttati in un canto. Nello stanzino dirimpetto i servitori mangiavano in fretta, mentre sparecchiavano, imboccando le bottiglie a guisa di trombetta, appena fuori del palco, cacciando i guanti nelle salse e nei dolciumi, lustri e allegri come mascheroni di fontana. Quello del faccione, il superbioso, appena vide arrivare Pinella, cominciò a sclamare: — Corpo!... — e voleva mandarlo via. Ma un vecchietto tutto bianco e raggricchiato in una livrea color marrone, disse: — No! No! lasciatelo stare. Ce n’è per tutti. È carnevale, allegria! allegria! — Anzi gli tagliò una bella fetta di pasticcio, e un altro, colla bocca piena, bofonchiò: — E’ costa cento lire —. Il vecchiotto, rizzando su la personcina, aggiunse: — Quando stavo col duca, nel palco, a ogni veglione, si stappavano delle bottiglie per più di 1000 lire —. — Presto! presto! — venne a dire il faccione, forbendosi il mento in furia con una tovaglia sudicia. — I padroni hanno ordinato le carrozze —. A Pinella, sembrava invece che andavano via sul più bello, e mentre raccoglieva le bottiglie non sapeva capacitarsi perché si sciupassero tanti denari e tanti pasticci da 100 lire se ci si annoiava così presto. Ora che aveva bevuto si sentiva anch’egli il caldo e la smania dell’allegria. I palchi cominciavano a vuotarsi, e dagli usci spalancati intanto si vedeva la folla irrompere di nuovo in platea come un fiume, coi volti accesi, i capelli arruffati, le vesti discinte, le maglie cascanti, le cravatte per traverso, i cappelli ammaccati, strillando, annaspando, pigiandosi, urlando, in mezzo al suono disperato dei tromboni, ai colpi di gran cassa; e un tanfo, una caldura, una frenesia che saliva da ogni parte, un polverìo che velava ogni cosa, denso, come una nebbia, sulla galoppa che girava in fondo a guisa di un turbine, e da un canto, in mezzo a un cerchio di signori in cravatta bianca, pallidi, intenti, ansiosi, che facevano largo per vedere, una coppia più sfrenata delle altre, cogli occhi schizzanti fuori della maschera come pezzi di carbone acceso, i denti bianchi, ghignando, il viso smorto, la testa accovacciata, gli omeri che scappavano dal busto, le gambe nude che s’intrecciavano, con molli contorcimenti dei fianchi. E in seconda fila lassù, la bella sposina dal viso di ragazza, tutta bianca, ritta dinanzi al parapetto, che spalancava gli occhi curiosi, indugiando, mentre suo marito le poneva la mantiglia sulle spalle, e trasaliva al contatto dei guanti di lui. La Luisina e la Carlotta aspettavano alla porta del teatro, nella piazza bianca di neve, col viso rosso, battendo i piedi e soffiando sulle dita in mezzo alla folla che spalancava gli occhi per veder passare le belle dame imbacuccate nelle pellicce bianche, dietro i vetri scintillanti delle carrozze. E ad ogni modesto legno di piazza che si avanzava barcollando, la Carlotta guardava le coppie misteriose che vi montavano, accompagnava le gambe in maglia color di rosa cogli stessi grandi occhi avidi e curiosi della sposina tutta bianca, che era in seconda fila.


il canarino del n.15



Come il bugigattolo dei portinai non vedeva mai il sole, e avevano una figliuola rachitica, la mettevano a sedere nel vano della finestra, e ve la lasciavano tutto il santo giorno, sicché i vicini la chiamavano «Il canarino del n. 15». Màlia vedeva passar la gente; vedeva accendere i lumi la sera; e se entrava qualcuno a chiedere di un pigionale rispondeva per la mamma, la sora Giuseppina, che stava al fuoco, o a leggere i giornali dei casigliani. Sinché c’era un po’ di luce faceva anche della trina, con quelle sue mani pallide e lunghe; e un giovanetto della stamperia lì dicontro, al veder sempre dietro i vetri quel visetto, che era delicato, e con delle pèsche azzurre sotto gli occhi, se n’era come si dice innamorato. Ma poi seppe la storia del canarino, e di mezza la persona che era morta sino alla cintola, e non alzò più gli occhi, quando andava e veniva dalla stamperia. Ella pure ci aveva badato: tanto nessuno la guardava mai! e quel po’ di sangue che le restava le tingeva come una rosa la faccia pallida, ogni volta che udiva il passo di lui sull’acciottolato. La stradicciuola umida e scura le sembra gaia, con quello stelo di pianticella magra che si dondolava dal terrazzino del primo piano e quei finestroni scuri della tipografia dirimpetto, dov’era un gran lavorìo di pulegge, e uno scorrere di strisce di cuoio, lunghe, lunghe, che non finivano mai, e si tiravano dietro il suo cervello, tutto il giorno. Sul muro c’erano dei gran fogli stampati, che ella leggeva e tornava a leggere, sebbene li sapesse a memoria; e la notte li vedeva ancora, nel buio, cogli occhi spalancati, bianchi, rossi, azzurri, mentre si udiva il babbo che tornava a casa cantando con voce rauca: — O Beatrice, il cor mi dice —. Ella pure, la Màlia si sentiva gonfiare in cuore la canzone, quando i monelli passavano cantando e battendo gli zoccoli sul terreno ghiacciato, nella nebbia fitta. Ascoltava, ascoltava, col mento sul petto, e provava e riprovava la cantilena sottovoce, davvero come un canarino che ripassi la parte. Diventava anche civettuola. La mattina, prima che la mettessero dietro la finestra, si lisciava i capelli, e ci appuntava un garofano, quando l’aveva, con quelle mani scarne. Come la Gilda, sua sorella, si attillava per andar dalla sarta, col velo nero sulla testolina maliziosa, e cutrettolava vispa vispa nella vestina tutta in fronzoli, la guardava con quel sorriso dolce e malinconico sulle labbra pallide, poi la chiamava con un cenno del capo, e voleva darle un bacio. Un giorno che la Gilda le regalò un fiocchetto di nastro smesso, ella si fece rossa dal piacere. Alle volte le moriva sulle labbra la domanda se nei giornali non ci fosse un rimedio per lei. La poveretta non si stancava mai di aspettare che quel giovane tornasse ad alzare il capo verso la finestra. Aspettava, aspettava, cogli occhi alla viuzza, e le dita scarne che facevano andare la spoletta. Ma poi lo vide che accompagnava la Gilda, passo passo, tenendo le mani nelle tasche, e si fermarono ancora a chiacchierare sulla porta. Si vedeva soltanto la schiena di lui, che le parlava con calore, e la Gilda pensierosa raspava nel selciato colla punta dell’ombrellino. Essa poi disse: — Qui no, che c’è la Màlia a far la sentinella, ed è una seccatura —. Alfine un sabato sera il giovanotto entrò anche lui insieme alla Gilda, e si misero a chiacchierare colla sora Giuseppina, che metteva delle castagne nella cenere calda. Si chiamava Carlini; era scapolo, compositore—tipografo, e guadagnava 36 lire la settimana. Prima d’andarsene diede la buona sera anche alla Màlia, che stava al buio nel vano della finestra. D’allora in poi cominciò a venire sovente, poi quasi ogni sera. La sora Giuseppina aveva preso a volergli bene, pel suo fare ben educato, ché non veniva mai colle mani vuote: confetti, mandarini, bruciate, alle volte anche una bottiglia sigillata. Allora si fermava in casa anche il babbo della ragazza, il sor Battista, a chiacchierare col Carlini come un padre, dicendogli che voleva cucirgli lui il primo vestito nuovo, se mai. Egli ci aveva là il banco e le forbici da sarto, e il ferro da stirare, e l’attaccapanni, e lo specchio dei clienti. Adesso lo specchio serviva per la Gilda. Mentre il giovane aspettava l’innamorata, si metteva a discorrere colla Màlia; le parlava della sorella, le diceva quanto le volesse bene, e che incominciava a mettere dei soldi alla Cassa di Risparmio. Appena tornava la Gilda si mettevano a sussurrare in un cantuccio, bocca contro bocca, pigliandosi le mani allorché la mamma voltava le spalle. Una sera egli le diede un grosso bacio dietro l’orecchio, mentre la sora Giuseppina sbadigliava in faccia al fuoco, e Carlini credeva che nessuno li vedesse, tanto che alle volte se ne andava senza pensare nemmeno che la Màlia fosse là, per darle la buonanotte. Una domenica arrivò tutto contento colla nuova che aveva trovata la casa che ci voleva: due stanzette a Porta Garibaldi, ed era anche in trattative per comprare i mobili dell’inquilino che sloggiava, un povero diavolo col sequestro sulle spalle, per via della pigione. Il Carlini era così contento che diceva alla Màlia: — Peccato che non possiate venire a vederla anche voi! — La ragazza si fece rossa. Ma rispose: — La Gilda sarà contenta lei —. Ma la Gilda non sembrava molto contenta. Spesso il Carlini l’aspettava inutilmente, e si lagnava colla Màlia di sua sorella, che non gli voleva bene come lui gliene voleva, e gli lesinava le buone parole e tutto il resto. Allora il povero giovane non la finiva più coi piagnistei; raccontava ogni cosa per filo e per segno: che piacere le aveva fatto la tal parola, come sorrideva con quella smorfietta, come s’era lasciata dare quel bacio. Almeno provava un conforto nello sfogarsi colla Màlia. Gli pareva quasi di parlare colla Gilda, tanto la Màlia somigliava a sua sorella, nell’ombra, mentre lo ascoltava guardandolo con quegli occhi. Arrivava perfino a prenderle la mano, dimenticando che era mezzo morta su quella seggiola. — Guardate, — le diceva. — Vorrei che la Gilda foste voi, col cuore che avete! — Stava lì per delle ore, colle mani sui ginocchi, finche tornava la Gilda. Almeno udiva il trottarello lesto dei suoi tacchetti, e la vedeva arrivare con quel visetto rosso dal freddo, e quegli occhi belli che interrogavano in giro tutta la stanzetta al primo entrare. La Gilda era vanarella e ambiziosa; gli aveva proibito di accompagnarla colla sua camiciuola turchina da operaio, quando andava impettita per via. Una sera Màlia la vide tornare a casa in compagnia di un signorino, di cui la tuba lucida passava rasente al davanzale, e si fermarono sulla porta come faceva prima col Carlini. Ma a costui non disse nulla. Il poveraccio s’era dissestato. La pigione di casa, i mobili da pagare, i regalucci per la ragazza, il tempo che perdeva: tanto che il direttore della tipografia gli aveva detto: — A che giuoco giuochiamo? — Egli tornava a confidarsi colla Màlia, e la pregava: — Dovreste parlagliene voi a vostra sorella —. Gilda fece una spallucciata, e rispose alla Màlia: — Piglialo tu —. A capodanno il Carlini portò in regalo un bel taglio di lanina a righe rosse; tanto rosse che la Gilda diede in uno scoppio di risa, e disse che era adatta per qualche contadina di Desio o di Gorla, come le aveva viste a Loreto. Il giovanotto rimaneva mortificato con l’involto in mano, ripiegandolo adagio adagio, e lo offrì alla Màlia, se lo voleva lei. Era il primo regalo che la Màlia riceveva e le parve una gran cosa. La sora Giuseppina, per scusare l’uscita della Gilda, prese a dire che quella ragazza era di gusto fine, come una signora, e non trovava mai cosa abbastanza bella pel suo merito. — Per quella figliuola là non sto mica in pena — soleva dire. La Gilda infatti veniva a casa ora con una mantiglia nuova, che le gonfiava il seno tutto di frange, ora con le scarpine che le strizzavano i piedi, ed ora con un cappellaccio peloso che faceva ombra sugli occhi lucenti al pari di due stelle. Una volta portò un braccialetto d’argento dorato, con una ametista grossa come una nocciuola, che passò di mano in mano per tutto il vicinato. La mamma gongolava e strombazzava i risparmi che faceva la figliuola dalla sarta. La Màlia volle vedere anche lei; e il babbo stava per stendere le mani, e lo chiese in prestito per una sera, onde mostrarlo agli amici, dal tabaccaio e dal liquorista lì accanto. Ma la Gilda si ribellò. Allora il sor Battista cominciò a gridare se ella tornava a casa tardi, e a sfogarsi con Carlini che perdeva il suo tempo e i regalucci dietro quell’ingrata, la quale non aveva cuore nemmeno pei genitori. Gilda un bel giorno gli levò l’incomodo di aspettarla più. Malgrado le sbravazzate del sor Battista nella casa ci fu il lutto. La sora Giuseppina non fece altro che brontolare e litigare col marito tutta sera. Il sor Battista andò a letto ubbriaco. La Màlia udì sino all’alba il Carlini che aspettava passeggiando nella strada. Poi la sora Carolina, che vendeva i giornali lì alla cantonata, venne a raccontare qualmente avevano vista la Gilda in Galleria, vestita come una signora. Il babbo giurò che voleva andare col Carlini in traccia del sangue suo, quella domenica, e l’accompagnarono a casa che non si reggeva in piedi. Il Carlini si era affiatato col sor Battista. Lavorava soltanto quando non poteva farne a meno, ora qua e là nelle piccole stamperie, l’accompagnava all’osteria, e tornavano a braccetto. In casa s’era fatto come un della famiglia per abitudine. Accendeva il fuoco o il gas per le scale, menava la tromba, teneva sempre in ordine i ferri del sarto, caso mai servissero, e scopava anche la corte, per risparmiare la sora Giuseppina, giacché suo marito non stava in casa gran fatto. La sora Giuseppina, per gratitudine, voleva fargli credere che la Gilda gli volesse sempre bene, e sarebbe tornata un giorno o l’altro. Egli scuoteva il capo; ma gli piaceva discorrerne colla vecchia, o colla Màlia, che somigliava tutta a sua sorella. Gli pareva di alleggerirsi il cuore in tal modo, quando ella l’ascoltava fra chiaro e scuro, fissandolo con quegli occhi. E una volta che era stato all’osteria, e si sentiva una gran confusione dalla tenerezza, le diede anche un bacio. La Màlia non gridò: ma si mise a tremare come una foglia. Già non c’era avvezza, e la mamma per lei non stava in guardia. L’indomani, a testa riposata, Carlini era venuto a chiacchierare come il solito, spensierato e indifferente. Ma la poveretta si sentiva sempre quel bacio sulla bocca, col fiato acre di lui, e vi aveva pensato tutta la notte. Allora in principio di primavera, come se quel bacio fosse stato del fuoco vivo, Màlia cominciò a struggersi e a consumarsi a poco a poco. La mamma ripeteva alla sora Carolina e alla portinaia della casa accanto che il male le saliva dalle gambe per tutta la persona. Il medico glielo aveva detto. Il marzo era piovoso. Tutto il giorno si udiva la grondaia che scrosciava sul tetto di vetro della stamperia, e la gente che sfangava per la stradicciuola. Ogni po’ si fermava alla porta un legno grondante acqua, e sbattevano in furia gli sportelli e l’usciale. — Questa è la Gilda, — esclamava la mamma. La Màlia pallida cogli occhi fissi alla porta, non diceva nulla, ma s’affilava in viso. Poi nell’ora malinconica in cui anche la finestra si oscurava, passava la voce lamentevole di quel che vendeva i giornali: — Secolo! il Secolo! — come una malinconia che cresceva. E la Gilda non veniva. Al san Giorgio, com’era tornato il bel tempo, la giornalista lì accanto ed altri vicini progettarono una gita in campagna. Il Carlini, che s’era fatto di casa, fu della partita anche lui. La sera scesero dal tramvai tutti brilli, e portando delle manciate di margheritine e di fiori di campo. Il Carlini, in vena di galanteria, volle regalare alla Màlia tutti quei fiori che gli impacciavano le mani. La povera malata ne fu contenta, come se le avessero portato un pezzo di campagna. Dal suo lettuccio aveva vista la bella giornata di là dalla finestra, sul muro dirimpetto che sembrava più chiaro, colla pianticella del terrazzino che metteva le prime foglie. Ella voleva che le piantassero quei fiorellini in un po’ di terra, perché non morissero, in qualche coccio di stoviglia, che ce ne dovevano essere tante in cucina. Un capriccio da moribonda, si sa. Gli altri rispondevano ridendo che era come far camminare un morto. Per contentarla ne collocarono alcuni in un bicchier d’acqua sul cassettone, e a fine di tenerla allegra tirarono fuori il discorso della veste a righe rosse e nere, tuttora in pezza, che la Màlia si sarebbe fatta fare, quando stava meglio. Suo padre ci aveva le forbici, e il refe e tutti i ferri del mestiere. La poveretta li ascoltava guardandoli in volto ad uno ad uno, e sorrideva come una bambina. Il giorno dopo i fiori del bicchiere erano morti. Nel bugigattolo mancava l’aria per vivere. L’estate cresceva. Giorno e notte bisognava tener spalancata la finestra pel gran caldo. Il muro di faccia si era fatto giallo e rugoso. Quando c’era la luna scendeva sin nella stradicciuola in un riflesso chiaro e smorto. Si udivano le mamme e i vicini chiacchierare sulle porte. Al ferragosto il sor Battista coi denari delle mance prese una sbornia coi fiocchi, e si picchiarono colla sora Giuseppina. Il Carlini, nel far da paciere, si buscò un pugno che l’accecò mezzo. La Màlia quella sera stava peggio; e con quello spavento per giunta, il medico che veniva pel primo piano disse chiaro e tondo che poco le restava da penare, povera ragazza. A quell’annunzio babbo e mamma fecero la pace, e venne anche la Gilda vestita di seta, senza che si sapesse chi glielo aveva detto. La Màlia invece credeva di star meglio, e chiese che le sciorinassero sul letto il vestito in pezza del Carlini, onde «farci festa» diceva lei. Stava a sedere sul letto, appoggiata ai guanciali, e per respirare si aiutava muovendo le braccia stecchite, come fa un uccelletto delle ali. La sora Carolina disse che bisognava andare pel prete, e il babbo che quelle minchionerie le aveva sempre disprezzate col Secolo, se ne andò all’osteria in segno di protesta. La sora Giuseppina accese due candele, e mise una tovaglia sul cassettone. Màlia, al vedere quei preparativi si scompose in viso, ma si confessò col prete, anche il bacio del Carlini, e dopo volle che la mamma e la sorella non la lasciassero sola. Il babbo, l’aspettarono, s’intende. La sora Giuseppina si era appisolata sul canapè, e Gilda discorreva sottovoce col Carlini accanto alla finestra, credendo che la Màlia dormisse. Così la poveretta passò senza che se ne accorgessero, e i vicini dissero che era morta proprio come un canarino. Il babbo il giorno dopo pianse come un vitello e la sua moglie sospirava: — Povero angelo! Hai finito di penare! Ma eravamo abituati a vederla là, a quella finestra, come un canarino. Ora ci parrà di esser soli peggio dei cani —. La Gilda promise di tornar spesso e lasciò i denari pel funerale. Ma a poco a pocò anche il Carlini diradò le visite, e come aveva cambiato alloggio a San Michele, non si vide più. Sulla finestra il babbo, per mutar vita, fece inchiodare un pezzetto d’asse, con su l’insegna «Sarto» la quale vi rimase tale e quale come il canarino del n. 15.


Amore senza benda



Battista, il ciabattino, era morto col crepacuore che Tonio, suo eguale, fosse arrivato a metter bottega in Cordusio, e lui no: la vedova seguitava ad arrabattarsi facendo la levatrice in Borgo degli Ortolani, magra come un’acciuga, con delle mani spolpate che sembrava se le fosse fatte apposta pel suo mestiere. Tutta pel figliuolo, Sandro, un ragazzo promettente, che «l’avrebbe fatta morire nelle lenzuola di tela fine, se Dio voleva, com’era nata», diceva la sora Antonietta a tutto il vicinato; e si turava il naso colle dita gialle quando saliva certe scale. Dell’altra figlia non parlava mai: che era portinaia in San Pietro all’Orto, e il marito le faceva provar la fame. Sandrino aveva la sua ambizione anche lui, e gli era venuta una volta che il padrone l’aveva condotto a vedere il ballo del Dal Verme, in galleria. Volle essere artista, comparsa o tramagnino. La sora Antonietta chiudeva gli occhi perché Sandrino era il più bel brunetto di Milano, — non lo diceva perché l’avesse fatto lei! — ed anche pei cinquanta centesimi che si buscava ogni sera a quel mestiere. Quando ballava la tarantella del Masaniello, vestito da lazzarone, la contessa del palchetto a sinistra se lo mangiava con gli occhi, dicevano. A lui non glie ne importava della contessa, perché era fatta come un salame nella carta inargentata; ma ci aveva gusto pei suoi compagni di bottega, che si martellavano d’invidia a batter la suola tutto il giorno, lo canzonavano e lo chiamavano «sor conte» per gelosia. La domenica, colla giacchetta attillata, e il virginia da sette all’aria, se ne andava girelloni sul corso, più alto un palmo del solito, a veder le contesse. All’occorrenza parlava di tanti che erano cominciati ballerini, tramagnini al pari di lui, o anche semplici comparse, per arrivare ad essere coreografi, cavalieri, ricchi sfondolati, artisti insomma, tale e quale come il maestro Verdi. — Artisti da piedi! — rispondeva la mamma. — No, no, ci vuol altro! — Ella aveva messo gli occhi addosso alla figlia unica del padrone di casa, carbonaio, una grassona col naso a trombetta, e le mani piene di geloni sino a tutto aprile. — Con quella lì, quando fosse morto il vecchio, c’era da mettere carrozza e cavalli. Perciò teneva l’orfanella come la pupilla degli occhi suoi, le faceva da madre, la lisciava e l’accarezzava. Nelle serate a benefizio della famiglia artistica, quando la Scala rimaneva quasi vuota, si faceva dare gratis dei biglietti di piccionaia, e conduceva al ballo tutta la famiglia, il carbonaio colla camicia di bucato e la ragazza strizzata nello spenserino di seta celeste, per mostrare il suo Sandro, là, quello colle lenticchie d’oro sulle mutande, che faceva girare il lanternone! Un ragazzo di talento! Purché non si fosse indotto a far qualche scioccheria colle contesse che sapeva lei! Il carbonaio spalancava gli occhi al veder le ballerine, e diventava rosso che pareva gli stesse per venire un accidente. Ma Sandrino non voleva saperne della carbonaia. Egli s’era innamorato di Olga, una ragazza del corpo di ballo, dal musino di gatta con tanto di pèsche sotto gli occhi, che non aveva ancora sedici anni. La mamma di lei, ortolana in via della Vetra, soleva dire alle vicine: — Non volevo che facesse la ballerina; ma quella ragazza si sentiva il mestiere nel sangue —. La Olga quando ammazzolava le carote colle mani sudice, chiamavasi Giovanna, e aveva una vesticciuola sbrindellata indosso. Allorché la Carlotta, lì vicino, le regalava un nastro vecchio, e poteva scappar da lei a infarinarsi il viso, borbottava tutta contenta: — Vedete, se fossi come la Carlotta! Qui mi si rovinano le mani, ogni anno! — E tutta sola, davanti allo specchio della ballerina, tirava su le gonnelle, e studiava i passi e le smorfie, e a dimenare i fianchi. Alla Scala da principio se ne stava lì grulla, ritta sulle zampe come il pellicano, non sapendo cosa farne. Sandrino prese a proteggerla perché le altre ragazze la tormentavano coi motteggi. — Non dia retta, sora Giovannina. Son canaglia, che hanno la superbia nel vestito; ma se vedesse che camicie, nello spogliatoio! — Ella, per riconoscenza, gli piantava addosso quegli occhi che facevano girare il capo. La prima volta che si lasciò rubare un bacio, al buio nel corridoio, gli si attaccò al collo, come una sanguisuga, e giurarono di amarsi sempre. La sora Antonietta inferocita, non voleva sentirne parlare; e sbuffava ogni volta che Sandrino gliela conduceva a casa la domenica. Solo il carbonaio l’accoglieva amorevolmente, e le prendeva il ganascino, colle mani sudice che lasciavano il segno. Sandro duro come un mulo. Infine sua madre andò a dire il fatto suo a quella di via della Vetra: — Cosa s’erano messi in testa quei presuntuosi? Volevano far sposare a Sandrino una che mostrava le gambe per cinquanta lire al mese? Meglio di quella glie ne erano passate tante per le mani, che erano cadute per l’ambizione di chiappare il sole e la luna! — Il sole e la luna! — rimbeccò l’ortolana — col bel mestiere che fa la mamma, che ogni momento vi chiamano in questura e dinanzi al giudice! — Sandrino, quella volta, s’era presi degli schiaffi nel mettere pace; e la Olga, causa innocente, per consolarlo alla prova gli saltò in mutandine sulle ginocchia, come una bambina. — Quando quella ragazza si farà — dicevano le più esperte della scuola — vedrete! — Intanto cominciarono a ronzarle attorno i mosconi delle sedie d’orchestra, e la Nana, a cui Sandrino giurava di voler raddrizzar le gambe storte, portava i bigliettini e i mazzi di fiori. La Olga resisteva. Ma quando il barone delle poltrone le piantava addosso l’occhialetto, la ragazza tendeva il garretto, e lasciava correre in platea delle occhiate nere come il diavolo. La Carlotta, vedendo che quella pitocca raccolta da lei stessa, alla sua porta, voleva levargli il pane, sputava veleno contro Sandrino che vedeva e taceva. — No che non taccio! — sclamava Sandrino. — Sentirete quel che farò se me ne accorgo io! — Una sera stava vestendosi pel ballo, col cappellaccio a piume, e il mantello ricamato d’oro quando vide passare la Nana, con un mazzo di fiori, che infilava arrancando il corridoio delle ballerine. — Sangue di!... corpo di!... — cominciò a sbraitare; ma pel momento non poté far altro, ché di fuori chiamavano pel ballo. Olga comparve l’ultima, infarinata come un pesce, scutrettolando più che mai, e col garretto teso, quasi avesse preso un terno secco quella sera. — Olga, — le disse Sandrino sotto la fontana di carta, mentre le ragazze si schieravano scalpicciando e sciorinando le gonnelline. — Olga, non mi fare la civetta, o guai a te!... — La Olga avrebbe potuto stare nella prima quadriglia, tanto si sbracciava e dimenava i fianchi, che bisognava scorgerla per forza. — O che non l’abbassa mai l’occhialetto quello sfacciato! — borbottava lui, mentre sgambettava con grazia reggendo la ghirlanda di fiori di tela, sotto la quale Olga passava e ripassava luccicante e con tutte le vele al vento. Ella, per togliersi la seccatura, gli rispose che quel signore voleva godersi i denari che spendeva. — E tu ci hai gusto! — insisteva Sandro. — Lo fai apposta! Quando hai a passare sotto la ghirlanda, ti chini come se io fossi nano. — Mi chino come mi piace! — rispose lei alfine. E per giunta il direttore assestò a lui la multa. Al vederla così caparbia, con quegli occhi indiavolati, che buttava all’aria ogni cosa, egli se la mangiava con gli sguardi come quell’altro, e ballava fuori tempo dalla rabbia. La Olga pareva che lo facesse apposta a girargli intorno senza farsi cogliere. Infine, nel galoppo finale, poté balbettarle ansante sulla nuca: — Se tu cerchi l’amoroso nelle poltrone, troverò anch’io qualcosa nei palchi. — Bravo! — rispose lei. — Ingégnati! — Egli si strappava i pizzi e i ricami di dosso, buttandoli sul tavolaccio unto, e sbuffava e giurava che voleva aspettar davvero la contessa. Ma questa gli passò accanto sotto il portico senza vederlo nemmeno, e il cocchiere, impellicciato sino al naso, gli andava quasi addosso coi cavalli, senza dir: — ehi! — Sandrino tornò mogio mogio in via Filodrammatici, donde le ragazze uscivano in frotta, e la Irma strapazzava per bene il suo banchiere che non l’aveva aspettata come al solito sotto il portico dell’Accademia. Olga veniva l’ultima, lemme lemme, col suo scialletto bianco che metteva freddo a vederlo, e un bel mazzo di rose sotto il naso. — Vedi come la Irma sa farsi aspettare? — disse a Sandro. — Ed è un signore con cavalli e carrozza! — Sandrino pretendeva invece che gli dicesse chi le aveva date quelle rose. Ma ella non volle dirglielo. Poi gli inventò che gliele aveva regalate la Bionda. — Vengono da Genova, — osservò. — E costan molto! — In questa li raggiunse una carrozza, all’angolo di via Torino, e il signore delle poltrone si affacciò allo sportello per buttare un bacio alla ragazza. Sandrino gridava e sacramentava che voleva correr dietro al legno. Ma lei lo trattenne per le falde del soprabito un po’ malandato, sicché Sandrino si chetò subito. — Perché hanno dei denari!... Ma Dio Madonna!... — Se mi accompagni per far di queste scene preferisco andarmene tutta sola, — disse lei. — Lo so che sei già stufa! Se sei stufa, dimmelo che me ne vado! — Ella non rispondeva, a capo chino, dimenando i fianchi, talché Sandrino si ammansò da lì a poco. Quando era colla Olga non sentiva né il freddo, né la stanchezza, e l’avrebbe accompagnata in capo al mondo. — Però, — brontolò lei, — qualche volta potresti pigliare un brum, col freddo che fa. Sento la neve dai buchi delle scarpe. — Vuoi che pigliamo il brum? — No, adesso è inutile, adesso! — E seguitava a brontolare. — Del resto, pel gusto che c’è... sono due anni che ho questo scialletto, e pare una tela di ragno! Come se tua madre non fosse venuta sino a casa mia per dire che volevano rubargli il figliuolo! Non siamo mica dei pezzenti, sai! — Lascia stare, lascia stare — rispondeva lui, ma vedendo che infilava già la chiave nella toppa: — Così mi lasci, senza darmi un bacio?... — La Olga si volse e glielo diede. Poi entrò nell’andito e chiuse l’uscio. Il domani, Sandrino si fece anticipare quindici lire dal principale, e comperò un manicotto e una pellegrina di pelle di gatto. Ma la Olga non venne alla prova. Il giorno dopo le appiopparono la multa, ed ella snocciolò le lirette una sull’altra, sorridendo come niente fosse. — Grandezze! — esclamò Sandrino, masticando veleno. — Ha preso l’ambo, sora Olga! — Giurò che voleva darle due schiaffi se la incontrava col barone, in parola d’onore! E glieli diede davvero, al caffè Merlo dei Giardini Pubblici, una domenica mentre pigliava il sorbetto coi guanti sino al gomito, sotto un cappellone tutto piume. Pinf! panf! Il barone, pallido come un cencio, voleva compromettersi. Però la Olga se lo condusse via, gridandogli di non sporcarsi le mani con quello straccione. — Straccione! — borbottava lui. — Ora che ci hai di meglio son diventato uno straccione! E par tisico in terzo grado il tuo barone! È vero che a questo mondo tutto sta nei denari! — Ed ora faceva l’occhio di triglia alla sora Mariettina, la figlia del padrone di casa, dalla finestra del cortiletto puzzolente. — La sta bene, sora Mariettina? Gran bella giornata oggi! — La mamma sottomano aggiungeva: — Quel ragazzo è innamorato morto di lei. Ne farà una malattia, ne farà! — E si asciugava gli occhi col grembiule. La sora Marietta si sentiva gonfiare il petto sino al naso. Scendeva nel cortile, a pigliar aria, e si perdevano per la scaletta col giovane. Il babbo, sempre in mezzo al suo carbone non si accorgeva di nulla. Quando la sora Antonietta vide i ferri ben scaldati, annunziò che avrebbe fatto San Michele e se ne sarebbe andata via di quella casa per impedire il male, se era tempo. Sandrino sospirava, guardando la ragazza; e tutti e due volevano buttarsi nel Naviglio, se avevano a lasciarsi. — Non te l’avevo detto? — esclamava la madre; e tremava che non avesse a succedere qualche guaio grosso. Quello scrupolo non le faceva chiuder occhio nella notte, e se ne confessava col sor prevosto perché ne parlasse al padre della ragazza. Ma il carbonaio, che aveva l’anima nera come la pece, non volle sentir ragione. — Bugie! Tutta invenzione della levatrice, che non si contenta di fare quel mestiere solo —. Allora la Mariettina, a provare ch’era vero, scappò via con Sandro. Egli le aveva detto come alla Olga: — O lei, o nessun’altra! — In tal modo Sandrino ebbe la Mariettina, ma senza dote. E la levatrice dovette adattarvisi pel decoro dell’impiego. Allora il suocero si riconciliò con tutta la brigata, e andava dicendo che il veder quelle due tortorelle gli metteva il pizzicore di fare come loro, benedetti! Già, gli avevano preso la figliuola, e solo non poteva starci. La sora Antonietta, abbaiando come un cane da caccia, venne a scoprire che il vecchio «impostore» gira e rigira era andato a cascare nella Olga, a Porta Renza, e gli costava un occhio del capo all’avaraccio: appartamento, donna di servizio, e mobili di mogano. Il vecchio adesso voleva sposarla per fare economia, e mettersi in grazia di Dio. La Olga non era più una ragazzina, pensava all’avvenire, e si lasciava sposare. Sandrino, al sentire che gli portavano in casa quella poco di buono, montò sulle furie, e voleva anche piantar la moglie; tanto, colla figlia unica o senza, gli toccava sempre tirar lo spago, nella bottega del calzolaio. Sua madre più giudiziosa lo calmò dicendogli che era meglio avere la suocera sott’occhio, per poterla sorvegliare. — Il peggio è se gli appioppa qualche figliuolo! — osservava lei che se ne intendeva. — E se il vecchio non c’era cascato sino a quel giorno, non voleva dire; che il sacramento del matrimonio fa dei miracoli peggio di quello. La Olga, credendo diventar signora, fece il suo malanno col mettersi in grazia di Dio, e gli toccò subirsi il marito, il quale intendeva fare economia dei denari spesi prima, e per giunta la sora Antonietta, tornata in pace, che non la lasciava un momento solo, onde dimostrarle che non aveva fiele in corpo. — Tutti quei dissapori devono aver fine. — diceva alla Olga ed al Sandro. — Adesso siete quasi come madre e figlio —. La Olga dalla noia di non veder altri in casa sua, si era riconciliata col Sandrino. Gli pareva di tornare a quei bei tempi, quando non era così grassa; e anche lui si scordava della Marietta che s’era messa sulle spalle proprio per nulla. L’altra negli occhi ci aveva sempre quella guardatura che a lui gli metteva le pulci nel sangue, e quando la baciò per far la pace, gli parve come quando l’accompagnava ogni sera in via della Vetra. — Bei tempi, eh? sora Olga? — Ella raccontava che la Irma s’era fatta sposare dal banchiere, e la Carlotta era andata a cercar fortuna in America. — Io sola non ho sorte! — Bada a quel che fai! — predicava la sora Antonietta; — se affibbia un figliuolo al vecchio, dell’eredità vi leccherete i baffi —. La Marietta, lì presente, approvava del capo. — Siete matte? — rispondeva Sandro. — La roba di mia moglie! O per chi mi pigliate? — Egli corteggiava la madrigna allo scopo di tenerla d’occhio, né più né meno, come faceva la sora Antonietta. L’accompagnava in via della Vetra, ché la Olga non aveva ombra di superbia, e gli piaceva stare nella bottega come quand’era ragazza. L’ortolana diceva ai due ragazzi: — Vedete! chi l’avrebbe detto? Eppure ci siete tornati! Ma la sua mamma è pure una gran linguaccia, sor Sandrino! — Lasci stare, lasci stare! — ripeteva lui. E nell’andarsene, la sora Olga gli pigiava il gomito, come a dire: — Si ricorda? — Era là, in quella stessa stradicciuola scura e tortuosa. Una volta che non passava gente, egli la strinse fra le braccia. D’allora non ebbero più pace; il sangue bolliva nelle vene a tutti e due, e si correvano dietro come due gatti in febbraio. La sora Antonietta predicava: — Bada a quel che fai! Bada veh! — Lui turbato, coi capelli arruffati e gli occhi fuori del capo, rispondeva sempre: — No! No! siete matta? Quello no. State tranquilla! — Il vecchio era geloso delle visite alla mamma e della gente che ci aveva sempre fra i piedi. Lagnavasi che gli avevano fatto la chiave falsa, e l’ortolana si pappava i suoi denari; la levatrice s’era tirata anche in casa la figliuola, quella di San Pietro all’Orto, e mangiavano tutti alle sue spalle, diceva. Quei dispiaceri gli accorciarono la vita. La Olga stava chiacchierando con Sandrino allato alla tromba, colla secchia in mano, poiché arrivavano anche a quei pretesti per vedersi, e non sapevano più stare alle mosse. Egli voleva toglierle la secchia dalle mani, tutto tremante. — No! No! — rispondeva lei, a capo chino, col petto ansante, perché era gelosa della Marietta. E Sandro balbettava che la Marietta era un’altra cosa. Lo giurava anche. Volergli bene sì, ma... In questo momento alla finestra gridarono che al marito della Olga era venuto un accidente. Sandrino scappò a chiamare la moglie e la suocera. E tutti si piantarono dinanzi al letto, col viso arcigno. Appena il vecchio poté dar segno di vita, prima che venisse il prete, mandarono pel notaio. Il moribondo nel punto di comparire al giudizio di Dio, biascicò: — La roba a chi tocca —. E se ne andò in santa pace. Quanto all’Olga la cacciarono fuori a pedate, e Sandrino giurò che voleva tenerle gli occhi addosso anche se si mutava di camicia, per impedirle di portar via la roba della sua Mariettina. Lei, sulle scale, gridava che il vecchio ladro gli aveva rubata la gioventù, e voleva litigare e dir tutte le porcherie di quella casa. Ma Sandrino, trattenendo la moglie per le sottane l’accarezzava e le diceva: — Non dar retta! Lasciala sgolare! Sai che donnaccia! Non ti guastare il sangue per colei! Ora vogliamo stare allegri —.


Semplice storia



Balestra era arrivato da poco al reggimento, insaccato nel cappotto; Femia stava bambinaia in via Cusani: così incontravansi spesso in piazza Castello, davanti alla banda, Femia leticando coi bambini della padrona, lui perso nella baraonda di Milano, e pensando al suo paese, colla mano sulla daga. Un bel giorno finirono col mettersi a sedere allato, sotto i castagni d’India in fiore, e scambiarono qualche parola intorno alla folla che vi era quella domenica, ai bambini della Femia i quali le davano di quelle paure col tramvai lì vicino. Carletto l’altro giorno s’era ammaccato il naso cadendo lungo disteso. — Ella baciava il fanciullo che non voleva saperne, e strillava. — Quando si è soli al mondo ci si attacca anche alle pietre. — Tale e quale come lui! Al reggimento non aveva né amici né parenti. Da principio non si capivano; perché Balestra era di quelle parti là del Mezzogiorno dove parlano che Dio sa come facciano ad intendersi. Alle volte, dopo aver chiacchierato e chiacchierato, conchiudevano col guardarsi in faccia, grulli, e si mettevano a ridere. Ma ci avevano preso gusto lo stesso a stare insieme. Ogni giorno, mentre Balestra aspettava la ritirata sul sedile, colle gambe ciondoloni, Femia arrivava col suo grembiale bianco, correndo dietro i marmocchi, e si davano la buona sera. Egli, chiacchierone, a poco a poco le narrò ogni cosa dei fatti suoi; che era di Tiriolo, vicino a Catanzaro, e ci aveva casa e parenti laggiù, all’estremità del paese, dove cominciano i prati, come quel pezzetto di verde che si vedeva verso l’Arco del Sempione, — quattro fratelli, e il padre carrettiere; l’avrebbero voluto in cavalleria per questo motivo, se non era il deputato che aveva da fare con suo padre — un ricco signore. Ma Balestra non vedeva l’ora di tornarsene a casa, quando piaceva a Dio, perché ci aveva l’innamorata, Anna Maria della Pinta, che gli aveva promesso d’aspettarlo, se tornava vivo. — E tirava fuori dal cappotto anche le lettere sudice e logore di Anna Maria — sapeva di lettere — un pezzo di ragazza così. Femia, che non aveva avuto mai un cane intorno, s’inteneriva, gli guardava commossa gli occhietti lustri di quelle memorie, e il naso a trombetta che sembrava parlare anch’esso, tanto aveva il cuore pieno, e acconsentiva del capo. Anche lei ci aveva in testa un cristiano delle sue parti là del Bergamasco, il quale era andato fuori regno a cercare fortuma. Erano vicini di casa e lo vedeva andare e venire ogni giorno; null’altro. Prima di partire egli l’aveva pregata di tenergli d’occhio la casa, mentr’era via. Quando non se ne ha, bisogna ingegnarsi. Ella si era messa a servire per raggranellare un po’ di corredo. Ora aveva il bisognevole e ogni cosa meglio di prima; ma pensava sempre al suo paese, quantunque non ci avesse più nessuno. Un giorno il caporale si alzò colle lune a rovescio, e appioppò otto giorni di consegna a Balestra, per un bottone che mancava alla stringa del cappotto. — E al superiore non si risponde nemmeno che non si possono avere gli occhi di dietro. — Femia, inquieta, si avventurò sino alla porta del castello, in mezzo alle carrette degli aranci, e ai soldati di cavalleria che strascinavano le sciabole. Allorché lo rivide finalmente la domenica, coi guanti di bucato, fu una vera festa. — O come? — Ma già! — rispose lui. — Questo vuol dire militare! — Alle volte le dava del tu, all’uso del suo paese. Ma ella si faceva rossa dalla contentezza, come se fosse per un altro motivo. Allora si lagnò che stesse zitto, se aveva bisogno che gli attaccassero un bottone, o altro, quasi gli amici non ci fossero per nulla. Balestra grato la regalò di sorbetti, lei ed i bambini, schierati dinanzi alla carretta, che ficcavano le mani nella sorbettiera; e Femia leccava il cucchiarino, adagio adagio, guardandolo negli occhi. Lui pagava da principe, coi guanti di cotone, e la treccia al chepì. Come suonava la banda, lì in piazza, si sentiva dentro il petto quelle trombe e quei colpi di gran cassa. Poi la ritirata si mise a squillare con una gran malinconia, davanti al castello tutto nero, in fondo alla piazza formicolante di lumi. Egli non sapeva risolversi a lasciare la mano di Femia, che gli stringeva le dita di tanto in tanto, anch’essa senza parlare. I bambini che si seccavano strillavano per andare alla giostra. Femia non aveva soldi, e la mamma era tirchia. La prima volta che sgridarono Carletto perché s’era fatto uno strappo ai calzoncini, il ragazzo accusò Femia che si faceva regalare il sorbetto dal militare col quale andava a spasso. — Cos’è questa storia del militare? — chiese la padrona. — Mi avevi assicurato d’essere una ragazza onesta —. Il padrone invece scoppiò a ridere. — La Femia, con quella faccia lì?!... — La poveraccia si mise a piangere. Eppure del male non ne facevano. Ma adesso, quando Balestra voleva condurla verso l’Arco del Sempione, ella diceva di no, che non stava bene. Per acchetare i bambini, che non volevano allontanarsi dalla banda, gli toccava spendere; e non ostante, a ogni pretesto, la minacciavano di dir tutto alla mamma. — Così piccoli! — diceva la Femia. — E hanno già la malizia come i grandi! — A quei discorsi la malizia spuntava anche nel Balestra, il quale cercava sempre i posti all’ombra sotto gli alberi, e voleva menarla alla Cagnola nel tramvai, e inventava dei pretesti per levarsi d’attorno i bimbi, che sgranavano gli occhi, neri così. Di soppiatto le stringeva la mano, dietro la schiena; o faceva finta di nulla, lasciandosi poi andare sulla spalla di lei, mentre camminavano passo passo, guardando in terra, e spingendo i ciottoli col piede, sentendo un gran piacere a quella spalla che toccava l’altra. Una volta arrivò a darle una strappata alla gonnella, di nascosto, colla faccia rossa e gli occhi che fingevano di guardare altrove, ma gli schizzavano dalla visiera del chepì. Infine spiattellò: — Mi vuoi bene, neh? — E non sapeva come l’amore fosse venuto. Femia gli voleva bene. Ma terminata la ferma egli se ne sarebbe andato via, e perciò era meglio lasciar stare. Balestra pensava che quando sarebbe tornato a casa, avrebbe trovato l’Anna Maria che l’aspettava, se Dio vuole. Non importa. Intanto c’era tempo. Piuttosto lei, che pensava ancora a quell’altro, di là fuori regno. Gli faceva delle scene di gelosia per quel cosaccio. Femia giurava che non ci pensava più, davanti a Dio! — Così farete anche voi, quando ve ne andrete via di qua. — Intanto abbiamo tempo, — rispondeva lui. — Ho ancora trenta mesi da star soldato —. Gli pareva che da soldato dovesse sempre stare a Milano. Però un giorno arrivò dalla Femia tutto sossopra, coll’annunzio che partiva per Monza tutto il battaglione. Ella non voleva crederci, lì sull’uscio della portinaia, la quale fingeva di non veder nulla. Poi osservò che almeno Monza non era lontana; ma al risalir le scale sentì al tremore delle gambe la gran disgrazia che l’era piombata addosso. La padrona, non si sa come, venne a sapere del militare che bazzicava in portineria e le diede gli otto giorni per cercarsi un’altra casa. Femia sbalordita com’era dall’angustia, non sentì nemmeno il colpo. Il domani, a qualunque costo, volle andare a salutare Balestra alla stazione. Erano tutti sul piazzale, coi sacchi in fila per terra, pigiandosi attorno alle carrette dei fruttivendoli. Balestra le corse incontro, coi suoi arnesi da viaggio a tracolla, e il chepì foderato di bianco. Che crepacuore, al vederlo così! Andavano su e giù pel viale, col cuore stretto; e quando fu il momento di partire, egli la tirò in disparte e la baciò. Per fortuna Monza non era lontana. Ella gli aveva promesso di andarlo subito a trovare. Ma quegli otto giorni in piazza Castello pareva che non ci fosse più nessuno, e ogni soldato che passava i bambini, poveri innocenti, chiedevano: — Balestra perché non viene? — Infine i padroni la mandarono via tutta contenta, col suo fardelletto di roba e quel gruzzolo di salario che aveva raggranellato. Gli rincresceva solo pei ragazzi, che avevano fatto male senza saperlo. Arrivò a Monza il sabato sera; ma lui non poté vederlo, perché era di guardia. Allora si sentì sconfortata, in quella città dove non conosceva nessuno. Per Balestra il rivederla fu una festa. Desinarono insieme, e la condusse a vedere il Parco, che ognuno poteva andarci. Là gli pareva di essere nei campi del suo paese, coll’Anna Maria, e Femia si lasciava baciare come voleva lui, tutta contenta che gli volesse bene. — Peccato che non si possa star soli insieme! — diceva Balestra. Ella non rispondeva nulla. La sera, in caserma, i camerati che l’avevano visto con quella marmotta si burlavano di lui e gli dicevano: — Che ti pareva non ce ne fossero di meglio a Monza? — Ma egli era un ragazzo costante. Piuttosto gli rincresceva che Femia ci avesse a patire negli interessi, per star dove era lui. Ei non voleva far del male ad alcuno; no davvero! Femia invece era contenta di lavorare alla filanda, lì vicino. Che gliene importava di un boccone di più o di meno? — Già non ho altri al mondo, ve l’ho detto! — Almeno si vedevano ogni domenica, perché lei esciva dal filatoio quando era già suonata la ritirata, e ci entrava appena giorno. Balestra progettava di affittare una stanza, dove potessero vedersi in santa pace, giacché in caserma non poteva condurla, e non era un bel divertimento star sempre a passeggiare nel Parco. Ella non disse di no; ma lo guardava timorosa, con quell’innocenza che le era rimasta perché non aveva trovato mai un cane che la volesse. Nel frattempo le capitò la disgrazia d’ammalarsi. Fu un pezzo più di là che di qua, e la portarono all’ospedale di Milano. Balestra scrisse due volte. Poi seppe che aveva il vaiuolo. Dopo circa due mesi Femia guarì, ma col viso tutto butterato; talché si vergognava a farsi vedere da Balestra in quello stato. Passarono giorni e settimane prima che si decidesse a tornare al filatoio. A poco a poco il gruzzolo di denari se n’era andato, ed era proprio necessario! Però in cuor suo era contenta che fosse necessario, perché voleva vedere cosa ne dicesse lui. Andò a Monza un sabato, come l’altra volta, per aspettare la domenica all’albergo. Il cuore le batteva, mentre vedeva i soldati che escivano dalla caserma a schiere di quattro o cinque. Balestra era dei primi, e quasi non la riconosceva. Poi disse: — Oh, poveretta, come siete ridotta! — Andarono insieme al Parco, come al solito, discorrendo dei casi loro. Egli stava per terminare la ferma, e aspettava il congedo. — Ora, — disse, — me ne vado al mio paese —. Femia domandava se avesse notizie dell’Anna Maria. — No, da un gran pezzo — lo sapete il proverbio: lontan dagli occhi lontan dal cuore. — Non importa, — conchiuse. — Son contento ad ogni modo di tornarmene a casa —. Da che non s’erano più visti, egli si era trovata un’altra amante, lì nelle vicinanze. Femia lo vide insieme a lei qualche giorno dopo, che camminavano a braccetto pel viale. Balestra era stato zitto. Quando Femia gliene parlò la prima volta, gli venne un risolino furbo, fra pelle e pelle, sotto il naso a trombetta. — Ah, la Giulia? come lo sapete? — Ella glielo disse. Balestra voleva sapere pure che gliene sembrava. — E così — conchiuse Femia, — se partite, lasciate anche lei? — Già, non posso mica tirarmi dietro tutti quelli che vorrei. A questo mondo, si sa!... Ma ancora non le ho detto nulla —. Femia andava a cercarlo, ogni volta che poteva, timidamente, per chiedergli se gli occorresse qualche cosa. Lui, grazie, non gli occorreva nulla. Quando si vedevano parlavano anche della Giulia e del congedo che non arrivava, e del poco lavoro che ci era al filatoio. Poi Balestra scappava per correre dall’altra, la quale era gelosa. Guai se lo sapesse! Questa era la sola carezza che toccasse a Femia: — guai se Giulia sapesse! — Infine venne il giorno della partenza. Femia almeno desiderava accompagnarlo alla stazione, se si poteva... — Perché no? — disse Balestra. — Ormai, quell’altra... me ne vado via! — Del resto se pure la vedeva, si capiva che erano butteri venuti dopo, come può capitare a tutti, ed egli non l’aveva presa con quella faccia. Discorrevano sotto la tettoia, aspettando il treno, Balestra guardando di qua e di là se spuntava la Giulia. — Ma si sa, a questo mondo!... Specie ora che la Giulia era certa di non vederlo più. — Inoltre si erano un po’ guastati perché lei aspettava che Balestra le lasciasse un regaluccio. Femia ci pensava, e non osava dirgli che gli aveva comperato apposta un anellino colla pietra. Balestra intanto accennava che Anna Maria, dopo tanto tempo, chissà?... Femia domandava da che parte fosse il suo paese, e quando contava d’arrivare. In questa sopraggiunse il treno, sbuffando. Balestra raccattò in fretta le sue robe, zaino, sacco, cappotto. — Doveva tenerli di conto pel debito di massa. — Intanto ella facendosi rossa gli aveva cacciato in mano l’anello messo nella carta. Egli non ebbe il tempo di domandare cosa fosse, né perché avesse gli occhi pieni di lagrime. — Partenza! partenza! — gridava il conduttore. L’osteria dei «Buoni Amici» La prima volta che agguantarono Tonino in questura, un sabato grasso, fu per via di quelle donne di San Vittorello, che l’Orbo l’aveva strascinato a far baldoria coi denari della settimana. Per fortuna non gli trovarono addosso la grossa chiave colla quale aveva mezzo accoppato il Magnocchi, merciaio. Erano stati a mangiare e a bere all’osteria dei «Buoni Amici», lì in San Calimero, e l’Orbo aveva raccattato pure il Basletta e Marco il Nano — pagava Tonino. Dopo, pettoruto per la spesa che aveva fatto, disse: — S’ha da andare al Carcano? — che c’era veglione quella sera. Ma subito rientrato in sé si pentì della scappata, e contava nella tasca adagio adagio i soldi che gli restavano. Gli altri lo sbeffeggiavano. — Hai paura della mamma, neh? o della Barberina che ti tratta a sculacciate, come un bambino? — Già se loro andavano al veglione il biglietto lo pagavano a spintoni, tutti e tre ragazzi che gli bastava l’animo di passare sotto il naso delle guardie col mozzicone in bocca. E lì in teatro brancicamenti e pizzicotti alle mascherine, che non cercavano altro, tanto che il Nano e Basletta escirono a cazzotti, nel tempo che Tonino aveva condotto a bere una Selvaggia, la quale leticava coi cappelloni ogni volta, a motivo di quel gonnellino di piume che sventolava come una bandiera. Al caffè, coi gomiti sul tavolino, si erano dette delle sciocchezze, e la Selvaggia ci rideva su, col petto che gli saltava fuori, dall’allegria. Tonino gli avrebbe pagata mezza la bottega, sinché ne aveva in tasca, tanto erano ladri quegli occhi tinti col carbone, e quel fiore di pezza nei capelli, che gli avevano fatto come un’imbriacatura. E gli proponeva questo, e gli proponeva quell’altro, come uno che se ne intendeva ed era del mestiere, tavoleggiante al caffè della Rosa, lì a San Celso. L’Orbo, accorso all’odor del trattamento, andava dicendo che Tonino era figlio della prima erbaiuola del Verziere, e poteva spendere. Ma la ragazza voleva tornare a ballare, to’! Era venuta pel veglione. Poi non aveva più sete; grazie tante; un’altra volta. Tonino più s’accendeva: — Ancora un valzer, bellezza! — E ci si metteva tutto, col suo bel garbo di giovane di caffè, pettinato a ricciolini, dimenando il busto, le gambe che s’intrecciavano a quelle di lei, e sotto il naso quel petto che gli infarinava il vestito. — Mi lasci andare, caro lei, in parola d’onore. Ci ho lì il mio ballerino che mi ha pagato il costume, quel turco che fa gli occhiacci. Se vuol venire a trovarmi sa dove sto di casa, a San Vittorello; cerchi dell’Assunta —. Tonino, rosso come un gallo, gli avrebbe mangiato il naso a quel turco, anima sacchetta! L’Orbo, che gli stava alle costole non avendo altro da fare, lo calmava così: — Finiscila, e andiamo a bere —. Là fuori aspettavano Marco il Nano e Basletta, masticando un mozzicone di sigaro, e colle mani in tasca. Per scaldarsi andarono insieme dal Gaina. Tonino, che gli bruciava il sangue dal bere e dalla gelosia, ed anche di quel che gli dicevano che stesse sotto le gonnelle di sua sorella, sbraitava che voleva fare uno sproposito, porca l’oca! Voleva andare ad aspettare l’Assunta in barba al turco, proprio sulla sua porta, a San Vittorello! E gli altri, Marco il Nano e Basletta, a ridergli sul naso. Lui, per mostrare che era in sensi, non l’avrebbero tenuto in quattro. — Lascia andare, via! A quest’ora non ci aprono più ti dico. Piuttosto andiamo dal Malacarne che ha il valpolicella buono! — Tonino, buon figliuolo, da un momento all’altro, dimenticava ogni cosa e si lasciava condurre dove volevano, allegro come un pesce, sgolandosi a cantare la Mariettina, e come incontravano delle maschere gli gridavano dietro delle porcherie. Il Nano che aveva il vino donnaiuolo, tornò al discorso dell’Assunta, un bel tocco di ragazza, per bacco, con quel vestito da selvaggia! E allora Tonino s’infuriava coi compagni che non lo lasciavano andare dove gli pareva e piaceva, e lo tenevano davvero per un ragazzo! Così leticando, e colla lingua grossa, avevano fatto senza accorgersene il Corso di San Celso e via Maddalena, che Tonino alla cantonata si mise a correre per via San Vittorello, e voleva che gli aprissero a ogni costo, giacché di sopra c’era ancora il lume. Le donne al sentire i sassi alle finestre e i calci con cui picchiavano alla porta, si misero a gridare come se venissero ad accopparle, e non per altro. Magnocchi il quale era ancora di sopra coi compagni, scese in istrada. — Cosa venivano a cercare? Volevano un salasso pel vino che avevano in corpo? — Te lo darò io il salasso, barabba! — Nel parapiglia si udì gridare: — Ahi! m’ammazzano! — E l’Orbo fu appena in tempo di buttar via la chiave con cui Tonino aveva rotto il capo a quell’altro, che il ragazzo, pallido come un morto, non sapeva da che parte scappare, e già si udivano gli stivali delle guardie. Ai parenti andarono a dirglielo il giorno dopo, mentre la sora Gnesa disfaceva il banco, e la Barberina, fuori la baracca, guardava inquieta di qua e di là se spuntasse il fratello, perché il padrone del caffè l’aveva mandato a cercare. Fu l’Adele, la ragazza del barbiere che era venuta a vedere se ci avessero ancora due soldi di ravanelli rossi, per dopo tavola, e l’aveva sentita in bottega. — Hanno ammazzato quel che vende i nastri in via San Vittorello, e Tonino era nella rissa —. Per fortuna il Magnocchi non era morto; ma le donne, madre e figlia, si misero a strillare che Tonino li aveva precipitati. In un momento tutto il Verziere fu in rivoluzione. Barberina afferrò in mano le sottane, e via a chiamare il babbo, che solennizzava la domenica grassa dall’Ambrogio, il primogenito, il quale teneva pizzicheria in via della Signora. — Hanno arrestato Tonino in via San Vittorello! — Il sor Mattia, ancora male in gambe, prese il cappello per correre a San Fedele, e Ambrogio anche lui, scongiurando la sorella di chetarsi, per non rovinargli il negozio. In Questura li accolsero come cani, padre e figlio. Li lasciavano lì, sulla panchetta, senza che nessuno gli badasse, a far perdere tempo al pizzicagnolo, quella giornata, col cappello fra le mani. Il maresciallo che lo conosceva, gli disse burbero: — Torni domattina. Ha un bell’arnese di fratello, sa! — Poi Tonino escì a libertà, col cappelluccio sulle ventitré. Alla sora Gnesa che piagnucolava e brontolava, rimbeccò: — Orsù! finitela, mamma! Che son stufo, veh! — E accese la pipetta. La Barberina invece non voleva finirla. Gli strillava che era un boia, e loro marcivano sotto la tenda in Verziere per mantener il signorino in prigione e pagargli i vizi. Tanto che il fratello voleva darle due ceffoni, e fregarle quella sua faccia di pettegola colla sua stessa insalata, fregarle! In quella arrivò il babbo, e si rimise la pipa in tasca, mogio mogio. — Brigante! — cominciò il sor Mattia. — Cattivo arnese! non vedi come si lavora noi, tua mamma, tua sorella e Ambrogio? Ti pare che abbiamo a mantenere i tuoi vizi? Prima che ti accoppino gli sbirri voglio strozzarti colle mie mani piuttosto! Voglio romperti le ossa! — Ohè! — sclamava Tonino pallido come un cencio, e schermendosi coi gomiti. — Ohè! non giocate colle mani, babbo! non giocate! — La sora Gnesa strillava peggio di un oca, e la Barberina faceva accorrere tutto il Verziere. Il babbo diceva le sue ragioni a tutti. Per dargli uno stato aveva messo Tonino cameriere al caffè della Rosa, uno dei primi, e il padrone era suo amico. Quando si fosse impratichito si poteva aprir bottega anche loro; Ambrogio pizzicagnolo, le donne erbaiuole, lui al banco, tutta un’architettura che faceva rovinare quello scapestrato! Il sor Mattia soffocava dalla bile. Per non lasciarsi andare a qualche sproposito se ne tornò in via della Signora. Ambrogio corse a trovare il padrone del caffè, pregandolo di ripigliare Tonino, che era pentito e prometteva di far giudizio. — Caro lei, è impossibile. Nel mio mestiere è un affare serio. Ora che in questura hanno preso gusto a vostro fratello, non mi piace di vedermi quelle facce tutto il giorno in bottega, che vengono a cercarmelo in cucina e dietro il banco. Ci va del mio negozio. Voi lo pigliereste? — Ambrogio non voleva che suo fratello bazzicasse neppure nella sua bottega, dacché un questurino gli aveva battuto sulla spalla come a un vecchio amico. Le donne, il babbo e tutti si sfogavano allora sul malcapitato, buono a nulla, che restava di peso alla famiglia, e nessuno lo voleva. — Ero buono soltanto quando portavo a casa i denari delle mance! — brontolava il ragazzone, che gli facevano mancare quel che si dice il bisognevole, e lo tenevano in casa come un pitocco. Un giorno che Basletta lo incontrò a girandolare fra i banchi del mercato esclamò: — Tò! Sei qui? È un pezzo che non ti si vede. Mi paghi da bere? — Tonino rispose che non aveva soldi. I suoi di casa gli avevano fatte delle scene per quella storia di San Vittorello. Basletta, come passavano vicino alla baracca della sora Gnesa, adocchiò la Barberina che ammazzolava delle rape, colle belle braccia rosse, nude sino al gomito. — Finiscila! — borbottò Tonino. — Non mi piacciono gli scherzi a mia sorella. — — Guarda! adesso che sei stato in tribunale ti sei fatto permaloso! Non te la mangio mica tua sorella! Bel modo di accogliere la gente! — Voleva condurlo a salutar gli amici, cent’anni che non lo vedevano. Tonino, nicchiava. — Bestia! pel conto che fanno di te i tuoi parenti! Piantali, via —. Ai Buoni Amici trovarono l’Orbo, che voleva salutar Tonino anche lui, e giuocava a briscola in un cantuccio con dei carrettieri. Al Verziere non ci veniva più, perché la sora Gnesa lo accusava di guastargli il figliuolo, e Barberina gli faceva delle partacce. — Un gendarme, quella ragazza! — Poi dissero che volevano andare a cercare il Nano, il quale aveva disertato dai Buoni Amici dacché l’oste non gli faceva più credito. Prima di scovare dove avesse dato fondo il Nano dovettero girare mezza dozzina d’osterie. Marco adesso era come un uccello sul ramo, dacché aveva piantato i Buoni Amici. L’Orbo, che aveva vinto a briscola, pagò due volte da bere. Poi col Nano si abbracciarono e baciarono come se uscissero tutti di prigione; e stavolta pagò il Nano. — Voi altri, — conchiuse, — vi fate ancora rubare i quattrini da quel dei Buoni Amici. — Belli, quelli amici! Tutte guardie travestite, la sera! — Sicché, per farla corta, escirono in istrada ch’era acceso il gas, e Basletta doveva ancora andare a fare la mezza giornata del lunedì col principale, che l’aspettava in via dei Bigli, — c’era da mettere dei tappeti, prima di sera, che arrivavano i padroni! — Orbè! — rispose il Nano. — Arriveranno senza tappeti, e il principale aspetterà. Io ho piantato il mio, e piglio lavoro in casa, quando capita, da ebanista. È che ci vogliono capitali. Ma intendo lavorare a modo mio —. L’Orbo non gliene importava, perché s’era guadagnata la giornata a briscola. Egli non aveva mestiere fisso. Faceva di tutto, facchino, tosatore di cani, stalliere, sensale. Guadagnava dippiù, ed era libero come l’aria. — Viva la libertà! — esclamò Basletta. — Quando verrà la repubblica non ci saranno più né giovani né principali —. E tutti e quattro andavano ciondolando sul bastione, cantando a squarciagola, e giuocando a spintoni verso il fossato. Prima d’arrivare a Porta Romana videro luccicare nel buio le placche dei carabinieri. Risposero che tornavano dal lavoro. Tonino allora salutò la compagnia. — Torna a casa, va, ragazzo! Se no la Barberina ti dà le sculacciate! — gli gridavano dietro. — Dacché è stato a San Fedele quel ragazzo è diventato un pulcino bagnato, — disse l’Orbo. Ma ei non dava retta. All’Orbo, che lo stuzzicava più davvicino, gli diede una gomitata che quasi lo faceva ruzzolare nel fossato. In casa aiutava al negozio delle donne. Si alzava di notte, per scaricare i carri degli ortolani, rizzava il banco, accendeva il caldaro per le bruciate. Più tardi scambiava delle barzellette coi banchi vicini, giuocava di mano colle servotte, pispolava alle ragazze che passavano. Poi sbadigliava e si stirava le braccia. Ogni giorno leticava colla sorella che gli lesinava il soldo per la pipa. — Gli serve per quelle donnacce di via Pantano, che gli fanno pissi pissi dietro le persiane! — borbottava la Barberina. Ella non avrebbe dato un cavolo a credenza neppure al sor Domenico, il vinaio lì sulla cantonata, che era un uomo stagionato e facoltoso, e doveva sposarla. Tutta intenta al suo negozio, quella ragazza! Il sor Domenico stesso, alle volte, si muoveva a compassione del ragazzaccio, e gli dava il soldo ridendo. Tonino, rosso come un pomodoro, lo prendeva perché dovevano essere cognati; ma gli cuoceva dentro, perbacco! — Lavora! — gli rinfacciava il sor Mattia. — Fa quello che facciamo noi, poltronaccio! — E non si sarebbe mosso per cento lire dal suo posto, accanto al banco del pizzicagnolo, colle mani in croce sul bastone. Gli amici, ogni volta che incontravano Tonino, gli dicevano: — O scioccone! non vedi che ti tengono peggio di un cane? Fossi in te li pianterei, loro e il pane che ti fanno sudare —. L’Orbo aggiungeva che lui non voleva mischiarcisi, perché la Barberina minacciava di cavargli gli occhi, se lo vedeva bazzicare con suo fratello. — Un accidente, quella ragazza! — Ora lui cercava di vivere in pace e avere il suo pane assicurato. S’era messo a fare il facchino in una drogheria. Un buon impiego, niente da fare, e qualcosa spesso da mettersi in tasca. Tonino giurava che a lui gli bastava l’animo di pestargli il muso come i gatti, a sua sorella. Volevano vedere? Ai Buoni Amici era una vergogna dovere accettare sempre le gentilezze degli altri; o se facevano un litro alla mora, e gli toccava pagarlo, esser costretto a segnarlo sul muro, col carbone. Gli davano a credenza perché sapevano di chi era figlio, e che in fin dei conti avrebbe pagato. Inoltre s’ingegnava con le carte da giuoco, a briscola o a zecchinetta, talché alle volte andava a finire a pugni e a calci, e l’oste li cacciava tutti fuori, per non compromettere l’osteria. Già i questurini la tenevano d’occhio, a motivo di quelle facce che vi bazzicavano, e ogni volta che c’era da fare una retata per primo mettevano le mani ai Buoni Amici. Aveva ragione il Nano di dire che quel posto era peggio del bosco della Merlata. Non si era mai sicuri d’andare a dormire nel suo letto, quando si passava la sera in quella bettola. Ma egli stesso vi era tornato per la malinconia di non poterne fare a meno. Là si radunavano l’Orbo, Basletta, ed altri amici dello stesso fare, che alle volte conducevano pure delle donne, e si stava allegri, mondo birbone! A trovare il Basletta veniva spesso Lippa, una bruna alta appena così, ma col diavolo in corpo, e dicevano che doveva sposarla in estremis. Basletta brontolava quando lo chiappava a cena; ma ella gli ficcava le mani nel piatto senza domandare il permesso, e come non bastasse, alle volte, si tirava dietro anche la Bionda, magra e allampanata, che ci volevano gli spintoni per risolverla ad entrare, e si mangiava i piatti cogli occhi. Tonino stesso, per compassione, una volta l’aveva invitata, e così s’era fatta la conoscenza. Dopo venivano fuori a passeggiare all’aria aperta sul bastione. — Mia sorella non vuol capirla che alla mia età ho bisogno di denari anch’io! — brontolava fra di sé. — Gli par che tutti non abbiano altro in mente fuori del negozio, come il suo vinaio. — E tu ingégnati! — gli rispose l’Orbo. Marco il Nano in quei giorni aveva fatto un negozio, che arrivava sempre colle tasche piene, e gli altri ne parlavano sottovoce fra di loro. Le guardie di questura quando venivano a fiutare il vento, e vedevano che cambiavano discorso, o tacevano subito, battevano sulla spalla di Tonino, e gli ripetevano: — Bada bene, che ci torni a San Fedele! — La Bionda, se leticavano sul bastione, perché Tonino era geloso, gli diceva colla faccia pallida: — Hai ragione, tò! ma io sono una povera ragazza, e bisogna che m’aiuti! — Lui si struggeva sentendosela spiattellare in faccia, con quella voce calma, e quegli occhi grigi che lo guardavano tranquillamente sotto il lampione. Spesso erano insieme, lui, l’Orbo e Marco il Nano colla Bionda, briachi tutti e quattro, che ogni volta allungavano le manacce Tonino avrebbe fatto un omicidio. E poi da solo ruminava ciò che gli rinfacciava la Barberina, che bisognava prima d’ogni altro ingegnarsi. E s’ingegnò davvero. La Barberina non sapeva che dovesse ingegnarsi appunto col suo cassetto, una notte che tutti dormivano in bottega, e che si era messo a lavorare attorno al banco con un chiodo storto in punta. Fatto il tiro spalancò l’uscio, e si mise a gridare al ladro, come se la Barberina fosse donna da lasciarsi infinocchiare. Ma essa lo abbrancò pel collo, in camicia com’era, e voleva mandarlo in galera senza dar retta a lui che giurava e spergiurava, colle mani in croce, di non saper nulla. Accorsero la mamma, Ambrogio e il sor Mattia, a fargli vomitare il morto, e così lo cacciarono via nudo e crudo, che la Bionda, quando lo vide arrivare con quella faccia, non ebbe il coraggio di chiudergli l’uscio sul naso. L’Orbo, che era diventato amico di casa, gli predicava: — Se vuoi vivere alle spalle di quella povera ragazza, sei un maiale ve’! — Lei pure gli seccava d’averlo sempre attaccato alle sottane, che non gli lasciava mezz’ora di libertà colla sua gelosia; e lo mandava a lavorare. Egli sospettava che fosse per godersela insieme all’Orbo. — Ti giuro che voglio bene soltanto a te! — rispondeva lei. — Ma che vuoi farci? Non son mica una signora! — E lui se ne andava, col cuore stretto in un pugno. Un bel giorno arrestarono il Nano e Basletta, per un furto di certi pacchi di candele nella drogheria dov’era l’Orbo, e Tonino pure, col pretesto che l’avevano trovato sul canto di via Armorari a far la guardia. Lui e il suo avvocato giuravano che era a far tutt’altro, e ci si trovava per una sua occorrenza. Ma fu inutile: lo condannarono alla prigione. Nel carcere però correva voce che la Bionda s’era messa coll’Orbo, e aveva fatto la spia per levarsi Tonino di fra i piedi, e papparsi le tre lire della denuncia. Tonino non voleva crederci; eppure il babbo, la mamma, suo fratello Ambrogio, persino la Barberina, erano venuti a visitarlo in carcere, rinfacciandogli che glielo avevano predetto. — Ma tant’è, erano venuti! E lui piangeva e si sentiva alleggerire il cuore. — Ma la Bionda no! Dicevano che avevano visto l’Orbo coi panni di Tonino, una giacchetta a scacchi, che era ancora nel cassettone della Bionda, quando l’avevano arrestato.


Gelosia



Il Bobbia disse fra di sé: — Voglio vedere se è vero, o no! — E si mise in agguato sul canto di San Damiano. Crescioni stava là di faccia: c’era il lume alla finestra. Verso le nove, come gli avevano detto, eccoti la Carlotta che passava il ponte, colle sottane in mano, e infilava la porta di Crescioni. Vi andava proprio in gala, quella sfacciata! Allora — sangue di Diana!... In quattro salti la raggiunse in cima al pianerottolo, ché lei volava su per le scale; e Crescioni se li vide capitar dentro in mazzo, Carlotta e il suo uomo, acciuffati pei capelli. Successe un terremoto! Lui a scansar le bòtte; il Bobbia, colla schiuma alla bocca, che aveva tirato fuori di tasca qualche accidente; la Carlotta poi strillava per tutti e tre. Crescioni, svelto, ti agguanta la coperta del letto, già bello e preparato, e te l’insacca sul Bobbia, che se no, guai! Il sor Gostino, un pezzo d’uomo che avrebbe potuto fare il portinaio in un palazzo, menava giù nel mucchio, col manico della scopa, per chetarli. Accorsero le guardie e li condussero in questura. Là, colle ossa peste, cominciarono a ragionare. Carlotta sbraitava che non era vero niente, in coscienza sua! Ma con quell’omaccio non voleva più starci, ora che l’aveva sospettata! Tanto non erano marito e moglie. — Se non siete marito e moglie... — disse il Delegato. — Dopo cinque mesi che si stava insieme come se lo fossimo! — rinfacciava il Bobbia. — Cosa gli è mancato in cinque mesi, dica, sor Delegato? E vestiti, e stivaletti, e scampagnate, le feste e le domeniche! Allora avrei dovuto aprire gli occhi, quando si perdeva nei boschetti a Gorla, con questo e con quello, sotto pretesto di cogliere i pamporcini. E lasciavo fare come fossimo marito e moglie! — Io non ne sapevo nulla! — borbottò Crescioni, asciugandosi il sangue dal naso. — Giacché non ne sapeva nulla, stia tranquillo che non pretendo restare a carico suo, se non mi vuole! — strillò Carlotta, inviperita nel passare in rassegna gli strappi del vestito nuovo. Il sor Gostino, testimonio, metteva buone parole. — Via, non è nulla! Dev’essere un malinteso —. Ma il Bobbia s’era cacciato per forza in casa altrui, a fare il prepotente; e fu miracolo a cavarsela con un po’ di carcere. — Tanto, non era vostra moglie! — profferì il Delegato. E il Bobbia rispose: — Per me gliela lascio volentieri, quella gioia! Oramai ne sono stufo —. L’amante si grattava il capo. Però Carlotta gli buttò le braccia al collo, dinanzi al sor Delegato, e gli giurò che d’ora innanzi voleva esser sua o di nessun altro. Il sor Gostino l’aiutò a portar la roba dal Crescioni; ma intanto andava predicando che bisognava far la pace col Bobbia, appena usciva di prigione; se no, un giorno o l’altro, andava a finir male. — Col Crescioni? — gridò poi il Bobbia. — Con quel traditore che mi faceva l’amico?... — Bè! ora che s’è presa la Carlotta! Faccia conto che siano marito e moglie, e il torto glielo abbia fatto lei pel primo —. Con questi discorsi non la finivano più, passo passo, dall’osteria di San Damiano alla porta del sor Gostino, sino a dopo mezzanotte, ciangottando colla lingua grossa. Una sera incontrarono la Carlotta a braccetto del Crescioni, e leticavano nel buio. Un’altra volta il Bobbia la vide che comprava della verdura dinanzi alla porta, e frugava nel carro dell’ortolano, colle braccia nude e spettinata. Talché pareva che gli fosse rimasto attaccato il cuore da quelle parti. Quando incontrava il Crescioni, aggobbito, colla barba di otto giorni che gli faceva il viso d’ammalato, si fregava le mani. — Ci vuol altro che quel biondino per la Carlotta, ci vuole! — Ogni giorno e’ sono liti e bòtte da orbi, — narrava il sor Gostino. — Ieri ancora la è scappata nel mio casotto seminuda, ché il Crescioni voleva accopparla. Dice che lo fa per levarsela dattorno —. La vigilia di Natale, come Dio volle, riescì a farli bere insieme. — Volete incominciare l’anno nuovo colla ruggine in corpo? — La Carlotta stava sulla sua, in fronzoli, e arricciando il naso a ogni bicchiere, perché c’era il Bobbia presente. Carina, con quella frangia di capelli sul naso! Ma Crescioni aveva il vino cattivo, stava ingrugnato, colle spalle al muro, e tossiva di malumore. — Gli avete portato via l’amante, al Bobbia! O cosa volete d’altro? — gli sussurrò all’orecchio il sor Gostino. Il Bobbia, invece, si sentiva tutto rammollire, e pagava una bottiglia dopo l’altra, senza batter ciglio. — Mi rammento — disse alla Carlotta nell’orecchio, — mi rammento quando siamo andati insieme a casa mia, la prima volta —. E Crescioni, con tanto d’occhiacci, cavò fuori il mento dalla sciarpa. Poi la comitiva andò via insieme. Crescioni avanti, colle mani in tasca e annuvolato. Aprì lo sportello e fece passare prima la Carlotta, borbottando: — Sto a vedere che mi vuoi fare col Bobbia quel servizio che gli ho fatto io! — Il sor Gostino sogghignava pensando: — Questa notte la mi capita in camicia di certo —. Al Bobbia raccontava in confidenza come la Carlotta gli piacesse anche a lui, per quel suo fare allegro. — Senza ombra di malizia, veh! — Fortuna che sua moglie stava sempre al primo piano, dal padrone, il quale non gliela lasciava un minuto solo. Se no, gelosa com’era, guai! — Il sor Gostino aveva una paura maledetta della sora Bettina, che l’aveva sposato e innalzato a portinaio perché da quarant’anni lei era tutta una cosa col padrone. Tanto che costui, quando leticavano fra marito e moglie, e si udivano nella corte gli improperi e le parolacce della sora Bettina, si affacciava al balcone, in pantofole, e strillava colla voce catarrosa: — Ohè, Gostino! Cosa l’è sta storia? — Ma torniamo agli altri due. Crescioni voleva sposare la Carlotta sul serio, perché essa gli andava dicendo che stavolta era proprio necessario. — Almeno, — pensava lui, — sarò certo che il bambino è roba mia! — Il sor Gostino strizzava l’occhio furbo: — E se cercate un padrino, ve l’ho già bello e trovato! — Che discorsi! — gridava la sora Carlotta tentando di arrossire. Il Bobbia era arrabbiato come un cane. Da un pezzo non la vedeva; e la Gigia, tabaccaia, dopo averlo menato pel naso una settimana o due, gli aveva risposto picche, sulla guancia. — Ah! di lui non voleva più saperne, la sora Carlotta, onde farsi sposare dal Crescioni? — Si sentiva la febbre addosso ogni volta che la vedeva, dal bugigattolo del sor Gostino, a menar la tromba, dimenando i fianchi, o a portar su l’acqua, colla pancia in fuori. — Mi lasci andare ad aiutarla, sor Gostino. No, non ho più sete. Il resto lo beva lei per amor mio —. Ma la Carlotta scappava via appena lo vedeva. — Andatevene! C’è lui in casa. Poi, tutto è finito fra di noi —. Avrebbe voluto batterla e afferrarla per quella collottola grassa che gli faceva bollire il sangue. — Ah! tu c’ingrassi con quel tisico! tu vuoi farmi morir tisico come lui! Che son fatto di stucco, ti pare?... — Dovevate pensarci prima. To’, questa vi calmerà i bollori —. E Bobbia se ne andava scuotendo l’acqua dal vestito e bestemmiando. Si fece il matrimonio. Nacque un bambino, due mesi prima del solito, e fu una femmina. Crescioni era sulle furie, perché almeno avrebbe voluto un maschio, e non dover pensare alla dote e a tante altre seccature. — Quanto a ciò non si dia pena per sua figlia — lo confortava il sor Gostino — la farà come sua madre —. Sua madre aveva fatto quello che sapevano tutti. S’era lasciata prendere dalle belle parole di un signorino, e dopo era scappata via di casa, per nascondere il marrone, accorgendosi che la mamma le ficcava gli occhi addosso senza dir nulla, e si sentiva salire le fiamme al viso. Fu un sabato grasso; giusto la Luisina era andata ad impegnare roba per fare il carnevale, e disse alla figliuola: — Cos’hai che non mangi? — con cert’occhi! Il giorno dopo trovarono l’uscio aperto; e il babbo, poveraccio, s’era dato al bere dal crepacuore. Che colpa ne aveva lei? Da fanciulletta era andata attorno per le strade e nei caffè, vendendo paralumi. — Come chi dicesse andare a scuola per apprendere il mestiere. — Poi la miseria, l’uggia di tornare a casa colla mercanzia tale e quale, via della Commenda, ch’era tutta una pozzanghera, la tentazione delle vetrine, i discorsi dei monelli, le paroline degli avventori che contrattavano soltanto... Insomma, era destinata! Allorché il suo amante l’aveva piantata in via San Vincenzino, con quattro cenci nel baule e diciassette lire in tasca, era stata costretta a mettersi col Bobbia, il quale la teneva allegra, quando ne aveva da spendere, e la picchiava dopo, per via della bolletta. Crescioni, invece, non beveva, non bestemmiava, ed era sempre malinconico pensando alla sua poca salute. Ella era andata da lui a sfogarsi dei cattivi trattamenti, e poi c’era rimasta pel piacer suo. Quel giovanotto era preciso come lo voleva lei. Egli predicava: — Vieni di sera. — Vieni di nascosto. — Bada che lui non se ne accorga! — Tale e quale a un ragazzo pauroso dell’ombra sua. Sicché quando il Bobbia capitò a fare quel baccano, Carlotta non gliela perdonò mai più. Infine, cos’era stato? Suo padre stesso, quand’era scappata via di casa, non aveva fatto tanto chiasso. Eppure il danno era più grosso! — Per quel Crescioni, poi, ch’era quasi un ragazzo! — Sentite! — finiva lo sfogo col sor Gostino. — Fosse stato geloso di voi, o di qualche altro pezzo d’uomo, pazienza! Ma del Crescioni?... Veh! Tutta una birbonata del Bobbia per avere il pretesto di piantarmi... — Il sor Gostino si fregava le mani. Non che ci avesse pel capo certe idee!... Poi con quell’accidente di sua moglie sempre sulla testa, alla finestra del padrone!... Perciò aveva preso l’abitudine di spazzar la scala sino in cima, allo scopo di non dar nell’occhio. — O che non leticate più con vostro marito? È un pezzetto che non vi vedo arrivare in sottanina —. Appoggiava la scopa contro l’uscio, e si fregava le mani un’altra volta. — No! Stia cheto con le mani! Adesso è finito il tempo delle sciocchezze! — Non sono sciocchezze, sora Carlotta! Sembro un Sansone, direte. Ma non è vero! Pel cuore sono un ragazzo. E sempre disgraziato, veh! Perfino mia moglie, è otto giorni che non la vedo, dacché il padrone è a letto. Anche lei, povera sora Carlotta, le si vede in faccia; suo marito la lascia per correre chissa dove! O pensa tuttora al Bobbia? — A me non me ne importa. E poi non è vero niente —. Il sor Gostino stava a guardare mentre ella aveva la bambina al petto, grattandosi la barba. — Non gliene importa?... Dica un po!... E quella bambina che lui dice che è figlia sua? — Carlotta faceva una spalluccia. Il sor Gostino si metteva a ridere anche lui, e ripigliava la scopa, ciondolando per un pezzo prima di decidersi ad andare; oppure si chinava a fare il discorsetto alla bimba, accarezzandola sul seno della mamma colle manacce sudice. — In coscienza, non somiglia a nessuno di loro due —. Crescioni era geloso della bambina, che veniva su bionda e color di rosa. — Se ti vedo ancora dattorno il Bobbia — le diceva — ti fo come la donna tagliata a pezzi! — E si faceva brutto che non pareva vero, con quella faccia dabbene di tisico. Non che fosse geloso della Carlotta, — ormai l’aveva sempre là, davanti agli occhi, sciatta, spettinata, colla figlia al petto. Per altro non gliene importava più dell’amore. Era malato, e aveva altro per il capo. Ma tant’è, poiché era stato lui a sposarla! E ci aveva sciupati i denari e la salute. Il principale gli riduceva il salario di un terzo, adesso che non era più in gamba come prima. E se non era in gamba e non aveva denari, lo sapeva di che cosa era capace la Carlotta! Perfino di viziargli la figliuola, a suo tempo. La malattia gli aveva sconvolta la testa, e gli sembrava di veder la ragazza, già grandicella, lasciarsi baciare da questo e da quello, come sua madre. Perciò arrivava a leticare colla moglie se accarezzava la bambina quasi fosse cosa sua. Anche il sor Gostino con quell’aria di minchione... Insomma, non ce lo voleva più a bazzicare in casa sua! — Oh Dio, quel povero diavolo! — esclamava la Carlotta. Ma lui, testardo, non si muoveva di casa la domenica a far la guardia, se udiva la scopa per le scale, seduto accanto alla finestra, torvo, col naso nella sciarpa e le mani in tasca, senza dir nulla. Poi, ogni volta che tossiva, saettava delle occhiatacce sulla moglie, e se la bambina strillava, era una casa del diavolo. — Non toccare mia figlia, o per la Madonna!... Lascia stare d’insegnarle le tue moine piuttosto! — I dispiaceri gli minavano la salute, diceva. A poco a poco anche il principale si stancò, e Crescioni non si mosse più dal letto. Sua moglie, in quei quaranta giorni, impegnò sino le lenzuola. Egli brontolava che si era ridotto in quello stato per causa sua. All’ospedale però non voleva andarci, perché quando sarebbe stato via, chissà cosa succedeva! Sino all’ultimo! Se ella usciva un momento a far qualche compera, se scendeva ad attinger l’acqua: — D’onde vieni così scalmanata? T’ho detto che mia figlia non devi condurla attorno! — La tosse lo soffocava sotto le coperte. Allorché lo portarono all’ospedale infine, accusò la moglie di averlo tradito — come Giuda fece a Cristo — per scialarla in libertà. — Non vedi come son ridotta? — si scolpava lei. — Non vedi che non ho più neppur latte per la bambina? — Almeno verrai a trovarmi colla piccina! — Ci andava spesso infatti. Ma erano altri bocconi amari. La bimba aveva paura di suo padre, al vederlo con quel berrettino in mezzo a tanti visi nuovi. Lui si sfogava a brontolare tutti i guai della settimana. — Una vitaccia da cani! — lamentavasi la Carlotta col sor Gostino. — Affaticarsi da mattina a sera, e la festa poi quel divertimento! — Il sor Gostino l’accompagnava, per bontà sua, e le comprava qualche regaluccio da portare al malato. — Che volete farci? Bisogna aver pazienza finché campa —. Il poveretto aveva il cuoio duro, e non finiva più di penare. La Carlotta si stancò prima di lui d’andare e venire, e di trovarlo sempre lo stesso, con quel berrettino bianco ritto sul guanciale. Si fermava appena due minuti, il tempo di vedere a che punto era, e di portargli qualche cosuccia, senza dire che gliela aveva regalata il portinaio. Ma ei glielò leggeva in faccia, e le guardava le mani, sospettoso, tirandosi la coperta sino al naso, senza dir nulla, e le ficcava in faccia gli occhi neri di febbre, e domandava: — Hai visto il Bobbia? — T’ha detto nulla il portinaio? — Si capiva che ne aveva tante nello stomaco; ma non parlava perché era confinato in quel letto, e se Carlotta non veniva più restava solo come un cane. Sovente almanaccava dei progetti per quando sarebbe guarito. — Faremo questo. Faremo quest’altro —. Ma ella rimaneva zitta e guardava altrove. Allora disse lui: — Se guarisco, voglio ammazzar qualcuno, dammi retta! — E la bambina si aggrappava al collo della madre, strillando di paura. Glielo diceva il cuore, al poveraccio. Il sor Gostino era tutto il giorno su e giù per la scala colla granata in mano. Davvero, pel cuore era un ragazzo! Si divertiva a far quattro chiacchiere con lei, o ad accendere il fuoco, nel fornello, e farle andar la macchina — gira, gira, gira; — nello stesso tempo dalla finestra, dietro la tendina, teneva d’occhio la porta, e quando cominciava a farsi scuro, che gli vedeva quella testa china sulla macchina, si sentiva dentro lo stesso rimenìo. Gli bastava che dicesse: — Grazie, sor Gostino. — Non lo faccio per questo, sora Carlotta. Sono un galantuomo e non fo le cose per secondo fine —. Chi era andato a cercarle del cucito? Chi gli faceva prestar la macchina al bisogno? Chi andava a parlare col padron di casa se tardava la mesata? La sora Bettina infuriava per queste condiscendenze. Un altro po’ la casa diventava un luogo pubblico! E se la pigliava anche col padrone che faceva il comodino per sbarazzarsi del marito. Tutto a riguardo suo! Il sor Gostino non si dava pace. — O dunque cosa gliene importa a lei? — La Carlotta invece si lagnava: — Signore Iddio! Com’è cattivo il mondo, a pensare il male che non facciamo né voi né io! — Il sor Gostino allora non sapeva che dire, e ruminava cosa dovesse fare onde non sembrare un minchione, o prendeva il partito di posarsi la mano aperta sul costato: — Sono un galantugmo, ve l’ho detto. Vi voglio bene, ma sono un galantuomo! — Però non voleva che il Bobbia tornasse a fare il moscone da quelle parti. Glielo aveva predicato: — Adesso quella poveraccia è come se fosse vedova —. Appunto! Bobbia ci aveva diritto lui perché era l’amore antico! Il portinaio faceva come il cane dell’ortolano per invidia e per gelosia. Ma se adesso l’aveva lui, voleva averla anche il Bobbia, ch’era stato il primo. Si vedeva chiaro: il sor Gostino la teneva sempre in casa pel comodo suo. Il Bobbia dovette aspettarla dieci volte prima di vederla uscire un momento. — Senti! Se non vieni con me oggi stesso, vi ammazzo tutti, te e il tuo amante —. La poveretta s’era sentito un tuffo nel sangue al vederlo, e affrettava il passo, smorta come un cencio. Egli la raggiunse in via Ciossetto, furibondo, e l’afferrò pel braccio. — Per carità! Non mi fate male! Che amante! Ti giuro! Non ne ho! — Tanto meglio. Allora, se non ne hai, perché non vieni? — E ci andò per la paura. Dopo il Bobbia, appena se ne accorse, montò in furia: — Tu vuoi sempre bene a tuo marito, dì! — Oh, quel poveretto!... — Allora hai per amante il sor Gostino! — No, non è il mio amante. — Ma gli vuoi bene, dì! — Ella tremava e supplicava: — Non son venuta qui? Non ho fatto quel che tu dicevi? Cosa vuoi ancora? — Voleva... voleva... E prima voleva mandarla via di casa a calci, voleva! Poi col sor Gostino avrebbe fatto i conti a tu per tu, e non per gelosia della Carlotta veh... ormai era carne vecchia! Ma il sor Gostino era un ragazzo soltanto colle donne. Al primo pugno l`accecò mezzo, e se lo mise sotto, giusto nella corte, da pestarlo come l’uva. La sora Bettina, di sopra, buttava acqua, porcherie e male parole, e il padrone, dietro, a strillare: — Ohè, Gostino! Gostino! — Carlotta fu licenziata su due piedi, e dovette sgomberare in otto giorni. La sora Bettina, il padrone lo stesso, sor Gostino, volevano un po’ di pace alfine. Il Bobbia, col muso pesto, andava dicendo: — Non me ne importa di colei. Ma mosche sul naso non me le lascio posare! — La Carlotta finalmente andò a vedere cosa n`era di suo marito che non moriva mai. Lo trovò sempre nello stesso letto, cogli occhi spalancati, più sfatto, non si lamentava più, e stava immobile colla faccia color di terra. Quegli occhi di fantasma le si ficcavano addosso come chiodi; e pareva che la sua voce uscisse dalla sepoltura: — Dove sei stata tutto questo tempo? — Di’, cosa hai fatto?—


Camerati



— Malerba? — Presente! — Qui ci manca un bottone, dov’è? — Io non so, caporale. — Consegnato! — Sempre così: il cappotto come un sacco, i guanti che gli davano noia, e non sapere più cosa farsi delle mani, la testa più dura di un sasso all’istruzione e in piazza d’armi. Selvatico poi! Di tutte le belle città dove si trovava di guarnigione, non andava a vedere né le strade, né i palazzi, né le fiere, nemmeno i baracconi o le giostre di legno. L’ora di sortita se la passava vagabondo per le vie fuori porta, colle braccia ciondoloni, o stava a guardare le donne che strappavano l’erba, accoccolate per terra in piazza Castello; oppure si piantava davanti il carrettino delle castagne, e senza spendere mai un soldo. I camerati si divertivano alle sue spalle. Gallorini gli faceva il ritratto sul muro col carbone, e il nome sotto. Egli lasciava fare. Ma quando gli rubavano per ischerzo i mozziconi che teneva nascosti nella canna del fucile, imbestialiva, e una volta andò in prigione per un pugno che accecò mezzo il Lucchese — si vedeva ancora il segno nero — e lui cocciuto come un mulo a ripetere: — Non è vero. — O allora, chi gli ha dato il pugno al Lucchese? — Non so —. Poi stava seduto sul tavolaccio, col mento fra le mani. — Quando torno al mio paese! — Non diceva altro. — Infine, conta su. Ci hai l’amante al tuo paese? — domandava Gallorini. Egli lo fissava, sospettoso, e dimenava il capo. Né sì né no. Poscia si metteva a guardare lontano. Ogni giorno con un pezzetto di lapis faceva un segno su di un piccolo almanacco che aveva in tasca. Gallorini invece ci aveva l’amante. Un donnone coi baffi che gli avevano visto insieme al caffè una domenica, seduti con un bicchier di birra davanti, e aveva voluto pagar lei. Il Lucchese se ne accorse ronzando lì intorno colla Gegia, la quale non gli costava mai nulla. Egli trovava delle Gegie dappertutto, colla sua parlantina graziosa, e perché non si avessero a male d’esser messe tutte in fascio sin pel nome, diceva che quello era l’uso del suo paese, quando una vi vuol bene, si chiami, Teresa, Assunta o Bersabea. In quel tempo cominciò a correre la voce che s’aveva a far la guerra coi Tedeschi. Va e vieni di soldati, folla per le strade, e gente che veniva a vedere l’esercizio in Piazza d’Armi. Quando il reggimento sfilava fra le bande e i battimani, il Lucchese marciava baldanzoso come se la festa fosse stata fatta a lui, e Gallorini non la finiva più di salutare amici e conoscenti, col braccio sempre in aria, che voleva tornar morto o ufficiale, diceva. — Tu non ci vai contento alla guerra? — domandò a Malerba quando fecero i fasci d’armi alla stazione. Malerba si strinse nelle spalle, e seguitò a guardar la gente che vociava e gridava: — Evviva! — Il Lucchese vide pur la Gegia, curiosa, la quale stava a vedere da lontano, in mezzo alla folla, tenendosi alle costole un ragazzaccio in camiciotto che fumava la pipa. — Questo si chiama mettere le mani avanti! — borbottava il Lucchese, che non poteva allontanarsi dalle file, e a Gallorini domandava se la sua s’era arruolata nei granatieri, per non lasciarlo. Era come una festa dappertutto dove arrivavano. Bandiere, luminarie, e i contadini che correvano sull’argine della strada ferrata, a veder passare il treno zeppo di chepì e di fucili. Ma alle volte poi la sera, nell’ora in cui le trombe suonavano il silenzio, si sentivano prendere dalla melanconia della Gegia, degli amici, di tutte le cose lontane. Appena arrivava la posta al campo correvano in folla a stendere le mani. Malerba solo se ne stava in disparte grullo, come uno che non aspettava nulla. Egli faceva sempre il segno nell’almanacco, giorno per giorno. Poi stava a sentire la banda, da lontano, e pensava a chi sa cosa. Una sera finalmente successe un gran movimento nel campo. Ufficiali che andavano e venivano, carriaggi che sfilavano verso il fiume. La sveglia suonò due ore dopo mezzanotte; nondimeno distribuivano già il rancio e levavano le tende. Poscia il reggimento si mise in marcia. La giornata voleva esser calda. Malerba, il quale era pratico, lo sentiva alle buffate di vento che sollevavano il polverone. Poi era piovuto a goccioloni radi. Appena cessava l’acquata, di tratto in tratto, e lo stormire del granoturco, i grilli si mettevano a cantare forte nei campi, di qua e di là dello stradale. Il Lucchese che marciava dietro a Malerba si divertiva alle sue spalle: — Su le zampe, camerata! Cos’hai che non dici nulla? Pensi forse al testamento? — Malerba con una spallata s’assestò lo zaino sulle spalle, e borbottò: — Cammina! — Lascialo stare, — prese a dire Gallorini. — Sta pensando all’innamorata, che se l’ammazzano i Tedeschi ne piglia un altro. — Cammina tu pure! — rispose Malerba. All’improvviso nella notte passò il trotto di un cavallo, e il tintinnìo di una sciabola, fra le due file del reggimento che marciavano dai due lati della strada. — Buon viaggio! — disse poi il Lucchese, che era il buffo della compagnia. — E tanti saluti ai Tedeschi, se li incontra —. A destra, in una gran macchia scura, biancheggiava un caseggiato. E il cane di guardia latrava furibondo, correndo lungo la siepe. — Quello è cane tedesco, — osservò Gallorini, che voleva dire la barzelletta come il Lucchese. — Non lo senti all’abbaiare? — La notte era ancora profonda. A sinistra come sopra un nugolone nero, che doveva essere collina, spuntava una stella lucente. — O che ora sarà mai? — domandò Gallorini. Malerba levò il naso in aria, e rispose tosto: — Ci vorrà almeno un’ora a spuntare il sole! — Che sugo! — brontolò il Lucchese. — Farci far la levataccia per un bel nulla! — Alt! — ordinò una voce breve. Il reggimento scalpicciava ancora, come una mandra di pecore che si aggruppi. — O chi s’aspetta? — borbottò il Lucchese dopo un pezzetto. Passò di nuovo un gruppo di cavalieri. Stavolta nell’alba che cominciava a rompere si videro sventolare le banderuole dei lancieri, e avanti un generale, col berretto gallonato sino in cima, e le mani ficcate nelle tasche dello spenser. Lo stradale cominciava a biancheggiare, diritto, in mezzo ai campi ancora oscuri. Le colline sembravano spuntare ad una ad una nel crepuscolo incerto; e in fondo si vedeva un fuoco acceso, forse di qualche boscaiuolo, o di contadini che erano scappati dinanzi a quella piena di soldati. Gli uccelletti, al mormorio, si svegliavano a cinguettare sui rami dei gelsi che si stampavano nell’alba. Poco dopo, a misura che il giorno andavasi schiarendo si udì un brontolìo cupo verso la sinistra, dove l’orizzonte s’allargava in un chiarore color d’oro e color di rosa, come se tuonasse, e faceva senso in quel cielo senza nuvole. Poteva essere il mormorio del fiume o il rumore dell’artiglieria in marcia. Ad un tratto corse una voce: — Il cannone! — E tutti si voltavano a guardare verso l’orizzonte color d’oro. — Io sono stanco! — brontolò Gallorini. — Ormai dovrebbe far l’alto! — appoggiò il Lucchese. Le chiacchiere andavano morendo a misura che i soldati si avanzavano nella giornata calda, fra le strisce di terra bruna, di seminati verdi, le vigne che fiorivano sulle colline, i filari di gelsi diritti sin dove arrivava la vista. Qua e là si vedevano dei casolari e delle cascine abbandonate. Accostandosi ad un pozzo, per bere un sorso d’acqua, videro degli arnesi a terra, accanto all’uscio di un cascinale, e un gatto che affacciava il muso fra i battenti sconquassati, miagolando. — Guarda! — fece osservare Malerba. — Ci hanno il grano in spiga, povera gente! — Vuoi scommettere che non ne mangi di quel pane? — disse il Lucchese. — Sta’ zitto, jettatore! — rispose Malerba. — Io ci ho l’abitino della Madonna —. E fece le corna colle dita. In quella si udì tuonare anche a sinistra, verso il piano. Da principio, dei colpi rari, che echeggiavano dal monte. Poscia un crepitìo come di razzi, quasi il villaggio fosse in festa. Al di sopra del verde che coronava la vetta si vedeva il campanile tranquillo, nel cielo azzurro. — No, non è il fiume — disse Gallorini. — E neppure dei carri che passano. — Senti! senti! — esclamò Gallorini. — Laggiù la festa è cominciata. — Alt! — ordinarono ancora. Il Lucchese ascoltava, colle ciglia in arco, e non diceva più nulla. Malerba aveva vicino un paracarro, e ci s’era messo a sedere, col fucile fra le gambe. Il cannoneggiamento doveva essere in pianura. Si vedeva il fumo di ogni colpo, come nuvolette dense, che si levavano appena al di sopra dei filari di gelsi, e si squarciavano lentamente. I prati scendevano quieti verso la pianura, con il canto delle quaglie fra le zolle. Il colonnello, a cavallo, parlava con un gruppo d’ufficiali, fermi sul ciglione della strada, guardando di tratto in tratto verso la pianura col cannocchiale. Appena si mosse al trotto, le trombe del reggimento squillarono tutte insieme: — Avanti! — A destra e a sinistra si vedevano dei campi nudi. Poi qualche pezza di granoturco ancora. Poi delle vigne, poi delle gore d’acqua, infine degli alberetti nani. Spuntavano le prime case di un villaggio; e la strada era ingombra di carriaggi e di vetture. Un vocìo, un tramestìo da sbalordire. Sopraggiunse di galoppo un cavalleggiero, bianco di polvere. Il suo cavallo, un morello tozzo e tutto crini, aveva le narici rosse e fumanti. Indi passò un ufficiale di stato maggiore, gridando come un ossesso di sgombrare la strada, picchiando colla sciabola a diritta e a manca su quei poveri muli borghesi. Attraverso gli olmi del ciglione si videro sfilare correndo dei bersaglieri neri, colle piume al vento. Ora si erano messi per una stradicciuola che piegava a diritta. I soldati rompevano in mezzo al seminato, talché a Malerba gli piangeva il cuore. Sulla china di un monticello, videro un gruppo d’ufficiali a cavallo, con la scorta di lancieri dietro, e i cappelli a punta di carabinieri. Tre o quattro passi innanzi, a cavallo e col pugno sull’anca, c’era un pezzo grosso a cui i generali rispondevano colla mano alla visiera, e gli ufficiali passandogli dinanzi, salutavano colla sciabola. — O chi è colui? — chiese Malerba. — Vittorio, — rispose il Lucchese. — Che non l’hai mai visto nei soldi, sciocco! — I soldati si voltavano a guardare, finché potevano. Poscia Malerba osservò fra sé: — Quello è il Re! — Più in là c’era un torrentello asciutto. L’altra riva coperta di macchie saliva verso il monte, sparso di olmi scapitozzati. Il cannoneggiamento non si udiva più. Un merlo a quella pace s’era messo a fischiare nella mattinata chiara. Tutt’a un tratto scoppiò come un uragano. La vetta, il campanile, ogni cosa fu avvolta nel fumo. Dei rami d’albero che scricchiolavano, della polvere che si levava qua e là nella terra, ad ogni palla di cannone. Una granata spazzò via un gruppo di soldati. In cima della collina si udivano di tratto in tratto delle grida immense, come degli urrà. — Madonna santa! — balbettò il Lucchese. I sergenti andavano ordinando di mettere a terra i zaini. Malerba obbedì a malincuore perché ci aveva due camicie nuove e tutta la sua roba. — Lesti! lesti! — andavano dicendo i sergenti. Da una stradicciuola sassosa arrivarono di galoppo alcuni pezzi d’artiglieria, con un fragore di terremoto; gli ufficiali avanti, i soldati curvi sulla criniera irta dei cavalli fumanti, frustando a tutto andare, i cannonieri aggrappati ai mozzi e alle ruote, che spingevano su per l’erta. In mezzo al rumore furioso delle cannonate si vide rovinare fuggendo per la china un cavallo ferito, colle tirelle pendenti, nitrendo, scavezzando viti, sparando calci disperati. Più giù, a frotte, soldati laceri, sanguinosi, senza chepì, che agitavano le braccia. Infine dei drappelli interi che rinculavano passo passo, fermandosi a far fuoco alla spicciolata, in mezzo agli alberi. Trombe e tamburi suonarono la carica. Il reggimento si slanciò alla corsa su per l’erta, come un torrente d’uomini. Al Lucchese gli parlava il cuore: — Che furia per quel che ci aspetta lassù! — Gallorini gridava: — Savoia! — E a Malerba che aveva il passo pesante: — Su le zampe, camerata! — Cammina! — ripeteva Malerba. Appena sulla vetta, in un praticello sassoso, si trovarono di faccia ai Tedeschi che si avanzavano fitti in fila. Corse un lungo lampo su quelle masse che formicolavano; la fucilata crepitò da un capo all’altro. Un giovanetto ufficiale, escito allora dalla scuola, cadde in quel momento, colla sciabola in pugno. Il Lucchese annaspò alquanto, colle braccia aperte, come se inciampasse, e cadde egli pure. Ma dopo non si vide più nulla. Gli uomini si azzuffavano petto a petto, col sangue agli occhi. — Savoia! Savoia! — Infine i Tedeschi ne ebbero abbastanza, e cominciarono a dare indietro passo passo. I cappotti grigi li inseguivano a stormi. Malerba nella furia del correre, pigliò come una sassata che lo fece zoppicare. Poi si accorse che gli colava il sangue pei pantaloni. Allora infuriato come un bue si slanciò a testa bassa, menando baionettate. Vide un gran diavolo biondo che gli veniva addosso con la sciabola sul capo, e Gallorini che gli appuntava alla schiena la bocca del fucile. Le trombe suonavano a raccolta. Ora tutto quello che restava del reggimento, a stormi, a gruppi, correva verso il villaggio, che rideva al sole, in mezzo al verde. Però alle prime case si vide la carneficina che ci era stata. Cannoni, cavalli, bersaglieri feriti, tutto sottosopra. Gli usci sfondati, le imposte delle finestre che pendevano come cenci al sole. In fondo a una corte c’era un mucchio di feriti per terra, e un carro colle stanghe in aria, ancora carico di legna. — E il Lucchese? — domandò Gallorini senza fiato. Malerba l’aveva visto cadere. Nondimeno si voltò indietro per istinto verso il monte che formicolava di uomini e di cavalli. Le armi luccicavano al sole. Si vedevano, in mezzo alla spianata, degli ufficiali a piedi, i quali guardavano lontano col cannocchiale. Le compagnie calavano ad una ad una per la china, con dei lampi che correvano lungo le file. Potevano essere le 10 — le 10 del mese di giugno, al sole. Un ufficiale s’era buttato come arso sull’acqua dove lavavano gli scopoli dei cannoni. Gallorini stava disteso bocconi contro il muro del cimitero, colla faccia sull’erba; là almeno, dalle fosse, nell’erba folta, veniva un po’ di frescura. Malerba, seduto per terra, s’ingegnava a legarsi come poteva la gamba col fazzoletto. Pensava al Lucchese, poveretto, che era rimasto per via, a pancia in aria. — Tornano! tornano! — si udì gridare. La tromba chiamava all’armi. Ah! stavolta era proprio stufo Gallorini! Nemmeno un momento di riposo! Si alzò come una bestia feroce, tutto lacero, e afferrò il fucile. La compagnia si schierava in fretta, alle prime case del paesetto, dietro i muri, alle finestre. Due pezzi di cannone allungavano la gola nera in mezzo alla strada. Si vedevano venire i Tedeschi in file serrate, un battaglione dopo l’altro, che non finivano mai. Là fu colpito Gallorini. Una palla gli ruppe il braccio. Malerba lo voleva aiutare. — Che cos’hai? — Nulla, lasciami stare —. Il tenente faceva anche lui alle fucilate come un semplice soldato, e bisognò correre a dargli una mano, Malerba dicendo ad ogni colpo: — Lasciate fare a me che è il mio mestiere! — I Tedeschi scomparvero di nuovo. Poi fu ordinata la ritirata. Il reggimento non ne poteva più. Fortunati Gallorini e il Lucchese che riposavano. Gallorini s’era seduto a terra, contro il muro, e non si voleva più muovere. Erano circa le 4, più di otto ore che stavano in quella caldura colla bocca arsa di polvere. Però Malerba ci aveva preso gusto e domandava: — Ora che si fa? — Ma nessuno gli dava retta. Scendevano verso il torrentello, accompagnati sempre dalla musica che facevano le cannonate sul monte. Poscia da lontano videro il villaggio formicolare di uniformi di tela. Non si capiva nulla, né dove andavano, né cosa succedeva. Alla svolta di un ciglione s’imbatterono nella siepe dietro la quale il Lucchese era caduto. E neppure Gallorini non c’era più. Tornavano indietro alla rinfusa, visi nuovi che non si conoscevano, granatieri e fanteria di linea, dietro agli ufficiali che zoppicavano, laceri, strascinando i passi, col fucile pesante sulle spalle. Calava la sera tranquilla, in un gran silenzio, dappertutto. A ogni tratto si incontravano carri, cannoni, soldati che andavano al buio, senza trombe e senza tamburi. Quando furono di là del fiume, seppero che avevano persa la battaglia. — O come? — diceva Malerba. — O come? — E non sapeva capacitarsi. Poi, terminata la ferma, tornò al suo paese, e trovò la Marta che s’era già maritata, stanca d’aspettarlo. Anche lui non aveva tempo da perdere, e prese una vedova, con del ben di Dio. Qualche tempo dopo, lavorante alla ferrovia lì vicino, arrivò Gallorini, con moglie e figli anche lui. — Tò Malerba! O cosa fai tu qui? Io faccio dei lavori a cottimo. Ho imparato il fatto mio all’estero, in Ungheria, quando m’hanno fatto prigioniero, ti rammenti? Mia moglie m’ha portato un capitaletto... Mondo ladro, eh? Credevi fossi arricchito? Eppure il nostro dovere l’abbiamo fatto. Ma chi va in carrozza non siamo noi. Bisogna dare una buona sterrata, e tornare a far conto da capo —. Coi suoi operai ripeteva pure le stesse prediche, la domenica, all’osteria. Essi, poveretti, ascoltavano, e dicevano di sì col capo, sorseggiando il vinetto agro, ristorandosi la schiena al sole, come bruti, al pari di Malerba, il quale non sapeva far altro che seminare, raccogliere e far figliuoli. Egli dimenava il capo per politica, quando parlava il suo camerata, ma non apriva bocca. Gallorini invece aveva girato il mondo, sapeva il fatto suo in ogni cosa, il diritto e il torto; sopra tutto il torto che gli facevano, costringendolo a sbattezzarsi e lavorare di qua e di là pel mondo, con una covata di figliuoli e la moglie addosso, mentre tanti andavano in carrozza. — Tu non ne sai nulla del come va il mondo! Tu, se fanno una dimostrazione, e gridano viva questo o morte a quell’altro, non sai cosa dire. Tu non capisci nulla di quel che ci vuole! — E Malerba rispondeva sempre col capo di sì. — Adesso ci voleva l’acqua pei seminati. Quest’altro inverno ci voleva il tetto nuovo nella stalla. Via crucis Matilde cercò cogli occhi la Santina, entrando nella bottega della sarta. Indi le si mise accanto, e disse piano: — Sai? Poldo piglia moglie —. Santina avvampò in viso; poi si fece smorta, e chinò la testa sul lavoro. Non disse nulla; non ci credeva; ma il cuore le si gonfiava di certi presentimenti che adesso le tornavano dinanzi agli occhi. Solo le tremava il labbro nel frenare le lagrime. Appena poté inventare un pretesto per uscire corse al Municipio, e lesse coi suoi occhi: «Leopoldo Bettoni con Ernestina Mirelli, agiata». Tornando in bottega, cogli occhi gonfi, si buscò una buona lavata di capo. La sera volle parlargli ad ogni costo. Da un pezzo egli le diceva: — Faccio tardi all’officina. C’è un lavoro da terminare —. Il Renna, che lavorava da indoratore insieme con lui, s’era messo a ridere. — Non dia retta, sora Santina. Le son storie da contare ai morti —. La mamma, al vedere che tornava a uscire, stralunata, l’afferrava per le vesti. — Dove corri? A quest’ora... — Ella non diceva altro: — Lasciatemi andare. Lasciatemi andare... — cogli occhi fissi. Chi la incontrava così tardi, al vederla correre sul marciapiedi con quella faccia, si fermava a sbirciarla sotto il naso; oppure le buttava dietro un pissi pissi. Ma ella non vedeva e non udiva. Finalmente scoprì Poldo in fondo al caffè delle Cinque Vie, seduto in un crocchio, che guardava pensieroso il bicchiere. Quando uscì sulla strada seguitava a guardarsi attorno come un ladro. Pareva che il cuore glielo dicesse. Ella lo afferrò pel gomito, allo svolto della cantonata. — È vero che prendi moglie? — Poldo giurava di no, colle braccia in croce. Infine disse: — Senti, io non ho nulla. Tu neppure non hai nulla. Si farebbe un bel marrone tutti e due —. Cotesto non glielo aveva detto prima, quando le stava attorno innamorato, e le sussurrava quelle parole traditrici che le facevano squagliare il cuore dentro il petto. Con tali parole s’era lasciata prendere in quella stanza dell’osteria di Gorla, col ritratto del Re e di Garibaldi che le si erano stampati in mente. Ora egli se ne andava passo passo per la sua strada, col dorso curvo. Da principio sembrava che il cuore le morisse dentro il petto. Poscia a poco a poco si rassegnò. Matilde le diceva: — Sciocca, ne troverai cento altri, non dubitare —. Le compagne cianciavano e ridevano tutto il giorno, e il sabato facevano dei progetti per la festa. Dalla finestra si vedeva il sole di primavera, sui tetti rossi, nei terrazzini pieni di fiori. Allora tornavano a gonfiarlesi in cuore piene di lagrime le parole dolci di Poldo. La domenica per lei spuntava triste, in quella malinconia di via Armorari, e pensava, pensava, coi gomiti appoggiati al davanzale, guardando le botteghe tutte chiuse. Il Renna, di sopra, stava alla finestra per vedere la Santina affacciata a capo chino, che scopriva la nuca bianca. Non usciva neppur lui. Poscia le buttava dei sassolini. Ella si voltava, col viso in su, e rideva. Era l’unico suo sorriso. Una sera di luna piena, mentre arrivava sin là la canzone della strada, il Renna scese al pian disotto, e Santina uscì sul pianerottolo ad attinger l’acqua. Il giovanotto le prese tutte e due le mani che reggevan la secchia, ed ella gliele lasciò chinando il capo, nella luna piena che allagava il balcone. Pure non voleva, no; perché a poco a poco aveva preso a volergli bene come a quell’altro, e temeva del poi. Ma il Renna sapeva che ella aveva avuto Poldo per amante, e glielo rinfacciava a ogni momento. Allora Santina dovette piegare il capo anche a costui, per provargli che gli voleva bene. Stavolta fu all’Isola Bella, dopo un desinare che si sentiva la testa pesa come il piombo. Poscia guardava tutta sconfortata gli orti e i prati che impallidivano al tramonto, mentre il Renna fumava alla finestra, in maniche di camicia. E le disse pure: — Abbiamo fatto un bel marrone! — Sapeva che Beppe, il fratello della ragazza, era un giovanotto schizzinoso, di quelli che non amano far ridere alle proprie spalle. Motivo per cui a poco a poco andava raffreddandosi coll’amante. — Tu sei troppo imprudente, cara mia! Fai le cose in modo da aprire gli occhi a un cieco —. Santina taceva e si struggeva in silenzio. Poi il Renna la esaminava dalla testa ai piedi con un’occhiata. — Cos’hai? Hai un certo viso! Il marrone?... — Allora scoprì pure che egli sgomberava adagio adagio dalla stanza di sopra. Lo sorprese per la scala con un baule sulle spalle. — Te ne vai? Mi pianti? — Anch’egli negava, colle braccia in croce, come quell’altro. Infine gli scappò la pazienza. — Ebbene, cosa vuoi? Già sai che non son stato il primo... Ella voleva buttarsi dalla finestra, se non fosse stata la paura. La maestra arriciava il naso appena la vedeva entrare in bottega, accasciata, col viso gonfio e disfatto, con tanto di pèsche agli occhi. La spogliava dalla testa ai piedi al pari del Renna, con certe occhiate che le leggevano in faccia la vergogna. Infine, quando fu certa di non ingannarsi, le diede il fatto suo, un sabato sera, dietro il banco — cinque lire e ottanta centesimi. — A Santina le pareva di morire. Ma la padrona con un risolino agro ripeteva: — È inutile piangere adesso. Dovevi pensarci prima! — La mamma cacciandosi le mani nei capelli, balbettava: — Cosa hai fatto? Cosa hai fatto? disgraziata! Se lo sapesse tuo fratello!... — Costui appena venne in chiaro della cosa andò a prendere il Renna per il collo, in via Camminadella. — Ti voglio mangiare il fegato, traditore! — Dopo lo portarono a casa colla testa rotta. — Non è nulla, — diceva. — Ma voglio lavarmi il disonore col sangue di quella sciagurata! Se non va via di casa voglio ammazzare anche lei! — La poveretta scappò come si trovava, la vigilia di Natale. Quel giorno Beppe, contento e all’oscuro di tutto, aveva portato un panettone. La mamma di nascosto le mandò qualche soldo nel fagottino della roba. Le sue compagne non ne seppero più nulla. Dopo tre mesi all’improvviso Matilde se la vide capitare in casa pelle e ossa, in cerca di lavoro. — Del lavoro?... è difficile, sai; la maestra... — No! No lei! — Ma allora... Non saprei... Poverina, come sei ridotta! Ora che farai? — Non so. — E lui, Poldo? — Non so. — Fàtti animo. Tornerai bella come prima, vedrai! — Santina non aveva altro da dire, e se ne andava a capo chino. Matilde la richiamò sull’andito. — Dove andrai? — Non so. — Senti, se pigli un altro amante, apri bene gli occhi stavolta, che non sia uno spiantato —. Invece prese un bel giovanotto, ricco come un principe, e buono come il Signore Iddio; tanto che alla poveretta non le pareva vero, e non voleva crederci ogni volta che egli l’aspettava sotto il portico di piazza Mercanti, mentre essa andava a riportare il lavoro di cucito in via Broletto, e le si attaccava alla cintola. — Angelo! Biondina d’oro! — No! Signore Iddio! Mi lasci andare pei fatti miei! — Una sera egli la seguì per la scaletta di casa sua, in via del Pesce, innamorato sino agli occhi. Voleva che lo mettesse alla prova se le voleva bene. Spese per lei dei gran denari; le fece abbandonare la camiciaia di via Broletto; le prese in affitto un bel quartierino in via Manara. Spesso la conduceva al Fossati, e in campagna. Le belle passeggiate nel Parco di Monza, tutto di verde e d’azzurro, colle folte ombrìe dei grandi alberi dove dormivano le viole e i pan porcini, e le stelle che filavano silenziose sul loro capo al ritorno, mentre egli le posava la testa fine sulle ginocchia, cullati dalla carrozza! Le pareva di sognare. Cercava di leggergli negli occhi cosa dovesse fare per meritarsi quel paradiso. Anch’esso da qualche tempo sembrava che sognasse. La fissava pensieroso. Rispondeva: — Nulla, non ci badare; ho delle seccature —. Un giorno le disse ridendo che suo padre era furibondo contro di lei. Aveva il sorriso pallido. In seguito perse anche quel sorriso. Sovente veniva tardi, di cattivo umore. L’abbracciava in un certo modo per dirle: — Ti voglio tanto bene, sai! — In un momento d’abbandono le confidò che era soprapensiero per certe cambiali; i creditori non volevano aspettare più. Suo padre in collera protestava che non gli avrebbe dato un soldo se non mutava via. Santina chinava il capo tristemente, col martello di perdere il suo amore; giacché non le passava neppure pel capo che potesse sposar lei. Egli dovette andare a Genova per due o tre giorni onde aggiustare i suoi affari. Al momento di partire, sotto la tettoia della stazione, le aveva detto: — Non dubitare, non dubitare! — colla voce ancora innamorata. Le aveva promesso di scriverle ogni giorno. Ogni giorno Santina andava alla posta a prendere le sue lettere, per tre mesi. Infine ne arrivò un’ultima in cui egli scriveva: «Che posso farci? Mio padre vuole che pigli moglie ad ogni costo». E le mandava un vaglia di mille lire. Un signore che passava dovette afferrarla per il braccio onde non cadesse sotto l’omnibus di Porta Romana. Ora ella portava i cappelloni a piume, e gli stivalini col tacco alto come la Matilde. La videro in brum chiuso con un ufficiale di cavalleria. Al veglione del Dal Verme prese un premio; e una volta di nascosto mandò cinquanta lire alla mamma. Il giorno dello Statuto in piazza del Duomo le passò a lato Poldo, e la sbirciò dicendo qualche cosa all’orecchio della moglie, una grassona la quale si mise a ridere scotendo il ventre. Però ebbe giorni di fortuna. Un signore forestiero le pagò un mese di allegra vita e di vetture di rimessa. Poscia fece le sue valigie anche lui, e le lasciò qualche migliaio di lire, tutte in ori e fronzoli, che le mangiò un commesso viaggiatore. Un maestro di musica, malato di petto, che moriva di fame e credeva d’attaccarsi alla vita buttandole le braccia al collo, le promise di sposarla. Ella, quantunque non ci credesse più, fece una vita da santa tutto il tempo che rimase con lui, in una soffitta, a cavarsi gli occhi per comprargli le medicine. Stettero anche quarantotto ore senza mangiare né lei né il suo amante, rannicchiati su uno strapunto sotto l’abbaino. Infine l’accompagnò al cimitero di Porta Magenta, lei sola, col cuore stretto da quella giornata trista di febbraio tutta bianca di neve. La sera andò in una scuola di ballo per cercar da cena. Poi scese giù nella strada; fece la dolorosa via crucis della Galleria e di Via Santa Margherita, nell’ora triste della caccia al pranzo, tremante di freddo sotto il mantello di seta, col viso pallido di cipria, sorridendo a tutti colle labbra affamate, scutrettolando coi piedi gonfi rasente agli uomini che la salutavano con un’occhiata sprezzante; senza ripugnanze, senza simpatie, senza stanchezza, senza sonno, senza lagrime, senza un briciolo della sua sciagurata bellezza che le appartenesse più. Una notte di carnevale, in un’orgia, Poldo volle comprare da lei un bacio coi denari della moglie, ed essa glielo diede, sulla bocca avvinazzata. La stagione era ancora rigida. Lassù nella sua cameruccia sotto i tetti l’acqua gelava nel catino. Se entrava in un caffè per riscaldarsi, il cameriere, in cravatta bianca, le sussurrava qualche parola all’orecchio, ed ella tornava al alzarsi a capo chino. Di fuori, alla luce appannata delle grandi invetriate, passavano delle ombre impellicciate come lei sotto un cappellone piumato. Dietro, i questurini, passo passo. Gli uomini camminavano frettolosi, col bavero rialzato e il sigaro in bocca. Ella sorrideva, colle labbra riarse. Piazza del Duomo tutta bianca di neve, Santa Margherita colle vetrine scintillanti del Bocconi; lì delle lunghe stazioni all’alito dei sotterranei riscaldati che veniva dalle finestre a livello del marciapiede. La gente passava sogghignando. Indi piazza della Scala, come un camposanto, il teatro sfavillante di lumi, i caffè nella nebbia calda del gas, e di nuovo la Galleria, alta, sonora, coll’arco immenso spalancato sull’altra piazza bianca di neve; e dietro sempre il passo sonoro dei questurini che la scacciavano avanti, sempre avanti. Un vecchietto curvo la sbirciò arricciandosi i baffi tinti. La poveretta sorrideva sempre inutilmente, colle labbra pallide. Infine s’avvicinò a una di quelle ombre che al par di lei passeggiavano eternamente sotto il cappellone piumato, e le disse qualche parola sottovoce. L’altra si strinse nelle spalle. Un signore passava senza darle retta. Poscia tornò indietro e le mise qualcosa nella mano. Allora, chiusa nel suo mantello di seta, colle piume del cappellone sul viso infarinato, andò a comprare del pane. E il garzone le sghignazzava dietro, tornando a sedere dietro il banco accanto alla ragazza che leggeva il Secolo, mentre l’altra si allontanava col pane sotto il mantello di seta, come una regina. Conforti La donna dell’uovo glielo aveva predetto alla sora Arlìa: — Sarai contenta, ma prima passerai dei guai —. Chi l’avrebbe immaginato quando sposò il Manica colla sua bella bottega di barbiere in via dei Fabbri, lei pettinatora anch’essa, giovani e sani tutti e due! Solo don Calogero, suo zio, non aveva voluto benedire quel matrimonio — per lavarsene le mani come Pilato — diceva. Sapeva come fossero tutti tisici di padre in figlio a casa sua, ed era riescito a mettere un po’ di pancia collo scegliere la vita quieta del prevosto. — Il mondo è pieno di guai, — predicava don Calogero. — Ed è meglio starsene alla larga —. I guai infatti erano venuti a poco a poco. Arlìa, sempre incinta da un anno all’altro, che le clienti stesse disertavano per la malinconia di vederla arrivare col fiato ai denti, e quel castigo di Dio della pancia grossa. Poi le mancava il tempo di stare in giorno colla moda. Suo marito aveva sognato una gran bottega da parrucchiere nel Corso, colle profumerie nella vetrina; ma aveva un bel radere barbe a tre soldi l’una. I figliuoli si facevano tisici uno dopo l’altro, e prima d’andarsene al camposanto si mangiavano colla propria carne il poco guadagno dell’annata. Angiolino, che non voleva morire così giovane, si lamentava nella febbre: — Mamma, perché m’avete messo al mondo? — Tale e quale come gli altri suoi fratelli morti prima. La mamma, allampanata, non sapeva che rispondere, dinanzi al letticciuolo. Avevano fatto l’impossibile; s’erano mangiato il cotto e il crudo: brodi, medicine, pillole piccine come capocchie di spilli. Arlìa aveva speso tre lire per una messa, ed era andata ad ascoltarla ginocchioni in S. Lorenzo, picchiandosi il petto pei suoi peccati. La Vergine nel quadro sembrava che ammiccasse di sì cogli occhi. Ma il Manica, più giudizioso, si metteva a ridere colla bocca storta, grattandosi la barba. Infine la povera madre afferrò il velo come una pazza, e corse dalla donna dell’uovo. Una contessa che voleva tagliarsi i capelli dalla disperazione dell’amante ci aveva trovata la consolazione. — Sarai contenta, ma prima passerai dei guai, — le rispose quella dell’uovo. Lo zio prete aveva un bel dire: — Tutte imposture di Satanasso! — Bisogna provare cosa sia avere il cuore nero d’amarezza, mentre s’aspetta la sentenza, e quella vecchia vi legge il vostro destino tutto in un bianco d’uovo! Dopo le pareva di trovare a casa il figliuolo alzato, che le dicesse allegro: — Mamma, sono guarito —. Invece il ragazzo se ne andava a oncia a oncia, stecchito nel lettuccio, e quegli occhi se lo mangiavano. Don Calogero, che di morti se ne intendeva, come veniva a vedere il nipote, si chiamava poi in disparte la mamma, e le diceva: — Pei funerali me ne incarico io. Non ci pensate —. Però la sventurata sperava sempre, accanto al capezzale. Alle volte, quando saliva anche Manica a sentire del figliuolo, colla barba lunga di otto giorni e il dorso curvo, provava compassione di lui che non ci credeva. Come doveva patirci il poveretto! Ella almeno aveva in cuore le parole della donna dell’uovo, come un lume acceso, sino al momento in cui lo zio prete s’assise ai piedi del letto colla stola. Poi, quando si portarono via la sua speranza nella bara del figliuolo, le parve che si facesse un gran buio dentro il suo petto. E balbettava dinanzi a quel lettuccio vuoto: — O dunque cosa m’aveva promesso quella dell’uovo? —. Suo marito dal crepacuore aveva preso il vizio di bere. Infine, adagio adagio, si fece una gran calma nel suo cuore. Tale e quale come prima. Ora che i guai l’erano caduti tutti sulle spalle sarebbe venuta la contentezza. Ai poveretti accade spesso così. Fortunata, l’ultima che le restasse di tanti figli, si alzava la mattina pallida e colle pèsche color di madreperla agli occhi, a simiglianza dei fratelli che eran morti tisici. Le clienti stesse la lasciavano ad una ad una, i debiti crescevano, la bottega si vuotava. Manica, suo marito, aspettava gli avventori tutto il giorno, col naso contro la vetrina appannata. Lei chiedeva alla figliuola: — Ti dice di sì il cuore per quello che ci ha promesso la sorte? Fortunata non diceva nulla, cogli occhi accerchiati di nero come i suoi fratelli, fissi in un punto che vedeva lei. Un giorno sua madre la sorprese per le scale con un giovanotto che sgattajolò in fretta al veder gente, e lasciò la ragazza tutta rossa. — Oh, poveretta me!... Che fai tu qui? — Fortunata chinò il capo. — Chi era quel giovanotto? che voleva? — Niente. — Confidati con tua madre, col sangue tuo. Se tuo padre sapesse!... — Per tutta risposta la ragazza alzò la fronte e le fissò in faccia gli occhi azzurri. — Mamma, io non voglio morire come gli altri! — Il maggio fioriva, ma la fanciulla s’era mutata in viso, ed era divenuta inquieta sotto gli occhi ansiosi della madre. I vicini le cantavano: — Badi alla sua ragazza, sora Arlìa —. Il marito istesso, colla cera lunga, un giorno l’aveva presa a quattr’occhi nella botteguccia nera, per ripeterle: — Bada a tua figlia, intendi? Che almeno il sangue nostro sia onorato! — La poveretta non osava interrogare la figliuola al vederla tanto stralunata. Le fissava soltanto addosso certi occhi che passavano il cuore. Una sera, dinanzi alla finestra aperta, mentre dalla strada saliva la canzone di primavera, la ragazza le mise il viso in seno, e confessò ogni cosa piangendo a calde lagrime. La povera madre cadde su una seggiola, come se le avessero stroncato le gambe. E tornava a balbettare, colle labbra smorte: — Ah! Ora come faremo? —. Le pareva di vedere Manica nell’impeto del vino, col cuore indurito dalle disgrazie. Ma il peggio erano gli occhi con i quali la ragazza rispondeva: — Vedete questa finestra, mamma?... la vedete com’è alta?... — Il giovane, un galantuomo, aveva mandato dallo zio prete a tastare il terreno per sapere che pesci pigliare. — Don Calogero s’era fatto prete apposta onde non sentir parlare dei guai del mondo. Il Manica si sapeva che non era ricco. L’altro capì l’antifona e fece sentire che gli dispiaceva tanto di non esser ricco lui per fare a meno della dote. Allora la Fortunata si allettò davvero, e cominciò a tossire come i suoi fratelli. Parlava spesso all’orecchio della mamma, col viso rosso, tenendola abbracciata, e ripeteva: — Vedete com’è alta quella finestra?... — E la mamma doveva correre di qua e di là a pettinare le signore pel teatro, sempre con lo spavento di quella finestra dinanzi agli occhi se non trovava la dote per la figlia, o se il marito s’accorgeva del marrone. Di tanto in tanto le tornavano in mente le parole di quella dell’uovo, come uno spiraglio di luce. Una sera che tornava a casa stanca e scoraggiata, passando dinanzi alla vetrina di una lotteria, le caddero sotto gli occhi i numeri stampati, e per la prima volta le venne l’ispirazione di giuocare. Allora con quel fogliolino giallo in tasca le pareva d’avere la salute della figliuola, la ricchezza del marito, e la pace della casa. Pensava anche come una dolcezza all’Angiolino e agli altri figliuoli da un pezzo sotterra nel cimitero di Porta Magenta. Era un venerdì, il giorno degli afflitti, nel sereno crepuscolo di primavera. Così ogni settimana. Si levava di bocca i pochi soldi della giocata per vivere colla speranza di quella grande gioia che doveva capitarle all’improvviso. L’anime sante dei suoi figliuoli ci avrebbero pensato di lassù. Manica, un giorno che i fogliolini gialli saltarono fuori dal cassetto, mentre cercava di nascosto qualche lira da passar mattana all’osteria, montò in una collera maledetta. — In tal modo se ne andavano dunque i denari?... — Sua moglie non sapeva che rispondere, tutta tremante. — Però, senti, se il Signore mandasse i numeri?... Bisogna lasciare l’uscio aperto alla fortuna —. E in cuor suo pensava alle parole di quella dell’uovo. — Se non hai altra speranza — brontolò Manica con sorriso agro. — E tu che speranza hai? — Dammi due lire! — rispose lui bruscamente. — Due lire! o Madonna!... cosa vuoi farne? — Dammi una lira sola! — ripeté Manica stravolto. Era una giornata buia, la neve dappertutto e l’umidità che bagnava le ossa. La sera Manica tornò a casa col viso lustro d’allegria. Fortunata diceva invece: — Per me sola non c’è conforto —. Alle volte ella avrebbe voluto essere come i suoi fratelli sotto l’erba del camposanto. Almeno quelli non tribolavano più, ed anche i genitori ci avevano fatto il callo, poveretti. — Oh! il Signore non ci abbandonerà del tutto, — balbettava Arlìa. — Quella dell’uovo me l’ha detto. Ho qui un’ispirazione —. Il giorno di Natale apparecchiarono la tavola coi fiori e la tovaglia di bucato, e quest’anno invitarono lo zio prete ch’era la sola provvidenza che restasse. Il Manica si fregava le mani e diceva: — Oggi si ha a stare allegri —. Pure il lume appeso al soffitto ciondolava malinconico. Ci fu il manzo, il tacchino arrosto, ed anche un panettone col Duomo di Milano. Alle frutta il povero zio, vedendoli piangere, siffatta giornata, con un buon bicchiere in mano di barbera anche lui, non seppe tener duro e dovette promettere la dote alla ragazza. L’amante tornò a galla, Silvio Liotti, commesso di negozio con buone informazioni, pronto a riparare il mal fatto. Manica col bicchiere in mano diceva a don Calogero: — Vedete, vossignoria; questo qui ne aggiusta tante —. Ma era destino che dove era l’Arlìa la contentezza non durasse. Il genero, ragazzo d’oro, si mangiò la dote della moglie, e dopo sei mesi Fortunata tornava a casa dai genitori a narrar guai e a mostrar le lividure, affamata e colle busse. Ogni anno un figliuolo anche lei come sua madre, e tutti sani come lasche che se la mangiavan viva. Alla nonna sembrava che tornasse a far figliuoli, ché ognuno era un altro guaio, senza morir tisico. Divenuta vecchia, doveva correre sino a Borgo degli Ortolani, e in fondo a Porta Garibaldi, per buscarsi dalle bottegaie qualche mesata da quattro lire. Suo marito anch’esso, che gli tremavano le mani, faceva appena dieci lire al sabato, tutti tagli e tele di ragno per stagnare il sangue. Il resto della settimana poi o dietro la vetrina sudicia ingrugnato, o all’osteria col cappello a sghimbescio sull’orecchio. Anch’essa ora i denari del terno li spendeva in tanta acquavite, di nascosto, sotto il grembiale, e il suo conforto era di sentirsene il cuor caldo, senza pensare a nulla, seduta di faccia alla finestra, guardando di fuori i tetti umidi che sgocciolavano.


L'ultima giornata



I viaggiatori che erano nelle prime carrozze del treno per Como, poco dopo Sesto, sentirono una scossa, e una vecchia marchesa, capitata per sua disgrazia fra un giovanotto e una damigella di quelle col cappellaccio grande, sgranò gli occhi e arricciò il naso. Il signorino aveva una magnifica pelliccia, e per galanteria voleva dividerla colla sua vicina più giovane, sebbene fosse primavera avanzata. Fra il sì e il no, stavano appunto aggiustando la partita, nel momento in cui il treno sobbalzò. Per fortuna la marchesa era conosciuta alla stazione di Monza, e si fece dare un posto di cupé. I giornali della sera raccontavano: «Oggi, nelle vicinanze di Sesto, fu trovato il cadavere di uno sconosciuto fra le rotaie della ferrovia. L’autorità informa». I giornali non sapevano altro. Una frotta di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si erano trovati tutt’a un tratto quel cadavere fra i piedi, sull’argine della strada ferrata, e avevano fatto crocchio intorno curiosi per vedere com’era. Uno della brigata disse che incontrare un morto la festa porta disgrazia; ma i più ne levano i numeri del lotto. Il cantoniere, onde sbarazzare le rotaie, aveva adagiato il cadavere nel prato, fra le macchie, e gli aveva messa una manciata d’erbacce sulla faccia, ch’era tutta sfracellata, e faceva un brutto vedere, per chi passava. Fra un treno e l’altro corsero il pretore, le guardie, i vicini, e com’era la festa dell’Ascensione, nei campi verdi si vedevano i pennacchi rossi dei carabinieri e i vestiti nuovi dei curiosi. Il morto aveva i calzoni tutti stracciati, una giacchetta di fustagno logora, le scarpe tenute insieme collo spago, e una polizza del lotto in tasca. Cogli occhi spalancati nella faccia livida, guardava il cielo azzurro. La giustizia cercava se era il caso di un assassinio per furto, o per altro motivo. E fecero il verbale in regola, né più né meno che se in quelle tasche ci fossero state centomila lire. Poi volevano sapere chi fosse, e d’onde venisse; nome, patria, paternità e professione. D’indizi non rimanevano che la barba rossa, lunga di otto giorni, e le mani sudice e patite: delle mani che non avevano fatto nulla, e avevano avuto fame da un gran pezzo. Alcuni l’avevano riconosciuto a quei contrassegni. Fra gli altri una brigata allegra che faceva baldoria a Loreto. Le ragazze che ballavano, scalmanate e colle sottane al vento, avevano detto: — Quello là non ha voglia di ballare! — Egli andava diritto per la sua strada, colle braccia ciondoloni, le gambe fiacche, e aveva un bel da fare a strascinare quelle ciabatte, che non stavano insieme. Un momento s’era fermato a sentir suonare l’organetto, quasi avesse voglia di ballar davvero, e guardava senza dir nulla. Poi seguitò ad allontanarsi per il viale che si stendeva largo e polveroso sin dove arrivava l’occhio. Camminava sulla diritta, sotto gli alberi, a capo chino. Il tramvai era stato a un pelo di schiacciarlo, tanto che il cocchiere gli aveva buttato dietro un’imprecazione e una frustata. Egli aveva fatto un salto disperato per scansare il pericolo. Più tardi lo videro sul limite di un podere, seduto per terra, in attitudine sospetta. Pareva che strologasse la pezza di granoturco, o che contasse i sassi del canale. Il garzone della cascina accorse col randello, e gli si accostò quatto quatto. Voleva vedere cosa stesse macchinando là quel vagabondo, mentre le pannocchie del granoturco ci voleva del tempo ad esser mature, e in tutto il campo, a farlo apposta, non vi sarebbe stato da rubare un quattrino. Allorché gli fu addosso vide che si era cavate le scarpe, e teneva il mento fra le palme. Il garzone, col randello dietro la schiena, gli domandò cosa stesse a far lì, nella roba altrui; e gli guardava le mani sospettoso. L’altro balbettava senza saper rispondere, e si rimetteva le scarpe mogio mogio. Poi si allontanò di nuovo, col dorso curvo, come un malfattore. Andava lungo l’argine del canale, sotto i gelsi che mettevano le prime foglie. I prati, a diritta e a sinistra, erano tutti verdi. L’acqua, nell’ombra, scorreva nera, e di tanto in tanto luccicava al sole, un bel sole di primavera, che faveva cinguettare gli uccelli. Il garzone aggiunse ch’era rimasto più di un’ora in agguato per vedere se tornasse quel vagabondo; e non avrebbe mai creduto che facesse tante storie per andare a finire sotto una locomotiva. L’aveva riconosciuto da quelle scarpe che non si reggevano neppure collo spago, e gli erano saltate fuori dai piedi, di qua e di là dalle rotaie. — Gli è che al momento in cui le ruote vi son passate di sopra quei piedi hanno dovuto sgambettare! — osservò il cameriere dell’osteria, corso sin là all’odore del morto come un corvo, in giubba nera e col tovagliuolo al braccio. Egli aveva visto passare quello sconosciuto dall’osteria verso mezzogiorno: una di quelle facce affamate che vi rubano cogli occhi la minestra che bolle in pentola, quando passano. Perfino i cani l’avevano odorato, e gli abbaiavano dietro quelle scarpacce che si slabbravano nella polvere. Come il sole tramontava l’ombra del cadavere si allungava, dai piedi senza scarpe, a guisa di spaventapassere, e gli uccelli volavano via silenziosi. Dalle osterie vicine giungevano allegri il suono delle voci e la canzone del Barbapedana. In fondo al cortile, dietro le pianticelle magre in fila si vedevano saltare e ballare le ragazze scapigliate. E quando il carro che portava i resti del suicida passò sotto le finestre illuminate, queste si oscurarono subito dalla folla dei curiosi che s’affacciavano per vedere. Dentro, l’organetto continuava a suonar il valzer di Madama Angot. Più tardi se ne seppe qualche cosa. La affittaletti di Porta Tenaglia aveva visto arrivare quell’uomo della barba rossa una sera che pioveva, era un mese, stanco morto, e con un fardelletto sotto il braccio che non doveva dargli gran noia. Ed essa glielo aveva pesato cogli occhi per vedere se ci erano dentro i due soldi pel letto prima di dirgli di sì. Egli aveva domandato prima quanto si spendeva per dormire al coperto. Poi ogni giorno che Dio mandava in terra aspettava che gli arrivasse una lettera, e si metteva in viaggio all’alba, per andar a cercare quella risposta, colle scarpe rotte, la schiena curva, stanco di già prima di muoversi. Finalmente la lettera era venuta, col bollino da cinque. Diceva che nell’officina non c’era posto. La donna l’aveva trovata sul materasso, perché lui quel giorno era rimasto sino a tardi col foglio in mano, seduto sul letto, colle gambe ciondoloni. Nessuno ne sapeva altro. Era venuto da lontano. Gli avevano detto: — A Milano, che è città grande, troverete —. Egli non ci credeva più; ma s’era messo a cercare finché gli restava qualche soldo. Aveva fatto un po’ di tutti i mestieri: scalpellino, fornaciaio, e infine manovale. Dacché si era rotto un braccio non era più quello; e i capomastri se lo rimandavano dall’uno all’altro, per levarselo di fra’ piedi. Poi quando fu stanco di cercare il pane si coricò sulle rotaie della ferrovia. A che cosa pensava, mentre aspettava, supino guardando il cielo limpido e le cime degli alberi verdi? Il giorno innanzi, mentre tornava a casa colle gambe rotte, aveva detto: — Domani! — Era la sera del sabato; tutte le osterie del Foro Bonaparte piene di gente fin sull’uscio, al lume chiaro del gas, dinanzi alle baracche dei saltimbanchi, affollata alle banchette dei venditori ambulanti, perdendosi nell’ombra dei viali, con un bisbiglio di voci sommesse e carezzevoli. Una ragazza in maglia color carne suonava il tamburo sotto un cartellone dipinto. Più in là una coppia di giovani seduti colle spalle al viale si abbracciavano. Un venditore di mele cotte tentava lo stomaco colla sua mercanzia. Passò dinanzi una bottega socchiusa; c’era in fondo una donna che allattava un bimbo, e un uomo, in maniche di camicia, fumava sulla porta. Egli camminando guardava ogni cosa, ma non osava fermarsi; gli sembrava che lo scacciassero via, via, sempre via. I cristiani pareva che sentissero già l’odor del morto, e lo evitavano. Solo una povera donna, che andava a Sesto curva sotto una gran gerla e brontolando, si mise a sedersi sul ciglio della strada accanto a lui per riposarsi; e cominciò a chiacchierare e a lamentarsi, come fanno i vecchi, ciarlando dei suoi poveri guai: che aveva una figlia all’ospedale, e il genero la faceva lavorare come una bestia; che gli toccava andare fino a Monza con quella gerla lì, e aveva un dolore fisso nella schiena che gliela mangiavano i cani. Poi anch’essa se ne andò per la sua strada, a far cuocere la polenta del genero che l’aspettava. Al villaggio suonava mezzogiorno, e tutte le campane si misero in festa per l’Ascensione. Quando esse tacevano una gran pace si faceva tutto a un colpo per la campagna. A un tratto si udì il sibilo acuto e minaccioso del treno che passava come un lampo. Il sole era alto e caldo. Di là della strada, verso la ferrovia, le praterie si perdevano a tiro d’occhio sotto i filari ombrosi di gelsi, intersecate dal canale che luccicava fra i pioppi. — Andiamo, via! è tempo di finirla! — Ma non si muoveva, col capo fra le mani. Passò un cagnaccio randagio e affamato, il solo che non gli abbaiasse, e si fermò a guardarlo fra esitante e pauroso; poi cominciò a dimenar la coda. Infine, vedendo che non gli davano nulla, se ne andò anch’esso; e nel silenzio si udì per un pezzetto lo scalpiccìo della povera bestia che vagabondava col ventre magro e la coda penzoloni. Gli organetti continuarono a suonare, e la baldoria durò sino a tarda sera, nelle osterie. Poi, quando le voci si affiocarono e le ragazze furono stanche di ballare, ricominciarono a parlare del suicidio della giornata. Una raccontò della sua amica, bella come un angelo, che si era asfissiata per amore, e l’avevano trovata col ritratto del suo amante sulle labbra, un traditore che l’aveva piantata per andare a sposare una mercantessa. Ella sapeva la storia con ogni particolare; erano state due anni a cucire allo stesso tavolo. Le compagne ascoltavano mezze sdraiate sul canapè, facendosi vento, ancora rosse e scalmanate. Un giovanotto disse che egli, se avesse avuto motivo di esser geloso, avrebbe fatta la festa a tutti e due, prima lei e poi lui, con quel trincetto che portava indosso, anche quando non era a bottega — non si sa mai! — E si posava colle mani in tasca davanti alle ragazze, che lo ascoltavano intente, bel giovane com’era, coi capelli inanellati che gli scappavano di sotto a un cappelluccio piccino piccino. Il cameriere portò delle altre bottiglie, e tutti, coi gomiti allungati sulla tovaglia, parlavano di cose tenere, cogli occhi lustri, stringendosi le mani. — In questo mondo cane non c’è che l’amicizia e un po’ di volersi bene. Viva l’allegria! Una bottiglia scaccia una settimana di malinconia. Alcuni si misero in mezzo a rappattumare due pezzi di giovanotti che volevano accopparsi per gli occhi della morettina che andava dall’uno all’altro senza vergogna. — È il vino! è il vino! — si gridava. — Viva l’allegria! — I pacieri furono a un pelo di accapigliarsi coll’oste per alcune bottiglie che vedevano di troppo sul conto. Poi tutti uscirono all’aria fresca, nella notte ch’era già alta. L’oste stette un pezzetto sprangando tutte le porte e le finestre, facendo i conti sul libraccio unto. Poi andò a raggiungere la moglie che sonnecchiava dinanzi al banco, col bimbo in grembo. Le voci si perdevano in lontananza per la strada, con scoppi rari e improvvisi di allegria. Tutto intorno, sotto il cielo stellato, si faceva un gran silenzio, e il grillo canterino si mise a stridere sul ciglio della ferrovia.


I drammi ignoti



Casa Orlandi era tutta sottosopra. La contessina Bice si moriva di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri. Nella gran camera da letto, sola quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell’inferma, aspettava la visita serale del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell’accento carezzevole e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei gravemente infermi. Tristi colloqui che celavano sotto l’apparenza della calma la preoccupazione di un morbo fatale da cui era stata colpita la madre della contessa, e che aveva minacciata lei stessa dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide di cui era stata circondata l’infanzia di quella bambina - delle prescrizioni severe della scienza che aveva soffocato quasi la sua maternità, e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane di un male da decrepiti, dopo aver agonizzato degli anni su di una poltrona. - Poi un altro sentimento che aveva fatto rifiorire la sua giovinezza, appassita anzitempo fra quella culla minacciata e quel marito di già cadavere prima di scendere nella tomba. Un affetto profondo ed occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane, e sembrava fatto di quelle, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, come una delicata voluttà che animava ogni cosa, un abbigliamento, un monile, una festa, un trionfo di donna elegante. - Persino quell’altra nube sórta a un tratto minacciosa in quel cielo azzurro, la malattia della figlia, come una ombra nera che dilatavasi da quei cortinaggi pesanti ed inerti, e ingigantiva, sino a scontrarsi con degli altri giorni neri - la morte di sua madre, l’agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quel medico che era venuto un’altra volta, il tic-tac di quella stessa pendola che riempiva tutta la stanza, tutta la casa, di una aspettativa lugubre. Le parole della madre e della figlia, che volevano sembrar gaie e spensierate, morivano nella semioscurità di quella vòlta altissima. Ad un tratto i campanelli elettrici squillarono nella lunga infilata di sale sfavillanti e deserte. I servitori silenziosi si affrettavano senza far rumore dinanzi al dottore, il quale giungeva calmo, col sorriso mentito in quell’attesa angosciosa. La contessa si rizzò senza poter dissimulare un tremito nervoso. - Buona sera! Un po’ tardi! Finisco adesso il mio giro. E questa cara ammalata come è stata? - S’era assiso di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola alla lampada ed esaminava l’inferma, tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla; ripeteva le solite domande. La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice con monosillabi tronchi, sempre con quegli occhi lucenti e inquieti. Nelle sale accanto si succedevano i colpi di campanello discreti, e la cameriera entrava in punta di piedi per sussurrare all’orecchio della signora il nome degli intimi che venivano a chieder notizie dell’inferma. Ad un tratto il dottore rizzò il capo. - Chi è arrivato adesso? - domandò con vivacità strana. - Il marchese Danei - rispose la contessa. - La solita pozione per questa notte - continuò il medico, come se avesse dimenticato la sua domanda. - Osservare a che ora cadrà la febbre. Del resto nulla di nuovo. Bisogna dar tempo alla cura -. Ma non lasciava il polso dell’inferma; fissando uno sguardo penetrante su la fanciulla che aveva chinato gli occhi. La madre aspettava ansiosa. Un istante gli occhi ardenti della figlia s’incontrarono con quelli di lei, e avvampò subitamente in viso. - Per carità, dottore! per carità! - supplicava la contessa, accompagnando il medico sino all’anticamera, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in un angolo del salone, chiacchierando sottovoce. - Come ha trovata oggi la Bice? Mi dica la verità! - Nulla di nuovo - rispondeva lui. - La solita febbriciattola, il solito squilibrio nervoso... - Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente: - La ragazza è innamorata di questo signor Danei -. La contessa non rispose sillaba. Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto. - Bisogna pensarci! - ribatté il medico con una certa rude franchezza. - Ora ne son certo. Il caso è grave. - Lui! - fu la prima parola che scappò alla madre, senza sapere quel che si dicesse. - Sì; il polso me l’ha detto. Lei non ha avuto alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa? - Mai!... Bice è così timida... così... - Il marchese viene spesso in casa? - La poveretta, sotto gli occhietti grigi di quell’uomo che assumeva l’importanza d’un giudice, balbettò: - Sì. - Noi altri medici alle volte abbiamo cura d’anime - aggiunse il dottore sorridendo. - Forse è stato un bene che quel signore sia arrivato nel momento della mia visita. - Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l’amor di Dio!... - No... secondo i casi. Buona sera -. La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto un lieve sudore che le umettava le tempie. Quando ripassò dal salone, rapidamente, guardò Danei in un canto, nel crocchio degl’intimi, e salutò tutti con un cenno del capo. - Bice, figlia mia! il dottore t’ha trovata meglio oggi, sai! - Sì, mamma - rispose la fanciulla dolcemente, con quella amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore. - Ci è di là delle visite per te. Vuoi vederli? - Chi c’è? - Ma tutti. La tua zia, Augusta, il signor Danei... Vuoi vederli? - Bice chiuse gli occhi, come fosse stanca; e nell’ombra, così pallida com’era, si vide un lieve rossore montarle alle guance. - No, mamma. Non voglio veder nessuno. - Attraverso quelle palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo angoscioso ed intenso della madre. All’improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia magre e tremanti sotto la batista, con un moto indefinibile di confusione, di tenerezza e di sconforto. Madre e figlia si strinsero teneramente, a lungo, senza dir parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi. Ai parenti e agli amici che domandavano premurosi notizie dell’inferma, la contessa rispondeva come l’altre volte, ritta in mezzo al salone, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro. Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia, Danei e lei. Tante volte erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, vicino a quel tavolo, a scambiare qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava il loro pensiero e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa; momenti tristi e cari, nei quali ella attingeva la forza e il coraggio di rientrare nell’atmosfera cupa e lugubre di quelle stanze d’inferma con un sorriso di incoraggiamento. Stettero alquanto senza aprir bocca, con la fronte sulla mano. La contessa aveva tale espressione in tutta la sua persona, che Roberto non sapeva cosa dirle. Finalmente le stese la destra. Ella ritirò la sua. - Sentite, Roberto... Ho da dirvi una cosa... una cosa da cui dipende tutta la sua vita -. Egli aspettava, serio, un po’ inquieto. - Mia figlia vi ama! - Danei rimase sbalordito, guardando la contessa che si era nascosta il viso tra le mani e piangeva dirottamente. - Ella!... È impossibile!... Guardate bene!... - No! Me l’ha detto il medico. Ed ora ne son certa. Vi ama da morirne... - Vi giuro!... Vi giuro che... - Lo so. Vi credo. Non ho bisogno di cercare perché Bice vi ami, Roberto!... - E si abbandonò sul divano. Roberto era commosso anche lui. Tentò di pigliarle la mano un’altra volta. Ella lo respinse dolcemente. - Anna! - No! - esclamò la madre con vivacità. E quelle lagrime silenziose pareva che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di castigo che sopravvenivano tutto a un tratto nella sua esistenza spensierata. Il silenzio sembrava insormontabile. Infine Roberto mormorò: - Cosa volete che faccia?... dite... - Ella lo guardò smarrita, con un’angoscia indicibile. E balbettò: - Non so!... non so!... Lasciatemi tornar da lei... Lasciatemi sola stasera... - Come rientrava nella camera dell’inferma, dall’ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicavano ardenti, fissi su di lei, con un lampo inconsciente che l’agghiacciò sulla soglia. - Mamma - chiese Bice - chi c’è ancora? - Nessuno, figlia mia. - Ah!... Statti con me allora. Non mi lasciare -. E le teneva le mani, tremante. - Povera bimba mia! Povero amore! Guarirai presto, sai! L’ha detto il medico. - Sì mamma. - E... e... sarai felice -. La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo. - Sì, mamma -. Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri, nelle orbite incavate. Successe un mortale silenzio. La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda. Ad un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un’altra voce. - Bice! - Il petto della madre si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro. Poi si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell’altra guancia scarna, e le mormorò nell’orecchio, con un soffio appena intellegibile: - Ami qualcheduno, figlia mia? - Bice spalancò gli occhi all’improvviso, tutta una fiamma in volto. Poi, con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, fissi negli occhi pieni di lagrime della madre, balbettò con un accento ineffabile d’amarezza e quasi di rimprovero: - Oh mamma!... - Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all’intimo del cuore, ebbe il coraggio d’aggiungere: - Il signor Danei ha chiesto la tua mano. - Oh mamma! Oh mamma! - ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un movimento intraducibile. - Oh mamma!... - La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento di un’agonia, biascicava: - Però... se tu non l’ami... se tu non l’ami... Di’!... - L’inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, fissi negli occhi della madre. Tutt’a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l’avvinse al collo con le braccia tremanti, stringendola con una forza che diceva tutto. La madre, in un impeto d’amore disperato, singhiozzava: - Guarirai! guarirai! - E tremava convulsivamente. Il giorno dopo, la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano non avesse più una goccia di sangue nelle vene, con gli occhi fissi sulla fiamma. Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi, passavano dinanzi a quegli occhi! Il primo turbamento che l’aveva sorpresa al sentire annunziare la solita visita di lui, - il silenzio che era caduto all’improvviso fra loro due, e la parola che egli le aveva sussurrato all’orecchio, abbassando la voce ed il capo, - il batticuore delizioso che le aveva imporporato le gote ed il seno quando egli l’aveva aspettata nel vestibolo dell’Apollo per vederla passare, bionda, nella mantellina di raso bianco. - Poi le lunghe fantasticherie color di rosa, a quel medesimo posto, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la sua lezione di musica o di disegno. Ora, allo squillare del campanello si rizzò con un tremito nervoso. Tornò a sedere, calma, con le mani in croce sulle ginocchia. Il marchese si fermò esitante sull’uscio. Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo. Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, rispose dopo un breve silenzio: - La sua vita è nelle vostre mani. - Per l’amor di Dio, Anna!.. Voi v’ingannate!... - esclamò egli - Bice s’inganna!... Non può essere! non può essere!... - La contessa scosse il capo tristamente. - No, non m’inganno! Me l’ha confessato ella stessa... il dottore dice che la sua guarigione dipende... da ciò!... - Da che cosa?... - Per tutta risposta ella gli fissò in volto gli occhi arsi di febbre. Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu: - Oh!... no!... - Ella giunse le mani. - No, Anna; pensateci bene... Non può essere!... Voi v’ingannate! - ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente. Le lagrime le soffocarono la voce in gola. Poi stese le mani a Danei, senza dir nulla, come nei bei tempi trascorsi. Soltanto quegli occhi che lo fissavano con un’espressione di preghiera e d’angoscia straziante erano diventati tutt’altri in ventiquattr’ore. Roberto chinò il capo al pari di lei. Entrambi erano due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di poter sempre affrontare a fronte aperta qualsiasi conseguenza di ogni loro azione. Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un fatto che rovesciava bruscamente tutta la loro logica e ne mostrava la falsità. La rivelazione della contessa aveva sbalordito Danei; ora ripensandoci ne era spaventato; e in quel contrasto d’affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, si trovava imbarazzato. Parlò di loro due, del passato, dell’avvenire che gli faceva paura, cercando le frasi e le parole per scivolare fra tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi. - Pensateci bene, Anna! Questo matrimonio è impossibile! - Ella non sapeva che dire. Balbettava solo: - Mia figlia! mia figlia! - Ebbene... Volete che parta?... che mi allontani per sempre?... Sapete qual sacrifizio io farei!... Ebbene, lo volete? - Ella ne morrebbe -. Roberto esitò, prima d’affrontare l’ultimo argomento. Poi mormorò, abbassando la voce: - Allora... allora non resta che confessarle ogni cosa... - La madre s’irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E rispose con voce sorda, chinando il capo: - Lo sa!... Lo sospetta!... - E nondimeno?... - riprese Danei dopo un breve silenzio. - Ne sarebbe morta... Le ho fatto credere che s’ingannava. - E lo ha creduto? - Oh! - esclamò la contessa con un triste sorriso. - L’amore è credulo... Lo ha creduto! - E voi? - chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce. - Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -. Poi gli stese la mano, e soggiunse: - Sentite com’è calma? - Siete certa che sarà sempre così calma? - Ella rispose: - Sempre! - E sentì freddo sulla nuca, alla radice dei capelli. Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto. - Ascoltate, Roberto, ora è vostra madre che vi abbraccia! Anna è morta. Pensate a mia figlia! Amatela per me e per lei. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità la farà rifiorire. Voi l’amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa... siate tranquillo!... - Roberto era pallido. Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che ella entrò in convalescenza. Amici e parenti venivano a congratularsi dei due fortunati avvenimenti in una volta. Il marchese Danei era un partito convenientissimo; e se un qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni, o altro, fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevava scandalizzato. La fanciulla risanava davvero, raggiante di una vita nuova, colla cecità, colla credulità, coll’oblio, coll’egoismo della felicità che espandeva nel seno della madre, la quale sorrideva. Il dottore si fregava le mani, borbottando: - Io non ci ho alcun merito. Io faccio come Pilato. Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza. Io non ci ho altro da prescrivere qui: Recipe. - L’inverno a San Remo o a Napoli. L’estate a Pegli o a Livorno. Una scappata a Roma pei balli del carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -. La contessa, alla figlia che avrebbe voluto condurla seco rispondeva: - No. Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio. Tutta la mia pretesa è che siate felici! - E sorrideva agli sposi, del suo sorriso un po’ stanco. La figlia alle volte aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre. A quelle parole, senza saper perché l’abbracciò stretta, nascondendole il viso in seno. La contessa diceva che quella era l’ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate si mostrarono un’ultima volta alla cerimonia dello sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi, e affollate di amici e parenti come nei giorni più tristi in cui venivano a chieder notizie della Bice. Roberto le baciò la mano senza poter dissimulare un certo turbamento. Poi, quando l’ultima carrozza fu partita e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé del marchese, e la carretta inglese che portava il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d’abito, rimasero soli un momento, Roberto e lei. - Fatela felice, Roberto -. Danei era nervoso, abbottonava macchinalmente il suo ulster da viaggio, si cavava e tornava a infilarsi i guanti. Non disse una parola. Madre e figlia si abbracciarono strette, strette, lungamente. Poi la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo: - È tardi. Perdete il treno. Andate! andate! - La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell’inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico. Costui, onde non spaventarla, la sgridava perché passava le mattinate in chiesa a salvarsi l’anima e perdere il corpo. Parlava di semplici raffreddori. In realtà entrambi pensavano ad altro, ad una minaccia più grave, e sapevano d’ingannarsi a vicenda. Bice scriveva che stava bene, che era contenta, che era felice, e più tardi accennò anche velatamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima dell’anno. La contessa telegrafò di non farne nulla, di aspettare l’avvenimento là dove si trovavano. Ella era inquieta; temeva lo strapazzo del viaggio. Piuttosto sarebbe corsa lei a raggiungerli, all’ultimo momento. Però tardava sempre. I telegrammi si succedevano. Infine Roberto ebbe un dispaccio. - Arrivo stasera -. Il viaggio le parve eterno. Ma allorché udì il fischio dell’arrivo si sentì mancare; ebbe quasi paura. La prima persona che vide sul marciapiede della stazione, in mezzo alla folla, fu Roberto, che l’aspettava, solo. Ella si strinse con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro. Roberto le baciò la mano, sul guanto, e passarono insieme pel cancello. Intanto balbettava: - Bice? come sta? - Fuori era fermo il piccolo coupé del marchese, col servitore accanto allo sportello aperto. Doveva montare insieme a lui! Ella si stringeva nel suo cantuccio, chiusa nella sua pelliccia, col velo sul viso. - Bice sarà tanto contenta! - mormorava lui - tanto contenta! - Ripeteva sempre la stessa cosa, col viso rivolto allo sportello, impaziente d’arrivare. Sfilavano le case e le botteghe illuminate. Ad un tratto successe l’oscurità, nell’attraversare una piazza. Tutti e due istintivamente si scostarono, e tacquero. Poi si udì rimbombare il rumore della carrozza sotto la vòlta dell’androne. Bice era corsa a piedi della scala; si buttò al collo della mamma con un diluvio di carezze e di parole sconnesse. Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale. La madre veniva dopo, un po’ stanca anch’essa e soffocata dalla sua gran pelliccia. Quando furono nel salone, in piena luce, ella fu colpita dall’aspetto di Bice, dalla veste da camera discinta, dalle mani venate d’azzurro posate sui bracciuoli, dal viso sbattuto ma raggiante di una felicità serena. Roberto si chinava per parlarle all’orecchio. Senza avvedersene s’erano appartati alquanto, vicino al parafuoco che li colorava di un’aureola rosata. Allora alla donna lasciata in disparte sfuggì un’occhiata rapida e scintillante come una saetta. Un momento rimasero sole madre e figlia. Dopo avere esitato alquanto, la madre chiese: - Sei felice? - Sì, mamma!... Tanto felice! - Anna sola sembrava calma. Allorché rimasero faccia a faccia con Roberto, ed egli parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, - ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona accanto al fuoco che lumeggiava d’azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo. Una sera che Bice si era ritirata prima del solito, e Roberto era restato con la contessa nel salone a farle compagnia, il silenzio piombò all’improvviso fra di loro. La contessa si alzò, e gli diede la buona notte semplicemente, accusando un po’ di stanchezza anche lei. Roberto era turbato parimente. In questa apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco. Madre e figlia si guardarono: e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato. Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, disse: - Che hai, Bice? - Nulla... Non potevo dormire... che ora è? - Non è tardi. Tua madre voleva ritirarsi perché è stanca... - Miei cari - disse questa con un mesto sorriso. - Alla mia età... Pensateci bene... - E come Roberto, per abitudine, faceva un gesto... essa rialzò alquanto i capelli sulle tempie, per mostrare quelli di sotto, tutti bianchi. - Oh, è un pezzo! - rispose all’atto di sorpresa di Bice. Questa, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir nulla. Però le mani della madre sentivano che tremava tutta. Roberto era presso il camino, in silenzio, col capo un po’ curvo, come gli pesasse qualche cosa sull’anima, e sentisse di essere di troppo fra quelle due donne, in tal momento. Quando i suoi occhi s’incontrarono con quelli di Anna arrossì; e fu quella l’unica volta che fra di loro divampasse un ricordo del passato! - Ora son nonna! - osservò sorridendo la contessa, ritta di faccia allo specchio, e lisciandosi i capelli con le mani bianche. E rivolgendosi verso di loro, stese semplicemente le mani a tutti e due. Roberto gliele baciò, chinando profondamente il capo. Bice di tanto in tanto le stringeva la destra nervosamente; ed ella sentiva quella stretta penetrarle sino al cuore, come una fitta. Allorquando fu sola nella sua stanza, si buttò ginocchioni davanti al crocifisso, col capo fra le braccia, e la luce della candela solitaria le baciò a lungo la nuca bianca e delicata. Passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Com’erano mutati! quando egli le dava il braccio per andare a tavola; quando Bice diceva, - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella avea detto a Roberto. E per dimenticare era bastato!... Ahi! Ella chiudeva gli occhi rabbrividendo a quel pensiero. Qualche volta, all’improvviso, sentiva degli impeti di collera, quasi di gelosia pazza. Gli aveva tolto persino il cuore di sua figlia! Tutto gli aveva tolto quell’uomo! Una sera avvenne un gran trambusto nella casa; cocchieri e servitori spediti in furia; medici che arrivavano frettolosi, ed entravano difilato nella camera di Bice. Ad intervalli succedeva un gran silenzio. C’era una bugia sola che rischiarava il salone. Tutt’a un tratto si udì un grido: un grido straziante che risonò dentro di lei come uno schianto. E non poteva pregare nemmeno. La sua ragione se ne andava dietro quei passi che si udivano frettolosi, in anticamera, pel corridoio, per le scale. Più tardi, Roberto bussò discretamente all’uscio di lei, ella proferì: - Entrate! - con voce rauca. Era commosso e raggiante insieme. Non l’avea mai visto così. Volevano che venisse a vedere il neonato; che fosse la madrina; che so io... - No! - rispose, con la febbre negli occhi. Poscia accorse nella camera della figlia, convulsa. Bice era supina sul letto, bianca, estenuata, con gli occhi socchiusi e ancora umidi, e i denti stretti dall’angoscia. La madre si sentiva dentro di sé questo ruggito: - Voi me l’avete uccisa voi! - Venne il giorno del battesimo, nella chiesa tutta scintillante di lumi. La contessa aveva poi consentito a fare da madrina. Se alle volte usciva in qualche stranezza, dovevano accusarne lo stato di salute della povera nonna; diceva sorridendo: - Anche le nonne hanno dei nervi! - Quando le tolsero di dosso la pelliccia, sotto i merletti e i diamanti dell’abito di gala, parve di vedere uno spettro. Gli omeri aguzzi mal dissimulati, e gli occhi arsi di febbre, in fondo alle occhiaie livide, sul volto solcato. La bambina fu battezzata Carlotta Danei. Bice andava rimettendosi lentamente. Era un organismo delicato che vibrava al minimo urto. Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti di irritazione sorda ed ingiusta, degli scoramenti improvvisi, come se tutti l’abbandonassero. Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con un accento indefinibile: - Perché esci? Dove vai? Perché mi lasci sola? - La sera del battesimo, al vedere i pizzi e i diamanti della mamma, aveva mormorato, stringendosi nelle coperte, aggrottando le ciglia, con uno strano accento di rancore quasi selvaggio: - Come sei bella! - E poi, una volta, nella febbre, con gli occhi accesi: - Quando partirai? - Roberto abbassava il capo, e la contessa si sentiva soffocare. Alcuni istanti dopo, dietro alle cortine del letto, si portò il fazzoletto alle labbra, e lo nascose in fretta macchiato di sangue. Poscia Bice tornava in sé, e pareva chiedere perdono a tutti con le sue parole e le carezze affettuose. Appena cominciò a lasciare il letto, sua madre fissò il giorno della partenza. Bice le rivolse uno sguardo scrutatore e impallidì chinando tosto gli occhi. Quando fu l’ultimo momento, alla stazione, erano commosse tutte e due, abbracciandosi senza dire una parola, come si lasciassero per sempre. La contessa arrivò tardi, la sera, affranta, intirizzita dal freddo. La casa vasta e deserta era fredda anch’essa, col gran fuoco acceso, con le lumiere solitarie, per tutta l’infilata delle sale. Anna s’era ammalata. Prima accusò la stanchezza del viaggio, poi le commozioni, o un colpo d’aria. Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, il medico tornò a venire tutti i giorni. - Non è nulla - ripeteva lei - oggi mi sento meglio. Domani mi alzerò -. Alla figlia scriveva regolarmente, e non aveva voluto che il dottore la informasse della malattia. Verso il principio dell’autunno parve migliorare davvero. Ad un tratto ricadde, e in due giorni peggiorò in guisa che il dottore si credette in debito di telegrafare al genero. Roberto arrivò il giorno dopo, agitatissimo. - Bice è in stato interessante - disse al dottore, che vide per il primo - e ho temuto che questa notizia... - Ha fatto bene. Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi.... È una malattia gentilizia... Io stesso non avrei preso su di me questa responsabilità se non fosse stata... la gravità del caso... - Molto grave? - balbettò Roberto. Il dottore scosse il capo. - Le hanno portato oggi il viatico -. Per tutte le stanze infatti vagava un odore di incenso. - Odore di morte - diceva il medico, vinto nella camera della moribonda da un odore più forte di etere, acuto, penetrante, che sembrava andare al cuore. Il letto bianco impallidiva in fondo alla vasta alcova oscura spalancata. Roberto si arrestò su quella soglia, sconvolto, e fece un passo indietro. - Non vuol vederla? - chiese la vecchia cameriera. - No... Non so... Bisognerebbe avvertirla... - La cameriera si accostò al letto, e si chinò sulla moribonda. Poi le fece un segno con la mano. Anna era immobile, con gli occhi spalancati, delle ombre livide sulle guance e alle tempie. Ai piedi del letto stava una suora vestita di color bruno. La cameriera ritta dall’altro lato, piangendo. - Bice... - balbettava Roberto - Bice... - E non poteva aggiunger altro, soffocato. Ella non rispondeva, non fiatava nemmeno, sempre con gli occhi aperti, fissi, immobili. Roberto si volse al dottore, con un’interrogazione d’angoscia repressa negli occhi. Questi scosse il capo. Roberto lentamente cadde sui ginocchi, quasi gli fossero mancate le gambe. Tutt’a un tratto la pendola sonò la mezza; egli tornò a rizzarsi in piedi con un sussulto. La suora si era alzata, e la cameriera si accostava al letto, col fazzoletto agli occhi. Ma la moribonda non si era mossa. Il medico le teneva il polso con gli occhi fissi su di lei. Da lì a poco come un’ombra le passò sul viso. Roberto sentì una mano che lo prendeva per il braccio, e lo conduceva via dolcemente. Frammento II Nella città straniera, stranieri l’uno all’altra, s’erano trovati accanto alla stessa tavola d’albergo e alla medesima rappresentazione teatrale che attirava da ogni parte gli zingari della gran vita. Ella fine e delicata come un fiore - egli baldo e rapace come un uccello da preda. E appena si guardarono in viso la prima volta tornarono a guardarsi, ella facendosi sempre pallida. - E dopo, nella semioscurità del teatro che concentrava una sensazione estraumana, lo sfolgorio delle scene, e l’ebbrezza delle piene orchestre, egli si impadronì risoluto delle piccole mani tremanti, e le tenne strette quanto durò la loro stagione d’amore. Dolce stagione che dileguò al pari della visione scenica! - Dolce musica che respirava - gli incanti svaniti colla grazia un po’ triste e la tenerezza penetrante delle cose che non son più - là, in quell’altro teatro di un altro paese dove si erano trovati insieme l’ultima volta, ancora accanto, e pure tanto lontani! «Nel carrozzone dei profughi» (frammento III) Nel carrozzone dei profughi, due povere donne sedute accanto, col fagotto della roba che avevano avuto al Municipio sulle ginocchia, si narravano i loro guai. Anzi una non parlava più; guardava nella folla con certi occhi stralunati, quasi cercando la figlia che le avevano detto fosse stata salvata da un giovanotto quando trassero anche lei dalle fiamme e dalle macerie. Una ragazza bella come il sole, che chi l’aveva vista una volta l’avrebbe riconosciuta fra mille. L’avevano vista rifugiata sotto un portone - tra i feriti del Savoja - alla stazione. Tutti l’avevano vista, fuori che lei! Dalla stazione aveva visto soltanto la sua casa che bruciava, per due ore, sinché il treno stette lì. E ora, mentre cercava la sua creatura fra la gente, da otto giorni, e pensava a lei che forse la cercava e chiamava aiuto, vedeva ancora quella distruzione e quell’incendio come un rifugio, una disperata certezza. - Ora son sola - diceva l’altra. - Quando incontrai mio marito, qui, per caso, salvo anche lui, non mi pareva vero. Ma avevo tre figli: una maritata, colla grazia di Dio, e il maggiore che mi portava a casa già la sua giornata... Tutti! Tutti!... Io mi ero alzata appunto pel più piccolo ch’era malato, quando successe il terremoto. Il Signore non mi volle -. Ne parlava tranquillamente, colla faccia gialla e la testa fasciata. - Ora, quando lui sarà guarito andremo in America -. L’altra alzò gli occhi, soltanto, e la guardò. - Certo, che faremo qui? - In America? - disse un altro profugo. - Non sapete che vita da cani! Peggio dei cani li trattano i cristiani! - Ella a sua volta guardò sbigottita colui, come a ripetere: - Che faremo qui? - Qui siamo nati; qui sono le pietre delle nostre case! - dissero gli altri.


Frammento IV



Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna, non so. Rammento solo due occhi pazzi e una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridìo generale, nera anch’essa, ma di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti con le prime corse, che si accavallavano sul balcone del Municipio all’arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi e altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica, laggiù in fondo alla piazza. Si spinse innanzi disperatamente, quasi volesse buttarsi giù e si mise a chiamare, a gridare, a chiedere chissà? un nome, una notizia di vita o di morte, qualcosa che l’altro soltanto poteva udire e comprendere in quel frastuono immenso, dall’altra estremità della piazza immensa, urlando. E l’altro, di laggiù, vide lei sola, in quel formicolio umano, udì, indovinò il nome e la domanda ansiosa, e rispose certo con una parola, un segno che al di sopra della folla, della confusione, del frastuono giunsero diritti a lei, che si cacciò le mani nella criniera arruffata, senza una parola, senza un grido, e cadde, scomparve nell’ondata di altri che gridano e chiamano ansiosi, dolorosamente egoisti. Un’altra inondazione Mi rammento, nell’ultima eruzione dell’Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono più profondarnente della catastrofe istessa. Era lo spettacolo di un casolare, in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire. Davanti al casolare, c’era un cortiletto, cinto da un muricciuolo, il quale aveva arrestato per poco la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio; sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in larghi crepacci infuocati. Allora il casolare ne era improvvisamente rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla porta, e un albero nel cortiletto. L’immensa valle era tutta nera di scorie fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie irrompevano da quei crepacci, con un acciottolio prolungato e sinistro, come di un’immensa distesa di tegole che rovinasse. Una delle finestre del casolare si era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto deserto e sgombro d’ogni cosa, senza un cane, né una gallina, né un pezzo di legno, quasi spazzato da un vento furioso. Di tanto in tanto vi si vedeva comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflesso ardente della lava, e piccin piccino per la grande distanza. Egli si affacciava sotto la tettoia, e guardava. Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda prima di abbandonarla. E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla cenere che li accecava, e dalle emanazioni che toglievano il respiro, s’impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l’altezza del muricciuolo, e calcolavano, coll’orologio in mano, il tempo che ci avrebbe messo a circondare la casuccia. Tutt’a un tratto l’albero accanto alla porta avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile. E nella immensa valle nera non si vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate dall’acciottolio sinistro delle scorie che precipitavano. Alle volte, mentre la corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per 50 metri d’altezza, non si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscio soffocato della pioggia di cenere, che stampavasi come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e indicavano il corso della corrente di fuoco. Ah! quanti alberi se ne andavano in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati, guardati cogli occhi assorti nei castelli in aria della povera gente! e quante cannucce con le immagini di sant’Agata miracolosa, che non erano valse ad arrestare il fuoco! e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti! E noi che correvamo ad assistere a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che facevano scoppiettare allegramente le fruste perché non avevano né vigne né case, e la loro vigna era quella provvidenza dell’eruzione che avrebbe dovuto non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti, e i campi lungo le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per renderne più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano 20 lire per andarlo a vedere! - Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A. e quanto potevano valere i nocciuoleti del marchese B. minacciati dell’eruzione. - Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti. Un tale, il giorno prima, vi possedeva una vigna che gli fruttava 3000 lire all’anno, una ricchezza, sebbene non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia. Tutt’a un tratto vennero a dirgli che il fuoco si divorava la sua ricchezza, e lo lasciava povero e pazzo, come si dice. Egli accorse a cavallo dell’asino, e trovò il vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto quei del casolare. Il padrone, giungendo alla porta senz’uscio del palmento, dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca; - Perché avete levato le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? - Per salvarle dal fuoco - rispose il contadino. - Il fuoco fra tre ore sarà qui. - Lasciate stare ogni cosa, - disse il padrone. - Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa metterci nelle botti. Io non ho più nulla . - Egli non aveva nemmeno la zappa da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo. Poi baciò il cancello della vigna, che ancora rimaneva in piedi, e se n’andò, tirandosi dietro l’asinello. Io non ho assistito a quella scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi agli occhi più nettamente del casolare che ho visto distruggere dalle lave. E quando mi avviene di sentire di qualche altra catastrofe, penso a quei poveretti che si sono voltati a guardare da lontano la vigna inondata e la casuccia distrutta, ed hanno detto; - Io non ho più cosa metterci nelle botti quest’anno, né nel granaio. Io non ho più nulla, - come quel tale che aveva baciato per l’ultima volta il cancello della sua vigna, e se n’era andato tirandosi dietro l’asinello. - Il carnevale fallo con chi vuoi; - - Pasqua e Natale falli con i tuoi - Così andava dicendo compar Menico, a ogni conoscente che incontrava, salutandolo «Viva Maria!» - Il paesetto rideva là al sole, col campanile aguzzo fra il grigio degli ulivi. - Cosa ci portate a casa, per le feste? - gli chiese il vetturale che gli andava accanto sul basto dondoloni. - Quel che dà la provvidenza, - rispose compare Menico ridendo fra di sé. La bisaccia per la salita non gli pesava, tanto aveva il cuore leggiero; e gli facevano allegria financo i passeri che si lisciavano le penne, gonfi dal freddo, sulle spine della siepe. La strada ora gli sembrava lunga, dopo tanto tempo. - E vostra moglie che vi aspetta? - gli disse il vetturale. Compare Menico fece cenno di sì, ridendo sempre fra di sé. La casa era in fondo al paese. Passò la fontana; passò la piazza; passò la beccheria, dove c’era gente che comprava carne, e da per tutto, a ogni cantonata, gli altarini parati a festa, cogli aranci e le ostie colorate. Nelle case il suono delle cornamuse metteva allegria. In fondo al vicoletto del Gallo si udiva un gridìo di ragazzi che giuocavano alle fossette, colle mani rosse. Compar Menico guardava la finestra, da lontano, per vedere se sua moglie l’aspettava. Ma la finestra era chiusa. C’erano comare Lucia a sciorinare il bucato, e comare Narcisa, che filava al ballatoio per fare la gugliata lunga. Lo sciancato andava zoppiconi a raccogliere le galline che fuggivano schiamazzando. Compare Menico posò la bisaccia, che gli pesava, e sedette ad aspettare accanto all’uscio chiuso, senza accorgersi delle vicine che ridevano dei fatti suoi, nascoste dietro l’impannata. Aspetta e aspetta, infine lo zio Sandro mosso a compassione gli si accostò passo passo, col fare indifferente e le mani dietro la schiena. Dopo un pezzetto che stavano seduti accanto colle gambe larghe, guardando di qua e di là, lo zio Sandro domandò; - Che aspettate la zia Betta, compar Menico? - Sissignore, vossignoria. Son venuto a fare il Natale. E vedendo che avrebbe aspettato fino al giorno del giudizio, lo zio Sandro si decise a dirgli: - O che non sapete nulla, dunque? - Nossignore, zio Sandro. Che cosa devo sapere? - Che vostra moglie se n’è andata con Vito Scanna, e si è portata via la chiave -. Compare Menico lo guardò stupefatto, grattandosi la testa. Quindi balbettò: - E dove se n’è andata? - Io non lo so, compare Menico. Credevo che lo sapeste. - Nossignore, io non sapevo niente, - rispose il poveraccio ripigliando la bisaccia. - Non sapevo che mi aspettava a casa questo bel regalo, la festa di Natale -. Tutto il vicinato si scompisciava dalle risa, vedendo compare Menico che s’era fatta dare una scala per entrare dal tetto in casa sua, peggio di un ladro. Egli stette rintanato in casa, festa e vigilia, senza aver animo di mettere il naso fuori. - Questa ch’è la maniera di fare, servo di Dio? - gli diceva comare Senzia la vedova. - La grazia di Dio che lasciate andare a male, tali giornate! e il crepacuore che covate per dar gusto ai vostri nemici! - Egli non sapeva che dire, in verità; ora il compassionarlo che faceva la zia Senzia lo inteneriva, in mezzo a tutto quel ben di Dio che c’era in casa. - Che gli mancava, gnà Senzia, ditelo voi? che gli mancava a quella buona donna per farmi questo tradimento? - Noialtre donne, compare Menico, ci meritiamo il castigo di Dio, - rispondeva comare Senzia. Quella era veramente una buona donna, che aveva cura del poveraccio, abbandonato al pari di un orfano, e gli teneva la chiave della casa allorché compare Menico se ne fu tornato in campagna come se le feste per lui non ci fossero mai state. Lì, nel maggese, gli giungevano altre notizie della moglie; - L’abbiamo vista alla fiera di Mililli. - Vito Scanna se l’è portata a incartar limoni nei giardini di Francofonte -. Tutti gli facevano la predica: - La moglie giovane non va lasciata sola, compare Menico! - Infine il torto cadeva su di lui. In giugno, colla schiera dei mietitori assoldati dal capoccia, giunse al podere anche Vito Scanna, tutto cencioso, senz’altro bene che la sua falce. - Guardate che non voglio scene fra di voi! - raccomandò il fattore. - Ciascuno al suo lavoro, com’è dovere -. Sicché gli toccò anche vedersi Scanna mattina e sera sotto il naso, mangiare e bere e cantare come la cicala, nelle ore calde, per non sentire il sole. Un giorno che il sole gli scaldò la testa a tutti e due, e volevano bucarsi la pancia colla forca, per amore di quella donna, il fattore li minacciò di scacciarli su due piedi, e convenne aver pazienza. Certo è che Betta doveva fare la mala vita, ora che Vito Scanna l’aveva abbandonata. Il Signore l’aveva castigata, come soleva dire comare Senzia. Zio Menico portava a casa vino, olio, frumento, al par della formica, nella casa senza padrona, dove la zia Senzia si godeva tutto. - Solo come un cane non posso starci - diceva lui, il poveraccio, per scolparsi. - Chi baderebbe alla casa e mi farebbe cuocere la minestra? - Il curato, servo di Dio, cercava di toccargli il cuore, e far cessare lo scandalo, ora che sua moglie era sola e pentita. - Aprite le braccia e perdonatele, come al figliuol Prodigo, adesso che s’avvicina il Santo Natale. - Come posso vedermela di nuovo in casa, vossignoria, dopo il tradimento che mi ha fatto? - rispondeva lo zio Menico - senza pensare a Vito Scanna, che stavamo per ammazzarci colla forca, Dio libero, alla messe! - Dall’altro canto comare Senzia, che mangiava la foglia, ogni volta che vedeva lo zio Menico parlare col curato, gli faceva un piagnisteo, lamentandosi che volevano abbandonarla nuda e cruda in mezzo a una strada. - Allora vedrete che il castigo di Dio vi sta sul capo,- conchiudeva il prete. - E la gente a sparlare di lui, che si ostinava a vivere nel peccato, come una bestia. Il castigo di Dio lo colse infatti a Ragoleti con una febbre perniciosa, peggio di una schioppettata. Lo portarono in paese su di un mulo, che aveva già la morte sulla faccia. Sua moglie allora corse insieme al viatico, colla faccia pallida e torva, e siccome la zia Senzia era ancora lì, umile e atterrita, si mise i pugni nei fianchi, e la scacciò di casa sua come una mala bestia. Ora ella era la padrona. Compare Menico in un angolo non parlava e non contava più. Appena chiusi gli occhi, la vigilia dell’Immacolata, sua moglie si vestì di nero da capo a piedi, senza perdere un minuto. E coi vicini, i quali si erano accostati, in occasione della disgrazia, parlavano spesso del morto, poveretto, che aveva lavorato tutta la vita per fare un po’ di roba, e grazie a Dio, lasciava la vedova nell’agiatezza. Ma quando Vito Scanna tornava a ronzarle attorno, vestito di nuovo, come un moscone, essa si faceva la croce e gli diceva:


Ultima visita



«Vorrei morir...». Donna Vittoria cantava divinamente. Però gli amici che frequentavano la sua casa (casa Delfini era una specie di succursale del Circolo) l’udivano raramente. Essa pretendeva che il canto l’affaticasse; soleva dire ridendo che sarebbe morta di una malattia di petto. - Per questo motivo, allorché compariva ai balli o al teatro, nel turbinìo infaticabile della vita elegante, splendente di bellezza e scollacciata sino al dorso, su quel petto delicato ch’era rimasto una meraviglia dopo dieci anni di matrimonio, fioccavano i complimenti e i madrigali dei suoi adoratori. - Ne aveva tanti!... - essa diceva con quel sorriso che faceva palpitare il bel nasino arcuato - per far la guardia alla sua virtù, guardandosi in cagnesco fra di loro!... - Amici del marito (il solo del fior fiore del Circolo che non fosse obbligato a farsi vedere un momento nel salotto di lei) o delle sue amiche, le quali venivano a prendere il thè, a farsi ammirare, a darsi degli appuntamenti, a discorrere di tutto, fuorché di musica, ch’era la passione segreta di donna Vittoria - il solo vizio che nascondesse agli amici - diceva lei - il suo egoismo e la sua civetteria - dicevano gli altri. Talché quella sera che si era lasciata piegare dalle calorose insistenze della cugina Roccaglia, era stato proprio un avvenimento, udire la sua voce un po’ velata che accennava squisitamente quella musica, con un certo riserbo signorile, con una tinta di malinconia anche. - Ah, sì! - esclamò galantemente il vecchio duca d’Orezzo. - Morire a quella maniera e una bella cosa! - Ella scherzava adesso gaiamente coi suoi intimi, che si affollavano intorno al pianoforte rimproverandole la sua ingratitudine. - Ah, valeva proprio la pena di esserle fedeli, tutte le sere, perch’ella fosse così avara della sua voce, soltanto con loro! - Anche lei, Ginoli, ha il coraggio di lagnarsene? - Io no. La musica mi fa male... quando le sento dire a quel modo «Vorrei morire!...» - Gli occhi di lei ridevano negli occhi del bel giovane biondo, che si accesero anch’essi un istante di una luce più viva, malgrado il loro riserbo mondano, com’era passata una carezza nel tono della voce che voleva sembrare disinvolta e scherzevole. - Davvero... - soggiunse lei. - Alle volte, sapete... in certi momenti deliziosamente tristi... - Essa parlava gaiamente della morte nel fervore della festa, al ritmo del valzer di Chopin che l’eccitava vagamente, splendente di gemme e di bellezza, sotto gli occhi innamorati di Ginoli. All’uscire di casa Roccaglia, in mezzo alla scorta di galanti che si affrettavano a metterle la pelliccia sulle spalle, a darle il braccio, ad aprir lo sportello del legnetto tiepido e profumato come un nido, aveva sentito un brivido scenderle per le belle spalle nude, ancora ansanti pel valzer, sotto la lontra del mantello. Il suo medico, il medico delle signore eleganti, era venuto il giorno dopo a fare quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente prima d’andarsene, senza togliersi i guanti due o tre lineette della sua bella scrittura da signora su d’un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie. Alla porta era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea; tutti che lasciavano una parola, un nome, una carta di visita, di cui il portiere ogni sera recava in anticamera un vassoio pieno zeppo, colla lista fitta di condoglianze e di auguri, insieme al bollettino della giornata, redatto in guisa da poter passare sotto gli occhi dell’inferma, la quale voleva leggere ogni giorno i nomi di coloro che si erano ricordati di lei. Se ne parlava al Circolo, al teatro, come s’incontravano fra di loro, amici e conoscenti di lei, in visita, dal confettiere, allo sportello delle carrozze, a Villa Borghese. - La povera donna Vittoria!... - Le visite si succedevano a Casa Delfini: delle signore eleganti, degli uomini che venivano un momento a stringere la mano al marito di lei, delle coppie che vi si davano ritrovo, delle ondate di profumi leggieri e delicati che passavano nell’atmosfera greve, delle osservazioni brevi che si scambiavano i visitatori a bassa voce, nell’uscire, con un gesto del capo, o della mazzettina, stringendo il manicotto al seno, o stringendosi nelle spalle. La sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva colla bimba nella camera della signora, la quale accoglieva entrambi con un sorriso pallido. La figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce d’oro pendenti giù per le spalle, e la compostezza di una donnina, andava a baciare la mamma in punta di piedi, col passo di signorina ben educata. Le chiedeva della salute in inglese o in tedesco, secondo la giornata; poi le augurava la buona notte, e se ne andava dietro all’istitutrice, diritta e impettita. Però una mattina il dottore s’era fatto serio all’udire donna Vittoria lagnarsi di un altro guaio serio, sopravvenutole nella notte: un dolore pungente che le attraversava il petto, dalle spalle al seno: - Come dicono che sia il mal d’amore!... - Donna Vittoria ne parlava in tono scherzoso, con una specie di febbre d’amore realmente negli occhi, sulle guance, e nella voce rotta. Il dottore la pregò di lasciarsi osservare, così, sollevandosi un poco, una cosa da nulla. Una cosa che le faceva un effetto curioso, a lei, al sentire contro la batista quel viso di uomo che pareva l’abbracciasse, e le facesse battere il cuore davvero, e la faceva scomporre in volto, senza saper perché, mentre si forzava ancora di ridere, fra due colpetti di tosse: - Proprio il mal d’amore, eh, dottore? - Egli non rispose subito, intento, coll’orecchio sulle sue spalle delicate che trasalivano e s’imporporavano. Poi aveva espresso il desiderio «di consultarsi con qualche collega sul metodo di cura», e s’era fermato un momento in anticamera a discorrere sottovoce col marito dell’inferma. Calava la sera, una sera tiepida di primavera. Per la via udivasi il rumore non interrotto delle carrozze che tornavano dal passeggio. Soltanto nella camera dell’inferma, che dava sul giardino, regnava un gran silenzio. Quando la figliuola era andata ad augurarle la buona notte, secondo il solito, donna Vittoria aveva trattenuta la ragazzina per mano, e le aveva detto, nella sua lingua nativa, poche parole che accusavano la febbre, col sorriso già triste nel viso color di cera. La bimba ascoltava seria e zitta, coi grand’occhi azzurri spalancati. Sino a tarda ora, come s’era sparsa la notizia del consulto tenutosi in casa Delfini, erano venuti degli amici di donna Vittoria, che il marito di lei riceveva nel suo salottino da fumare - un salottino da scapolo, con delle figure scollacciate alle pareti, e dove scoppiettava una fiammata allegra - distribuendo dei sigari e delle strette di mano, discorrendo di ciò che avevano detto i medici, e di quel che dicevasi al Circolo e nei crocchi mondani. Qualche signora, venendo a chiedere notizie dell’amica, dopo il teatro, s’avventurò a cacciare un momento la testolina incappucciata in quel recesso profano, scandolezzandosi «degli orrori» che v’erano in mostra, sgridando Delfini e lasciandogli un saluto per «la cara Vittoria», empiendo le sale del fruscìo dei loro strascichi, e il gaio cinguettìo che fugava le idee nere. I domestici sbadigliarono un po’ più del solito in anticamera, e sino a tarda ora lo stesso coupé che aveva ricondotta la padrona dal ballo in casa Roccaglia stette attaccato a piè dello scalone, coi due fanali accesi che si riverberavano nell’acqua della fontana. Null’altro. Ma la stessa notte l’inferma aveva peggiorato rapidamente. Il medico, chiamato in fretta e in furia sin dall’alba, si turbò in viso al primo vederla. Stette appena cinque minuti e promise di tornare fra qualche ora. Intanto fece prevenire il suo collega del consulto, suggerì alla cameriera di svegliare Delfini, che dormiva ancora, prescrisse un sacco d’ordinazioni che fecero perdere la testa ai servitori e alle cameriere. Per un momento la casa fu tutta sottosopra. Nel cortile c’era un va e vieni frettoloso di carrozze, coi cavalli fumanti e coi cocchieri ancora in giacchetta. Dei parenti giungevano a ogni momento, col viso lungo, parlando sottovoce. Il medico era tornato due volte. Verso le quattro, prima d’andarsene, aveva scritto un’ultima ordinazione sul tavolino dell’anticamera, volgendo le spalle all’uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina. Poi, il coupé di donna Vittoria era andato a prendere di corsa una lontana parente, mezza beghina, dinanzi al cui vestito dimesso, quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosamente. Costei s’era assisa al capezzale dell’inferma, con un’aria d’intimità quasi materna, chiedendole come si sentisse, chiacchierando di cose diverse con la voce pacata delle donne che vivono nella pace della chiesa. Parlò di sé, dei suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella religione. - Giusto incominciava allora la quaresima, l’epoca della penitenza, dopo i peccati del carnevale. A volte le malattie sono avvertimenti che dà il Signore perché ci si rammenti di Lui. Appunto perciò i buoni cristiani antichi usavano chiedere il Viatico appena s’ammalavano. Non è giusto aspettare l’ultimo momento per riconciliarsi con Dio. Già il miglior rimedio è una buona confessione, si era visto tante volte, con dei malati gravi... Donna Vittoria, bianca come il merletto del guanciale su cui posava la testa, ascoltava senza dire una parola, spalancando gli occhi, quasi affascinata da un’orribile visione interiore, col viso già stravolto da un’angoscia suprema, agitando le mani, agitando il capo che non poteva trovar requie sul guanciale. Tutt’a un tratto si fece proprio cadaverica in volto, cercando di rizzarsi sulla vita, balbettando: - No... più tardi... più tardi... Non mi fate questi discorsi... Non mi fate morir di spavento... Andatevene, zia!... andatevene!... Più tardi poi... - La beghina se ne andò finalmente, stringendosi nelle spalle, brontolando delle parole oscure, accennando col capo al marito di donna Vittoria che aspettava all’uscio, sbigottito anche lui. L’inferma gli fece cenno d’accostarsi, interrogandolo cogli occhi ansiosi, con un’espressione di rancore pure, in fondo a quegli occhi atterriti, chiedendogli perché avessero lasciata entrare quella donna... perché?... perché?... La voce le si era mutata a un tratto, come il viso, come gli occhi che fissava in volto a tutti quanti e domandavano ansiosi: - Sto proprio così male?... Cosa ha detto il medico?... Perché non mandate a chiamare il medico? - Ad un tratto si abbandonò sul letto supina, con un terrore immenso nel viso. - Ah... Dio mio!... così presto!... - Il triste annuncio giunse di buon’ora al Circolo. Ginoli teneva banco, aspettando che fosse l’ora d’andare a far visita in casa Delfini, come al solito, quando il duca d’Orezzo, che aveva preso posto fra i giuocatori un momento prima, ripeté la frase che correva da una settimana sulla bocca degli amici: - La povera donna Vittoria!... - stavolta in tal tono che tutti quanti levarono il capo. Ginoli aveva voltato un nove. Allora gli stessi tornarono a chinarsi sulle carte, rannuvolati. - Pur troppo! - rispose il duca alla domanda di Ginoli, che aveva dimenticato di ritirar le poste. - S’è già confessata... - Ginoli vinceva sempre con una vena implacabile che l’inchiodava al suo posto, e non teneva allegri neppure i suoi compagni di giuoco. Accusasse un cinque o chiamasse un sette, tutte le follìe di un giuocatore inesperto che voglia fare lo spaccone, o che abbia perduta la testa, gli giovavano invece a sventare le astuzie dei suoi avversari, i quali non sapevano più a che santo votarsi, e maledicevano in cuor loro gli uccelli di malaugurio che vanno in giro a portare la disdetta e le cattive nuove. Santa-Sira, il quale aveva già le orecchie infocate, saettò di nascosto un’occhiata sul duca. Ma Lionelli, il quale aspettava la rivincita, e temeva che Ginoli lasciasse le carte, osservò garbatamente che in tal caso non conveniva andare in casa Delfini quella sera... per non disturbare... Altri approvarono, guardando alla sfuggita Ginoli a cui tremavano le mani nel dare le carte, e luccicavano delle goccioline di sudore sulla fronte, quasi perdesse tutto sulla parola; e Domitilla discretamente cambiò discorso, per riguardo a Ginoli che teneva il banco, e di cui conoscevasi la relazione con donna Vittoria. - Peraltro si facevano pochi discorsi, ciascuno avendo da pensare ad altro, con quella maledetta partita che s’era fatta più seria che non si credesse, e che sarebbe stata un disastro per qualcheduno, se Ginoli non fosse stato quel gentiluomo che era, e non avesse capito che gli conveniva continuare a giuocare, come facevano tutti gli altri amici di donna Vittoria, per la riputazione di lei. Con una partita così grossa, nessuno avrebbe voluto tenere il banco per lui. - Tanto da lasciarmi tirare il fiato, - aveva egli detto sorridendo, quasi l’emozione della vincita fosse stata realmente tale da togliergli il respiro. Finalmente, quando poté correre in casa Delfini, dopo una serie fortunata di zeri che gli riconciliò i suoi amici del Circolo, era circa mezzanotte. Domitilla aveva voluto accompagnarlo per salvare le apparenze. Salendo la scala gli disse: - Bada... sei ancora tutto sottosopra... - Nel salotto c’erano dei parenti, una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e moglie, zii, per parte di madre, di donna Vittoria. La zia parlava di cure portentose, di guarigioni insperate. Gli altri tacevano, senza ascoltare. La contessa Roccaglia parve molto sorpresa di veder comparir Ginoli, e rivolse la parola a Domitilla, per salvare le apparenze: - Non sapevate... povera Vittoria!... - Allora Ginoli dovette ascoltare le osservazioni della zia, ch’era stata nella camera dell’inferma, e balbettare delle condoglianze comuni, dinanzi a tutti quegli occhi fissi su di lui. Di tanto in tanto passava un domestico frettoloso; una cameriera socchiudeva discretamente l’uscio delle stanze della signora. Un momento si vide far capolino anche il marito di lei, pallidissimo, che scomparve subito. Nel salotto discorrevasi a voce bassa, con parole tronche, con un vago senso di malessere e di fastidio reciproco. Lo zio guardava l’orologio tratto tratto. Poi succedevano dei lunghi intervalli di silenzio che pesavano su tutti, quasi d’attesa funebre. A un certo punto l’uscio si spalancò e comparve prima l’istitutrice, col fazzoletto agli occhi, reggendo la fanciullina che sembrava svenuta; e il padrone di casa attraversò il salotto barcollando, senza salutare nessuno, fissando soltanto uno sguardo singolare su Ginoli che aveva chinato il capo. Dall’uscio rimasto aperto udivasi il rumore di un affaccendarsi frettoloso, nelle stanze dell’inferma. La cameriera era venuta correndo a prendere un candelabro dal caminetto. Allora gli zii e la vecchia signora le erano andati dietro. Come Ginoli si era alzato anche lui, vacillante, pallido come un cadavere, quasi non sapesse più quel che si faceva, la contessa Roccaglia lo fermò sull’uscio, dicendogli piano: - No... S’è confessata or ora... s’aspetta il Viatico... - Si udì il suono funebre di un campanello, e uno scalpiccìo di gente che saliva. Ginoli, dileguandosi come un’ombra, quasi inseguito dallo squillare di quel campanello, vide un’altra ombra in fondo all’anticamera, dinanzi a cui dovette chinare il capo, irresistibilmente.


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